Il Paesaggio.
Qualunque discorso sulla natura del paesaggio, in antropologia culturale, non può non partire dal saggio di Georg Simmel (1858-1918) sulla Filosofia del paesaggio.
Il perchè lo dobbiamo allo sviluppo della filosofia dell’estetica dopo Immanuel Kant, di cui Simmel è stato uno dei protagonisti, che ha lavorato sul tema del paesaggio in quanto fucina di esperienze estetiche.
C’è poi la centralità che il paesaggio ha acquisito da molti decenni nella cultura occidentale e l’importanza che ha assunto per lo sviluppo della nostra sensibilità.
Questa centralità è in prima istanza una conseguenza del fatto che siamo passati da una società industriale a una società post-industriale e, in seconda istanza, che ampi spazi di territorio abbandonati in passato si sono resi disponibili per una riqualificazione.
Infine va considerato l’importante incremento del nomadismo dovuto al turismo e ai nuovi stili di vita abitativi più o meno improntati alla mobilità.
Da tempo sappiamo anche che la percentuale di popolazione che vive nei centri urbani sta per superare, e in molte parti del mondo lo ha già fatto, quella residente nelle campagne.
Il fatto è significativo sotto molti punti di vista, parlando di paesaggio perchè è soprattutto un’invenzione dei cittadini e della città.
O, meglio, della città che si è diffusa nella campagna dando luogo a una disseminazione d’insediamenti che, tra l’altro, rende impossibile fissare un confine tra queste due realtà.
Sul piano della sensibilità la rivalutazione del paesaggio passa anche attraverso una nuova interpretazione dello spazio e il rifiuto sempre più convinto di una opposizione tra artificio e natura.
Tra le molte definizioni quella che indica il paesaggio come una forma di natura percepita attraverso la cultura è la più diffusa, ma questo significa che per vedere un paesaggio ci vuole una riflessione che lo estragga dalla sua condizione di mero dato sensibile, vale a dire, per vedere un paesaggio ci vuole una teoria.
Va tenuto presente che il fenomeno paesaggistico è l’oggetto di riflessione di molte discipline ognuna delle quali lo impiega in un’accezione propria, come è il caso della geografia, dell’ecologia, dell’estetica, dell’architettura e non da ultimo dell’antropologia.
Ciò detto, si deve anche costatare che nella tradizione europea il concetto di paesaggio è nato e ha preso forma come concetto estetico.
La stessa storia della parola lo sta a dimostrare.
E’ sufficiente notare come nelle lingue germaniche l’etimologia del termine è diversa da quelle neolatine.
Nelle prime la parola che significa paesaggio deriva da Land (terra), invece in francese, italiano e spgnolo la radice rinvia a paese: paysage, paesaggio, paysaje.
Ancora, a differenza delle lingue germaniche nelle lingue neolatine i termini che rimandono a paesaggio sono tutti neologismi che appaiono tra la fine del Quattrocento e la prima metà del Cinquecento, nati soprattutto per indicare non il paesaggio reale, ma la sua rappresentazione, vale a dire, il paesaggio dipinto.
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Prima di procedere vediamo un’espressione che spesso si lega alla nozione di paesaggio, il panorama.
Questo termine deriva dal greco pan (che in questo caso vuol dire tutto) e dal verbo greco io vedo, si riferisce, in genere, a un’ampia veduta di una certa area (per esempio, la veduta di una valle o di un lago da una posizione elevata).
Ma a noi interessa un’altra accezione dell’espressione panorama, conosciuta anche come ciclorama, cosmorama o kosmorama.
Era uno tipo di intrattenimento molto popolare tra il XVIII e il XIX secolo.
Consisteva in una stanza circolare, con le pareti coperte da un disegno di una veduta a trecento sessanta gradi che, che ricreava l’illusione di un paesaggio che circondava lo spettatore.
L’illuminazione proveniva solitamente dal soffitto, poi con la diffusione dell’ elettricità si iniziò a usare stanze illuminate artificialmente.
Il primo panorama fu costruito a Londra alla fine del 1700 da Robert Barker, consisteva in una veduta panoramica della città di Londra, costruita in maniera tanto precisa e dettagliata che gli spettatori vi potevano individuare la strada se non addirittura l’edificio in cui essi vivevano.
A noi interessa qui ricordare anche un’altra eccezione dell’espressione panorama conosciuta e molto popolare in Inghilterra con i nomi di diorama, moving panoramas, dissolving views, ecc.
Alcune vedute avevano effetti tridimensionali, altre, grazie all’uso di luci speciali, simulavano il passaggio dalla notte al giorno, altre ancora ruotavano o avevano dettagli in movimento.
Oltre a dei soggetti naturalistici, tra cui terre lontane e esotiche, monumenti vari, iniziarono ad essere popolari anche le ricostruzioni di battaglie, terrestri o navali, i disastri, come i terremoti, le vedute fantastiche con mostri immaginari.
