Una breve nota sul disgusto.
Di recente sul tema del disgusto, e del rifiuto che spesso lo forma, sono usciti numerosi lavori che, per certi versi, hanno rivisto il modo d’interpretarlo. Se vogliamo indicare una data a aprire il dibattito qualche anno fa è stato un film The meaning of life (Il senso della vita) del 1983 dei Monty Python, un gruppo comico inglese che, con questo film, ha vinto la Palma d’oro al Festival di Cannes.
Su questo tema c’è già qualche appunto nel sito, vediamo d’integrarlo anche con il tema del rifiuto.
Come già sottolineato il disgusto non è assolutamente il contrario del gusto, ma è un paradigma a se stante.
Per intenderci, mentre il gusto esprime sempre una dimensione soggettiva e appartiene alla sfera della nostra sensibilità culturale, il disgusto è una sensazione che ingloba in sé il mondo fisico e la morale come una sua rappresentazione o, da un punto di vista fenomenologico, ne è una sua espressione retorica.
Le discipline che lo studiano o, meglio, lo affrontano, sono diverse. Molti lo definiscono un rompicapo epistemologico per la difficoltà a fissarne i confini e per la sua mutevolezza.
È indagato dall’antropologia culturale, dalla psicologia, dalle scienze cognitive, dalla biologia, perfino dalla filosofia del pensiero.
Di recente poi, per cercare di definirlo, sono entrati in campo anche i dietologi, gli igienisti, gli specialisti delle malattie tropicali. Perché?
Possiamo far partire tutto da un’osservazione empirica, i bambini fino a circa tre/quattro anni e gli scimpanzé – come dire, ciò che siamo diventati e ciò che siamo stati – si mettono in bocca tutto e in genere non provano disgusto per nulla. O meglio, il bambino o lo scimpanzé se assaggiano qualcosa che non piace loro lo sputano, ma non perché provano disgusto.
In concreto il disgusto non si può insegnare e non si può apprendere con l’insegnamento.
È connaturato ai meccanismi dell’auto-coscienza e si suppone che si manifesti quando questi meccanismi – condizionati dalla cultura – sono maturi.
Sappiamo anche che gli animali che sono privi di autocoscienza non sviluppano il disgusto e dunque non lo provano.
Il disgusto fisico è un’emozione selettiva che coinvolgei sensi, ma non il senso dell’udito. Se ne deduce che questo senso estremamente complesso non è collegato ai meccanismi che trasmettono il disgusto alla coscienza.
Il disgusto come espressione socioculturale si manifesta quando ci sono consolidati principi morali, oppure convinzioni, pregiudizi, abitudini, ma anche ossessioni, fantasmi, compulsioni, pulsioni anali.
Spesso il disgusto socioculturale si confonde o si mescola al disprezzo, al rifiuto e all’indignazione anche perché i meccanismi nervosi che lo generano sono in parte comuni.
Se consideriamo come si evoluto il disgusto nel tempo storico e nello spazio vissuto, il posto che occupa tra natura e cultura è ambiguo.
Charles Darwin che lo ha studiato con attenzione rimase meravigliato del suo modo di formarsi.
Darwin osservò senza riuscire a farsene una ragione come una minestra sbrodolata su una barba è disgustosa mentre di per sé né una minestra né una barba lo sono.
Per i francesi le lumache sono Delikatessen, ma ci sono delle ricerche che dimostrano come alcune culture non mangerebbero una lumaca per nessuna ragione al mondo.
In molti individui la vista di gente drogata, trasandata o ubriaca attiva i centri nervosi del disgusto e della paura.
Questo ci suggerisce che il disgusto può spegnere o annebbiare i meccanismi nervosi dell’empatia e della compassione, che sono forme di amore anche se deboli.
I primi studi di una certa ampiezza sul disgusto risalgono alla prima metà dell’800, il secolo delle scienze sperimentali.
Un tempo lo si considerava una reazione ai cibi amari o troppo salati.
Karl Rosenkranz, uno dei più brillanti allievi di Hegel, definisce il disgusto come la deformazione delle forme a seguito di una putrefazione fisica o morale.
Di fatto, questi studi, nel complesso, non sono arrivati a nulla e non hanno spiegato molto di questo fenomeno.