I panorami sono ritenuti tra quelle forme di spettacolo di massa che precedettero l’invenzione del cinema.
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Torniamo al paesaggio.
Per l’antropologia è la particolare fisionomia di un luogo determinata dalle sue caratteristiche fisiche, antropiche, biologiche ed etniche.
In questo senso è imprescindibile dall’osservatore e dal modo con il quale viene percepito, interpretato e vissuto.
Come abbiamo osservato ìl termine di paesaggio deriva dalla commistione del francese paysage con l’italiano paese, oggi questo concetto oltre ad essere oggetto di studio in differenti ambiti di ricerca, è attraversato da significati talmente ampi e compositi da rendere difficile una sua definizione univoca.
Per comprenderne il paradigma conviene partire dalla Convenzione Europea sul paesaggio che ha introdotto in Europa delle nuove modalità per la considerazione e la gestione della dimensione paesaggistica del territorio.
Questo approccio si caratterizza, soprattutto, per aver riconosciuto al paesaggio la qualità specifica di concetto giuridico autonomo, cioè di patrimonio che può e deve essere tutelato.
Si può dire che il paesaggio è stato riconosciuto un elemento chiave per il benessere individuale e sociale, con la conseguenza che la sua salvaguardia, la sua gestione e la sua progettazione comportano diritti, doveri e responsabilità individuali e politiche.
Da queste considerazioni ne è derivato un diritto al paesaggio sempre più sentito e difeso.
In termini fenomenologici il paesaggio configura la forma di un luogo, creata dall’azione cosciente e sistematica della comunità umana che vi è insediata, sia in modo intensivo (come sono gli insediamenti urbani) che estensivo (come sono gli insediamenti agricoli o a basso tasso abitativo).
Insediamenti che interagiscono con l’ambiente e che concorrono a far emergere e a definire i segni della cultura che lo abita.
Per altri versi e nella modernnità l’espressione di paesaggio non costituisce più l’equivalente di bellezze naturali o storico-artistiche, ma rappresenta una delle componenti dell’ambiente e, specificatamente, la componente etico-culturale.
Così, abbandonata la sintesi “bellezze-naturali-uguali-paesaggio”, l’accento si è spostato dalla dimensione meramente estetica del territorio al più complesso concetto di bene ambientale.
Pensato in questo modo il paesaggio è mutato in un patrimonio che va riconosciuto, apprezzato e tutelato giuridicamente e economicamente.
Oggi quasi tutte le legislazioni dei paesi occidentali riconoscono al paesaggio la condizione di bene ambientale e culturale, di portatore di una sua specifica identità che riflette la sensibilità estetica di chi lo abita.
Da questo punto di vista il paesaggio è ora un prodotto sociale che non rappresenta un bene statico, ma un patrimonio dinamico.
In base a queste caratteristiche si può dire che il paesaggio è sempre più considerato in relazione con l’azione dell’uomo.
In altri termini la percezione del paesaggio è il frutto di un’interazione tra:
– la soggettività umana,
– i caratteri oggettivi dell’ambiente (antropici o naturali)
– e i mediatori socio-culturali legati al senso di identità che una cultura riconosce in un dato momento su un determinato tipo di ambiente.
Ne deriva che il paesaggio non coincide più con la realtà materiale (quindi con l’immagine statica di un luogo) perchè l’azione dei mediatori socio-culturali e della soggettività umana determinano un effetto di produzione di senso.
Questo vuol dire che un paesaggio comprende sia la realtà, che l’apparenza di questa realtà, cioè la sua rappresentazione.
In sintesi, così definito il paesaggio è anche una forma di linguaggio.
In altri termini non esiste un paesaggio senza una sua rappresentazione visuale-narrativa attraverso la quale la cultura manifesta le proprie aspirazioni e partecipa al processo di scambio tra l’uomo, la natura e i congegni di mediazione tra queste due realtà.
Filmato numero uno.
Ha scritto qualche tempo fa Giuliana Andreotti in, Paesaggi culturali. Teoria e casi di studio (Milano, 1996):
Il paesaggio non è soltanto qualcosa da costruire o tutelare, ma prima ancora qualcosa da riconoscere, percepire, ascoltare e descrivere.
Il paesaggio è (dunque) l’ipostasi (cioè, la sostanza o la vera essenza) della storia di un territorio.
In altri termini, il paesaggio è un aspetto sostanziale dell’etica, dell’estetica, dell’architettura di un luogo a tal punto che il progresso, la decadenza, la carestia, l’abbondanza, gli effetti della guerra o quelli della pace, la sua dimensione storica o mitologica sono inscritti nel suo profilo narrativo e sono interpretabili culturalmente.
Ancora una volta ricordiamo, però, che il concetto di paesaggio nella cultura umanistica occidentale è un concetto moderno e non in tutte le epoche è esistito.
La sua evoluzione (inoltre) è strettamente correlata con l’evoluzione del significato assegnato alla natura.
Nei limiti della nostra esposizione perché una società sia considerata paesaggistica deve soddisfare ai seguenti criteri:
– esistenza e uso del paesaggio in quanto paesaggio.
– esistenza di una letteratura sui paesaggi e sulla loro bellezza o sulla loro morfologia.
– esistenza di rappresentazioni pittoriche dei paesaggi.
– esistenza di parchi e giardini.
Questi criteri sono sulla falsariga di quelli che propose qualche anno fa il geografo francese Augustin Berque.
Oggi sono ritenuti superati perché si ritiene che non possono essere generalizzati, ma che ogni cultura ha il diritto di elaborarne di propri a partire dalla propria sensibilità verso l’ambiente.
In ogni modo e in base a questi criteri la prima società paesaggistica di una certa importanza fu la Cina, a partire dal quarto secolo dell’era comune.
In Europa bisognerà aspettare il sedicesimo secolo per trovare tutti questi elementi sufficientemente diffusi.
Una curiosità.
Gli studiosi di letteratura fanno risalire la prima descrizione di un paesaggio a Francesco Petrarca (1304-1374).
Lo deducono dal testo della sua famosa lettera sull’ascesa del monte Ventoso, in Provenza, oggi definito dall’Unesco una riserva di biosfera, soprattutto per la sua geologia e la sua flora.
In ogni modo, essendo il paesaggio un processo evolutivo e non un’entità immutabile nel tempo, il suo studio deve partire dal passato, ma deve soprattutto proiettarsi nel futuro o, almeno, in quello che le tendenze attuali suggeriscono che esso sia.
Va anche osservato che nell’ambito della narratologia paesaggistica, la geografia umana tende a privilegiare gli aspetti culturali, simbolici e emotivi.
In questo modo il paesaggio risulta espresso attraverso modalità soprattutto soggettive.
E’ l’esito di uno sguardo sul territorio, che lo storicizza.
Le ricerche geografiche degli ultimi decenni del Ventesimo secolo hanno messo in luce l’impossibilità di definire in modo univoco il paesaggio.
Così, di esso esistono più nozioni, molte di esse meritevoli d’attenzione, altre contraddittorie.
E’ un’osservazione da tenere presente per valutare il lavoro della Commissione Europea che lo ha analizzato, studiato è riassunto in un unico documento.
La Convenzione Europea del Paesaggio è un documento adottato dal Comitato dei Ministri della Cultura e dell’Ambiente del Consiglio d’Europa, riunitosi a Firenze nel luglio del 2000.
Questa convenzione è stata firmata dai ventisette Stati della Comunità Europea e ratificata da dieci, tra cui l’Italia nel 2006.
Definizione di “paesaggio”:
“Paesaggio definisce una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni.”
(Capitolo 1, art. 1)
Oltre a concordare su una definizione di paesaggio la convenzione ha poi disposto i provvedimenti in tema di riconoscimento e tutela, che gli stati membri si impegnano ad applicare.
In questi provvedimenti sono definiti le politiche, gli obiettivi, la salvaguardia e la gestione relativi al patrimonio paesaggistico.
Patrimonio di cui è riconosciuta l’importanza culturale, ambientale, sociale, storica quale parte del patrimonio europeo e elemento fondamentale per garantire la qualità della vita delle popolazioni.
Come è facile costatare in questa definizione emerge la natura antropica del paesaggio, ovvero l’importanza ricoperta dal ruolo dell’azione umana.
Questo ruolo è descritto come l’aspetto formale, estetico e percettivo dell’ambiente e del territorio.
La Convenzione prevede, inoltre, la salvaguardia di tutti i paesaggi, indipendentemente da canoni prestabiliti di bellezza e/o originalità, e include espressamente:
“ …i paesaggi terrestri, le acque interne e marine, così come i paesaggi che possono essere considerati eccezionali, sia i paesaggi della vita quotidiana, sia i paesaggi degradati.”
(Art. 2)
Fino a che punto arriva la degradazione? Una delle isole di plastica nell’oceano. filmato 2
Il concetto di paesaggio degradato è quello che più interessa l’antropologia culturale sia per la sua complessità che per la sua varietà.
Si pensi solo agli habitat compromessi dall’uomo, con le guerre, le attività estrattive, di deforestazione, di costruzione delle infrastrutture di trasporto, ecc…
In sede scientifica è invece opportuno riconoscere la specificità di ogni approccio, per metterne in luce la diversità, in quanto ciascuno consente di cogliere una delle tante facce del paesaggio, come prova la stessa storia dell’arte.
Possiamo dire che a partire dall’arte bizantina (quella che si è sviluppata in Europa tra il quarto secolo e il quindicesimo secolo) i pittori e gli artisti riservavano, in modo deliberato, una parte delle loro opere alla descrizione dello spazio e del paesaggio in cui si svolgevano le azioni rappresentate.