In generale sono disgustosi i prodotti di naturaorganica come il sudore, gli escrementi, il vomito, il catarro, la saliva, lo sperma, salvo poi apprezzarli o tollerarli con coloro con cui dividiamo il nostro self, la nostra identità soggettiva. Disgustosi ci appaiono certi luoghi, come gli stagni pieni di piante marcite, i corpi in putrefazione e gli animali che se ne nutrono, topi, vermi, scarafaggi, rospi.
Va anche notato come il cattivo odore moltiplica sempre la sensazione di disgusto.
La filosofia d’impronta fenomenologica negli anni ’30 del secolo scorso considerava il disgusto un meccanismo di difesa anche se non sempre ciò che è disgustoso e pericoloso.
Una lumaca bavosa può essere disgustosa ma non è pericolosa. Un terremoto non è disgustoso, ma è pericoloso.
La psicoanalisi, sempre intorno agli anni ’30 del secolo scorso stabilì delle connessioni tra ciò che è disgustoso e tutto ciò che striscia, s’insinua, s’annida, secerne. Perché? Perché sono rappresentazioni di un sinistro modo di apparire della vita.
C’è anche da osservare che il disgusto e la paura aumentano più la cosa disgustosa e vicina alla bocca e diminuiscono più sono vicini ai piedi.
In termini funzionali possiamo dire che il disgusto è scaturito da scopi ed esigenze che sono spariti dalla nostra vita corrente, anche se hanno lasciato delle tracce, e che esso oggi ricompare in noi sotto forme diverse e recuperate. È evidente, per esempio, che oggi il disgusto è parte integrante dei meccanismi dell’intolleranza razziale e dell’avversione per il diverso.
Vediamo adesso di traguardarlo con un altro tema, quello del rifiuto a partire da alcune osservazioni di Elias Canetti.
Canetti (1905-1994) è stato uno scrittore e saggista bulgaro di lingua tedesca naturalizzato inglese.
Nel 1981 è stato insignito del Nobel per la letteratura. È considerato l’ultima grande figura della cultura mitteleuropea. Il libro che lo ha reso famoso s’intitola Massa e Potere, fu pubblicato nel 1960. Canetti lavorò su questo libro per quarant’anni, facendo confluire sul suo tema riflessioni filosofiche, sociologiche, storiche e politiche.
In una delle sezioni dell’opera dedicata agli organi del potere, Canetti, con una certa spregiudicatezza intellettuale, mescola osservazioni psico-analitiche e antropologiche con il modo di formarsi del dominio e delle forme di controllo.
Proviamo a leggere e a commentarne alcuni passaggi.
Va premesso che questo autore ha scorto delle somiglianze funzionali tra il modo di formarsi delle mute degli animali predatori e le masse d’individui, intese come un insieme più o meno indifferenziato d’interessi. En passant, visto che siamo nell’ambito del food design ricordiamo che il termine massa deriva dal greco maza che indica l’impasto per fare il pane.
Scrive Canetti: Il vero e proprio atto d’incorporare la preda comincia dalla bocca. Essa era guidava in origine da tutto ciò che era commestibile. Poi la bocca inghiottiva e spingeva la preda nel suo viaggio attraverso il corpo. Durante tale viaggio la preda era metamorfizzata e sfruttata, le veniva sottratto tutto ciò che poteva essere da un punto di vista alimentare utilizzato.
Di essa non rimaneva che un po’ di rifiuti e un odore disgustoso.
Scrive Canetti questo processo con cui si conclude ogni conquista animale, è particolarmente istruttivo per conoscere l’essenza del potere. Chi vuole dominare gli uomini cerca sempre di svilirli, di privarli della loro forza di resistere, di sottrarre loro i loro diritti perché lo scopo del dominio è sempre quello di incorporarli e di sfruttarli.
Al potere poi è indifferente ciò che resterà di loro. Infatti, quando non costituiscono più nulla di utilizzabile, il dominio se ne libera di nascosto, come fa con i propri escrementi, preoccupandosi che non appestino l’aria della sua spazio vitale.