Tra le rappresentazioni più famose del paesaggio nel Medioevo si può segnalare l’affresco dell’Allegoria e Effetti del Buono e del Cattivo Governo (1338) di Ambrogio Lorenzetti (1290-1348).
In Italia poi le tecniche di rappresentazione pittorica cambiarono con l’arrivo dell’influenza della miniatura francese e della pittura fiamminga.
Nel senso che gli scorci paesistici divennero sempre più curati, in modo da evidenziare i soggetti in primo piano e rendere la composizione più monumentale, con il ricorso a scorci suggestivi e di ampio respiro.
Invece la nascita del paesaggio come genere autonomo risale alla seconda metà del Quattrocento, tra i protagonisti di questa svolta vanno segnalati prima Leonardo da Vinci (1452-1519) e poi Albrecht Dürer (1471-1528)
Ancora va anche ricordato come nei dipinti di Piero della Francesca (1412-1492) si riscontrano scorci ed inserti di paesaggio che fanno da sfondo per la rappresentazione della figura umana collocata in primo piano.
Poi, con la Vergine delle rocce e la Gioconda di Leonardo da Vinci si fa un ulteriore passo in avanti, entra nella scena figurativa oltre al paesaggio anche la resa atmosferica, vale a dire l’aria che diventa una cosa pittorica e che si interpone tra il primo piano e lo sfondo caricandolo di suggestioni.
Cartella dipinti.
Nel 1508 Giorgione 1477-1510) dipinge uno delle tele più belle della storia della pittura La tempesta.
Oggi è ritenuta la prima rappresentazione matura di un paesaggio per la presenza concomitante di natura, uomo, donna con bambino, (cioè, morte e vita), città e storia (rappresentata nel quadro dai resti archeologici).
Più in dettaglio.
Fra il Quattrocento e il Cinquecento, nella cosiddetta area fiamminga dell’Europa settentrionale, operarono molti specialisti della pittura di paesaggio, spesso con piccoli quadri di genere, destinati alla decorazione delle case borghesi.
Nelle zone di lingua tedesca, dove la Riforma protestante aveva allontanato la popolazione dalla cultura cattolica romana e dalle sue immagini religiose, vi furono i grandi interpreti del paesaggio nordico, come A. Dürer, i cui acquerelli vennero considerati i primi paesaggi puri della storia dell’arte.
A questi acquarelli si possono affiancare gli affreschi classicisti di Polidoro da Caravaggio in S. Silvestro al Quirinale a Roma (1525).
Oltre al particolare interesse della pittura veneta per il paesaggio (Giovanni Bellini e Giorgione), è nel Seicento che diventò un genere autonomo, con l’affermazione del paesaggio ideale immaginato da artisti come Claude Lorrain, Annibale Carracci, il Domenichino, Nicolas Poussin.
Sempre nel Seicento, si affermò anche uno stile realista, che rappresentò con grande verosimiglianza la terra e il mare olandesi.
Nel Settecento, poi, in tutta l’Europa il paesaggismo divenne una moda.
Soprattutto in Gran Bretagna operarono schiere di artisti (fra i più celebri John Constable, William Turner).
E’ importante notare che l’interesse per la pittura di paesaggio andò di pari passo con l’affermazione dell’estetica nella filosofica moderna, che aveva scoperto e teorizzava il cosiddetto sentimento del sublime.
Nel corso dell’Ottocento, si ricercò nel paesaggio vissuto un significato e un legame con la propria cultura.
Nei paesi di lingua tedesca, i maggiori artisti si dedicarono esclusivamente a dipingere la natura, questa scelta ebbe anche un significato politico, poiché si rivolse polemicamente contro il classicismo accademico francese.
In ogni modo in Francia i pittori di paesaggio diffusero la pratica della pittura all’aria aperta (en plein air), da cui si svilupperà l’impressionismo.
Sono i pittori della scuola di Barbizon, grazie anche alla disponibilità dei colori in tubetto, uscirono dagli atelier e affrontarono la natura dal vivo, con la sua luce variabile.
A questo proposito vale la pena di segnalare un ciclo di una trentina di dipinti composto tra il 1892 e 1894 da Claude Monet.
Monet dipinse la facciata della cattedrale di Rouen nei diversi orari della giornata e dell’anno (diverse luci, diversi colori, diverse stagioni rappresentate), sottolineando e lavorando sulle differenze cromatiche.
In questo modo il soggetto di questi dipinti, la cattedrale, divenne tanto importante quanto la luce stessa.
La luce, gli artisti lo sanno, è difficile da catturare se non altro perchè è in continuo mutamento.
Ma l’abilità impressionistica di Monet vince queste difficoltà, l’intreccio dei colori e l’uso brillante di tutte le texture gli servirono a creare una serie di immagini cangianti di luce e colore, facendone dei capolavori.
Dopo l’impressionismo, come sappiamo, le ricerche degli artisti d’avanguardia misero in crisi i generi pittorici.
Il paesaggismo fu superato dall‘attenzione al linguaggio, ossia al modo in cui il soggetto è rappresentato.
O, come diceva Marcel Duchamp il suo superamento è un effetto della crisi della pittura retinica.
Il paesaggio nella pittura cinese, in Turner, Monet e nel cubismo. Filmati 3 4 5 6.
Un altro tema significativo che si lega alla fenomenologia del paesaggio è il tema del paesaggio interiore.
Possiamo introdurlo con una citazione di Jorge Luis Borges.
Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. Trascorrendo gli anni, popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di navi, di isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto.
In buona sostanza possiamo dire il paesaggio interiore è il riflesso dello sguardo sul mondo che ogni individuo possiede.
In questo senso rapresenta una visione puramente soggettiva, legata indissolubilmente all’esistenza, ai ricordi e alle emozioni connesse ad un paesaggio.
Si può dire che il paesaggio esterno, oggettivo e tangibile che appare ai nostri sensi è sempre mediato da un paesaggio interno, nascosto e mutevole.
In altri termini il nostro vissuto è plasmato dalla presenza costante di questo paesaggio, fatto di persone, di cose, di immaginari, sempre presente nel dispiegarsi dell’esperienza.
In genere l’indagine sul paesaggio interiore mira ad analizzare i profondi legami che uniscono intimamente i luoghi alla personalità e al vissuto, ecco perchè il suo concetto ha nella lingua inglese una sua specifica definizione inscape.
Si può dire che l’inscape è una sorta di punto di vista interno che riflette il mondo circostante, fu usato come concetto per la prima volta dal poeta irlandese Gerald Manley Hopkins, vissuto nella seconda metà dell’800, per definire quel complesso di caratteristiche che conferiscono unicità ed esclusività ad un’esperienza individuale, risultando, così, differente da qualsiasi altra.
Vediamo adesso il paesaggio in una prospettiva più fenomenologica.
La nozione di paesaggio, come abbiamo già visto, non è sempre esistita.
“Paesaggio” nasce da “paese”, paese a sua volta deriva dal latino “pagus”, che indicava il territorio delimitato e abitato dall’uomo.
La parola paysage nasce alla fine del 400, e il suo uso viene attribuito dai dizionari etimologici per la prima volta al poeta Jean Molinet, nativo delle Fiandre, centro di origine e sviluppo della prima pittura di paesaggio.
Per questo alcuni ritengono che paysage sia nato sul calco dell’olandese Landschap e usato inizialmente dai pittori che volevano indicare il nuovo tema della propria pittura.
In seguito si assiste alla diffusione del termine nel corso del 500 nelle altre lingue europee.
Anche nei dizionari italiani dei secoli successivi citati da molti studiosi contemporanei, nel significato di paesaggio si sottolinea il legame con la pittura, con l’aspetto visivo del paese scelto come soggetto di pittura e non come luogo di affetti.
In altri termini il paesaggio viene considerato con lo stesso atteggiamento di distacco che utilizziamo per osservare un quadro o un’opera d’arte visiva.
In questo senso lo sguardo dell’osservatore è decisivo ai fini della sua definizione.
Per paese si intende a questo punto l’estensione del territorio abitato coltivato misurabile e quantificabile anche economicamente o demograficamente, mentre per “paesaggio” si intende il suo aspetto visivo, il punto di vista da cui lo si guarda o lo rappresenta in pittura.
Molti studiosi si sono occupati del paesaggio, tra i primi, lo abbiamo già ricordato, spicca il lavoro di Georg Simmel.
Nel saggio Philosophie der Landschaft scritto da Simmel tra il 1912 e 1913, l’idea di paesaggio è anzitutto presentata distinguendola accuratamente da quella di natura.
Il paesaggio non è natura, afferma Simmel.
Natura è infatti “l’infinita connessione delle cose, l’ininterrotta nascita e distruzione delle forme, l’unità fluttuante dell’accadere, che si esprime nella continuità temporale e spaziale.”, è “un’unità priva di contorni”che nel suo senso più profondo ignora l’individualità, in quanto non ha parti.
Per Simmel la natura è quel infinito e indifferenziato fluire, segnato dall’idea di continuità e dell’assenza di profili definiti e precisi, cioè dall’assenza di forme.
Paesaggio è invece una di queste forme, una delimitazione del tutto finita e dinamica della natura.
“La natura che nel proprio essere e nel proprio senso più profondo ignora l’individualità, viene trasformata nella individualità del paesaggio dallo sguardo dell’uomo, che divide e configura in unità distinte ciò che ha diviso”.