Va da sé, scrive sempre Canetti, il dominio non ammetterà mai di comportarsi in questo modo e siccome non fa macellare i suoi sudditi nei mattatoi e non li trasforma in un vero e proprio cibo per il suo corpo, negherà di sfruttarli e di digerirli. Anzi, formalmente è lui che dà loro da mangiare.
Ma anche prescindendo dal dominio, prosegue Canetti, il rapporto di ogni uomo con i suoi escrementi rientra nella sfera del potere. Nulla è appartenuto a un uomo più di ciò che si è trasformato in escremento. Si tratta di un processo così naturale, così spontaneo ed estraneo alla coscienza, che se ne sottovaluta l’importanza. Così ogni giorno si digerisce e si torna a digerire.
I rifiuti che rimangono al termine di questo processo sono una rappresentazione di ciò che siamo.
Da essi si può capire cosa o chi noi abbiamo ucciso. Sono una raccolta di indizi e puzzano come i nostri peccati quotidiani, reiterati e ininterrotti. Noi ci liberiamo dei nostri escrementi in locali particolari che servono solo a questo scopo. L’uomo è veramente solo, commenta Canetti, soltanto con i suoi escrementi.
Proviamo a trarre qualche conclusione da queste riflessioni di Canetti.
Da esse se ne deduce che prima ancora di essere necessari alla costruzione consapevole dell’identità soggettiva secondo modelli condivisi, i processi di scarto e di rifiuto costituiscono tout court la forma attiva dell’identità. In altri termini, nella costruzione del sé, anche sul piano simbolico,prima ancora di scegliere cosa acquisire e cosa scartare, siamo costretti a divorare per affermarci.
Allo stesso modo, prima ancora di elaborare delle strategie di controllo, di sfruttamento e di esclusione delle categorie considerate inferiori, i sistemidipotere si sono strutturati attraverso il divoramento sociale, economico e culturale delle forze vive della società che poi hanno trasformato in escrementi maleodoranti.
Tuttavia, quanto più articolato e complesso nella storia di una civiltà è il bisogno di affermare la propria identità, sia sul piano individuale che su quello collettivo, tanto più grande diventa la massa di ciò che è stato rifiutato, ovvero, digerito, sfruttato ed espulso.
In questo senso la modernità ha prodotto, nel giro di alcuni decenni, una gigantesca mole di rifiuti interni ed esterni, geografici e psichici, localizzabili fisicamente.
Man mano che l’identità occidentale è andata costruendosi sia sul piano individuale che su quello collettivo, ha avvertito la necessità di isolarsi nell’atto escrementizio e di isolare l’escremento, sottoponendosi ad un’attenta profilassi nei confronti del rifiuto, dello sporco, dell’inferiore.
Così facendo, però, non ha potuto evitare la crescita esponenziale del materiale rifiutato, così come la necessità altrettanto fisiologica di consentire, di tanto in tanto, la contaminazione e/o il ritorno di ciò ch’era stato digerito, sfruttato ed espulso.
È facile, anche se appare di pessimo gusto, trovare esempi di ciò nella storia occidentale, a cominciare dall’ossessione dell’Altro che puzza, ebreo, nero o islamico che sia.
L’Occidente si è a lungo esercitato nell’arte escrementizia per accrescere la propria potenza, non senza essere attratto da ciò che respingeva. Lo vediamo di riflesso proiettato nella fiorente industria dei sanitari o se volete nel fatto che un orinatoio intitolato Fountaine firmatoMutt – in realtàMarcel Duchamp – è considerata l’opera d’arte più significativa del ventesimo secolo.
Questa sorta di metafora storico-sociale conferma il principio generale, secondo cui l’odio è contiguo all’amore e condivide il suo etimo con odore.
Detto in altri termini, l’incorporazione dal punto di vista dell’identità è strutturalmente ambigua e storicamente variabile. Storicizzando l’analisi di Canetti sul nutrimento è possibile delineare una sorta di schematica stratificazione del rifiuto.
Il primo livello è quello biologico, elementare, del metabolismo individuale.
La metamorfosi metabolica del nutrimento che penetra nel corpo e poi è rifiutato, nega l’identità corporea come solidità, purezza e separazione. È un tema chiave in molte religioni.