Dunque il paesaggio si staglia all’interno dell’infinità della natura come un organismo o un’opera d’arte, come un mondo a parte strutturato intorno a un significato.
Ne consegue che il paesaggio è qualcosa di organizzato nelle sue parti intorno a un centro, che si stacca e si staglia sullo sfondo di un infinito e indifferenziato fluire, ma che al tempo stesso non ha con esso spezzato e chiuso definitivamente ogni rapporto.
La natura in questo senso è il presupposto mai cancellato del paesaggio, è lo sfondo che ne costituisce un contesto metafisico e che quindi conferisce al paesaggio quell’elemento spirituale che esso ha in comune con l’opera d’arte.
Per Simmel la particolare forma di unità rappresentata dal paesaggio presuppone storicamente una vera e propria lacerazione (Losreissen), avvenuta nella modernità, del sentimento unitario della natura universale.
Si tratta di una rottura che avviene a livello del vissuto dell’uomo, e non solo di una delimitazione spaziale, di un orizzonte fisico che il paesaggio presuppone.
L’idea di fondo di Simmel è che il paesaggio nella modernità nasce quando si avvertono come limitanti i legami originari con la natura, quando le relazioni con essa diventano un freno per la formazione della personalità individuale.
Solo in conseguenza di questo disagio nasce la possibilità e l’esigenza di godere della natura nella sua forma individuale del paesaggio.
La storia del bello naturale dimostra che si ama sempre la natura che si è perduta.
Al contrario, è proprio la stretta relazione dell’uomo dell’antichità con la natura che impedisce come all’interno della cultura antica si formi l’idea del paesaggio, di cui manca anche la parola.
Bella, nel mondo antico, è la natura nel suo insieme, come cosmo ordinato retto da leggi geometriche conoscibili, da simmetrie ed equilibri razionali, entro i quali l’individuo si riconosce e si riflette come parte.
Diciamo che il paesaggio per Simmel è natura e, al tempo stesso, più che natura, è un costrutto culturale che trascende la natura stessa senza allontanarsi da essa.
Dunque il paesaggio (di per se) non è nulla di fisico, niente di dato e di oggettivo.
Ciò che esiste è la natura nei suoi infiniti elementi non unificati, che divengono degli interi (delle Gestalt) se lo sguardo dell’uomo ne inventa l’elemento spirituale e lo rende reale.
Di fatto non possiamo toccare un paesaggio, o camminarci attraverso, dice Simmel.
E’ una forma spirituale, è l’esito dell’attribuzione di un significato, vive solo in relazione all’uomo e diventa tale solo in esso.
Un altro autore che è stato sensibile al tema del paesaggio è Rosario Assunto (1915-1994), un filosofo italiano studioso di estetica. .
Assunto, in uno studio degli anni ’70 del secolo scorso, cerca una definizione filosofica di paesaggio, partendo dalla considerazione che anzitutto il paesaggio è spazio.
Ben sapendo che non tutto lo spazio è paesaggio.
Per esclusione, per esempio, possiamo escludere che lo spazio chiuso sia un paesaggio. Un interno è spazio, ma non è paesaggio.
Anche lo spazio illimitato non è paesaggio. Il cielo non è paesaggio.
Dunque il paesaggio è uno spazio aperto, limitato come gli spazi chiusi, ma non finito.
Per tornare alla pittura esso compare in quella fiamminga all’inizio del XVI secolo, in primo luogo attraverso la tecnica della finestra, che consente di bucare i fondali dorati medievali dando profondità alla scena.
In questo modo, tra l’altro, il paesaggio viene laicizzato, perché è reso indipendente dalla scena religiosa protagonista del dipinto e unificato perché si organizza intorno a un centro.
Assunto scrive anche che occorre un’unità di stile per dare forma al paesaggio, sia urbano che naturale.
Un paesaggio riconoscibile non tanto in base a semplici proporzioni geometriche, che sono al contrario mutevoli, ma alla specifica combinazione di forme che danno luogo a un intero, come avviene nelle opere d’arte.
Non è disponibile tuttavia una regola estetica definita e definitiva, ma si tratta di scoprire, di volta in volta, gli elementi che qualificano e individualizzano lo spazio rendendolo metaspazio.
Gli esempi sono di tipo letterario.
Sono le Marche di Giacomo Leopardi e il senso dell’infinito che nasce a partire da una veduta limitata.
È la Napoli di Hippolyte Taine in cui il quartiere di Chiaia sembra a un tempo come parte della città e del paesaggio extraurbano.
La Torino di Friedrich Nietzsche con le strade che sembrano portare diritte verso le Alpi.
La Heidelberg di Friedrich Hölderlin con la sua rocca, oltre che le Alpi di Jean-Jacques Rousseau e di Albrecht von Haller.
In questi sparsi esempi c’è quel incontro tra città e paesaggio che viene definito come metaspaziale in quanto i due elementi si qualificano a vicenda. La città comunica col paesaggio e il paesaggio con la città, i due termini non si escludono ma si arricchiscono reciprocamente.
Un altro studioso del tema del paesaggio è il francese Alain Roger.
Le sue posizioni, molto radicali, sono contenute in un libro intitolato, Court traité du paysage, pubblicato in Francia nel 1997 e recentemente tradotto anche in italiano..
Roger parte dalla domanda di fondo: qual è la frontiera, dal punto di vista dell’estetica, del paesaggio moderno?
Di fronte alla campagna e alla città attuale abbiamo davvero a disposizione modelli che ci permettano di comprendere e di interpretare ciò che abbiamo sotto gli occhi?
La risposta di Roger si articola a partire dal concetto di nudità percettiva, cioè di una incapacità di utilizzare nella modernità modelli estetici flessibili e dinamici che non si limitino ai canoni tradizionali.
Una condizione che gli appare simile a quella dell’uomo del Seicento davanti al mare o alla montagna.
Per Roger la città contemporanea appare come una grande rovina, un mondo nella spazzatura, un effetto di abbandono, di deiezione, di perdita.
Roger in sostanza parte dall’idea che non si dà bellezza naturale in quanto tale, essendo essa al contrario frutto di modelli culturali che noi proiettiamo sulla natura.
A differenza del paese ( inteso come Land) che è una parte delimitata della natura, il paesaggio, o meglio i diversi paesaggi, sono invenzioni culturali, che possiamo analizzare e situare storicamente.
Come ogni altra esperienza visiva, essi sono modellati sulla base di schemi artistici, e sono percepiti come tali attraverso l’azione di immagini estetiche e non viceversa.
Ciò che esiste in realtà è solo l’infinita molteplicità della natura che non ha in sé alcuna forma di bellezza, come dimostra il fatto che solo in certe epoche alcune sue manifestazioni sono percepite come fornite di valore estetico.
Un paese viene trasformato in un paesaggio attraverso ciò che Roger chiama, con riferimento a Montaigne, artialisation, che può avvenire in due modi:
– Il primo consiste nell’inscrivere direttamente il codice artistico nella materialità del luogo, sul terreno della natura, cioè nell’artialiser in situ.
Questa è l’arte millenaria dei giardini e, più vicina a noi, la corrente concettuale della Land art.
– Il secondo modo è indiretto.
Non si tratta di un intervento sulla natura, in situ, ma in visu, sullo sguardo collettivo, che si attrezza con modelli di visione, con schemi di percezione e di gusto.
Il paese rappresenta dunque per così dire il “grado zero” del paesaggio, quello che precede la sua artialisation in situ o in visu.
Questo è visibile nella storia del paesaggio, che mostra come parti della natura prima indifferenti o addirittura negativamente valutate siano diventate paesaggi solo in base a un mutamento dello schema estetico e culturale.
Solo la loro attuale familiarità ci porta a credere che la loro bellezza sia qualcosa di oggettivo e scontato.
Se ogni paesaggio è frutto della proiezione di schemi e di modelli artistici che negano la sua esistenza oggettiva, allora non esiste nessuna regola assoluta che ci consenta di distinguere un paesaggio da un non paesaggio, se non in chiave storica.
Non è l’arte a imitare la natura, ma la natura a imitare l’arte.
Paradossalmente non ci sono nella cultura occidentale dei criteri oggettivi che sanciscano o escludano il valore estetico delle diverse parti della natura.
Il paesaggio è sempre un’invenzione, come è stato detto anche da altri studiosi francesi come Alain Corbin e Philippe Joutard.
In questo contesto, come considerare il paesaggio contemporaneo?
Scrive Roger, siamo in tempi di morte del paesaggio, ma al contrario di sazietà, di sovrabbondanza, che in quanto tale produce per contrasto una ricerca di essenzialità.
Il ritorno alla natura auspicato da molti, l’elezione del paesaggio bucolico a sola dimensione estetica accettabile è il risultato inaspettato non di una riduzione ma di un eccesso di paesaggio nei nostri occhi contemporanei.
E’ una sorta di sguardo nostalgico verso i modelli del passato, al locus amoenus classico, inteso come assoluta armonia formale.
Di contro, è difficile considerare paesaggisticamente attraenti le città industriali, la cui bellezza innovativa i futuristi per altro avevano compreso.
E’ vero, osserva Roger, che la civiltà industriale ha deteriorato i paesaggi tradizionali (sia per mancanza di cultura che per incuria e li ha nuovamente abbassati al grado del paese), tuttavia si tratta di inventare nuovi schemi e nuovi modelli sia di intervento tecnologico sulla natura che ne potenzino e non ne distruggano il livello paesaggistico, sia di capacità di comprensione estetica di ciò che ci appare solo come una rovina, ma che, come ogni rovina, trova prima o poi i suoi ammiratori.