Viceversa, l’identità corporea individuale si rivela essere prodotta di continuo attraverso violenza, sfruttamento, sporcizia ed espulsione solo parzialmente controllabile.
Questo primo livello costituisce il fondoopaco, l’in-sé, per usare un’espressione di Jean-Paul Sartre o della filosofia tedesca del Novecento.
Il secondo livello è quello psichico. Incorporare l’altro equivale a rifiutarlo per identificarsi con lui (si consideri la contiguità di odio e amore).
Il terzo livello è quello storico-sociale. In questo livello può essere tematizzata la questione del passaggio dalla modernità all’attuale fase del metabolismo identitario.
La modernità ha infatti conferito al metabolismo psichico degli individui e delle masse una specifica forma storica, determinata da due fattori complementari: il principio dell’ordine e quello dell’economia nella forma di capitale.
Come ha ripetutamente affermato la filosofia nel corso di questi ultimi quattro secoli (dal XVI al XX), l’Occidente ha costruito il proprio ordine culturale, politico ed economico, che si riassume in un nomos planetario, come dice Carl Schmitt.
Per chi non ha studiato filosofia diciamo – in modo molto grossolano – che in greco il termine phisis indica la natura, mentre il termine nomos costituisce la legge positiva della polis, cioè l’ordinamento del mondo, la legge.
In breve noi operiamo grazie ad un complesso meccanismo di espulsione sempre più intensiva dei rifiuti e secondo l’ideale del “giardino”,dell’hortus conclusus.
Un ideale che ha permeato sia l’ideologia dell’igiene borghese, che quella totalitaria.
Lo spazio interno della nostra civiltà, recintato e protetto, è stato coltivato e tenuto pulito, buttando ‘fuori’ le erbacce e la sporcizia – ovvero i resti scomodi dell’incorporazione/sfruttamento.
Con la globalizzazione, però, l’illusione moderna di respingere i rifiuti fuori di noi o di riciclarli nelle forme seducenti del benessere e del godimento, si è esaurita.
Si è esaurita non solo a causa della sparizione del ‘fuori’, ma anche in virtù di una spaventosa incertezza e diseguaglianza riguardo al godimento dei diritti sociali. Di fatto ci ritroviamo ad essere noi stessi, noi occidentali, dei potenziali rifiuti – rifiutati, oltre che sommersi dalle scorie in eccedenza.
L’economia globalizzata non è più in grado di gestire la globalizzazione secondo l’ideale del giardino: le forme ordinate del controllo e della pianificazione hanno lasciato il posto al disordine, all’inquinamento, al divario economico abissale fra Nord e Sud del pianeta.
Soprattutto hanno fatto esplodere nell’immaginario collettivo il carattere ‘interno’, fantasmatico e insopportabile del rifiuto dell’Altro da noi.
Eppure, il vero e proprio ribrezzo generato dal rifiuto indica paradossalmente il fallimento dell’immaterialità che ci era stata promessa dall’esperienza ‘globale’ del mondo.
La materia, che avrebbe dovuto essere esorcizzata dalla mondializzazione tecnologica e riassorbita nel paesaggio virtuale, ha fatto irruzione nell’esperienza individuale e collettiva incarnando in forme sempre più brutali la metafora alimentare di cui parla Canetti: esplosioni, epidemie, mutilazioni, rovine, smembramenti e liquami hanno invaso l’immaginario, sfruttando, anziché piegarsi alla straordinaria amplificazione del virtuale.
È come dire che i rifiuti mostrano di poter tornare come doppi negativi di coloro che li hanno rifiutati, come residui ostili del metabolismo economico globale. Si pensi ai flussi migranti o, in piccolo, al tema riassunto dall’acrostico di nimby, not in my back yard, non nel mio giardino.
In parte si tratta, come sostiene il sociologo polacco Zygmunt Bauman, della perdita della forma solida della modernità e della sua trasformazione in una modernità liquida – alludendo con questa espressione alla incapacità di ordinare e governare le situazioni e di indirizzarne i processi.
Per concludere è forse per questo che la cultura occidentale è affascinata da ciò che la rifiuta, come dal proprio fantasma: rivelando l’infantilità di ogni cosiddetto scontro di civiltà.
Fine.
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