***
Appendice.
Luisa Bonesio docente di estetica e esperta di geoestetica del paesaggio, nel suo libro Paesaggio, identità e comunità tra locale e globale, introduce l’esigenza di pensare filosoficamente il paesaggio come pratica dell’abitare.
Solo così per questa autrice si può consegnare la cura dei luoghi alla responsabilità individuale e, più in generale, chiamare in causa la sfera della deliberazione politica.
Si tratta di liberare il paesaggio dall’ambiguità della sua stessa denominazione concettuale − con cui si vorrebbe indicare sia la rappresentazione che la cosa stessa − attestata anche dalla confusione fra i termini di ambiente, natura, territorio, paesaggio.
La Bonesio in questo libro fa una precisa scelta epistemologica che costringe a cambiare paradigma di riferimento.
Da procedimento estetico–rappresentativo, il concetto di paesaggio si sposta verso un’analisi di tipo fisiognomico, che riguarda le forme della cultura, evidenziando il carattere storico, comunitario, simbolico proprio dell’esperienza dell’abitare.
Solo un paesaggio differenziato, stratificato e memoriale può offrire ospitalità ai suoi abitanti, rispettandone il diritto a vivere in luoghi significativi.
Dopo l’estasi modernista del disincarnamento, si tratta di riaffermare una percezione qualititativa del proprio essere-nel-mondo.
Questa percezione riguarda non solo la sfera della sensibilità, ma richiede un diverso approccio teoretico e una nuova prospettiva ontologica che, guardi al rapporto fra soggetto e luogo come relazione di senso.
Con questa impostazione l’analisi del paesaggio cambia.
Innanzitutto rivela l’intrinseca contraddittorietà dello sguardo paesaggistico.
Dal punto di vista storico, infatti, il concetto di paesaggio nasce come un’assunzione estetica della prospettiva geometrica.
Non per caso il quadro si identifica con il paesaggio, come dimostra la pittura rinascimentale.
Di contro, il sublime rompe con la cornice classica, modifica il concetto tradizionale di bello, amplia l’orizzonte paesaggistico, rivela un’inedita attrazione verso la verticalità.
Allo stesso tempo, quando perde i suoi connotati − la meraviglia rispetto a ciò che non può essere dominato dall’uomo − rischia di celebrare il pittoresco.
Il paesaggio oggi corre il pericolo di ridursi alla veduta, alla teatralizzazione, ad una semplice messa in scena per l’azione umana, sia utilitaristica che contemplativa.
La facilità di spostamento e l’uso di nuovi mezzi di trasporto contribuiscono poi a rendere i luoghi semplici spazi di attraversamento.
Essi spesso si identificano non più con connotazioni reali, ma con dei segni che si incontrano lungo il tragitto.
La stessa attrazione verso le rovine (anche quando esse appartengono ad un’epoca recente, come dimostra il fascino dell’archeologia industriale, o addirittura quando sono artificialmente prodotte per uso artistico) testimonia dell’impossibilità di ristabilire un rapporto vitale con i luoghi, facendo di questi stessi oggetto di celebrazione.
L’attrazione per il lontano appare il segno di una civiltà protesa verso l’avvenire, che vuole segnare il suo irrevocabile distacco, magari nostalgico, dal passato.
Il lontano è infatti tanto il passato che il futuro, di cui subisce l’attrattiva. Questa riduzione dello spazio a tempo è un altro carattere significativo della modernità.
Quando il paesaggio viene tradizionalmente identificato, nella teoria estetica, con il “bello naturale”, esso si presta facilmente ad essere superato dall’idealità del soggetto.
Questa lettura si basa sul presupposto dell’identificazione fra natura (ambiente) e paesaggio.
Un altro concetto decisivo, per Luisa Bonesio, ci viene dai processi di simbolizzazione.
L’idea di questa ricercatrice è che il paesaggio, come già aveva intuito Simmel, non sia una mera dimensione naturale, ma sempre una sua rielaborazione culturale.
Da qui l’interpretazione del paesaggio come “selezione di possibilità naturali da parte di una cultura”.
Da questo punto di vista solo l’attenta decifrazione degli elementi naturali – e dunque la loro ritrascrizione geosimbolica e geostorica – è in grado di dar luogo a un paesaggio.
Va detto che i presupposti di questa analisi geofilosofica vengono da due geografi di area tedesca: Lehmann, per la natura “espressiva” del paesaggio, che si traduce in una vera e propria ermeneutica, dunque nel tentativo di mediare ed integrare i caratteri dell’analisi geografica e filosofica, e Schwind, per l’idea di paesaggio culturale.
Per questi autori il paesaggio è dunque e per intero un concetto geo-simbolico, culturale ed ermeneutico.
Facciamo un passo avanti.
L’uso del paesaggio presuppone il riconoscimento di un significato, e non viceversa.
L’uso non va concepito in senso strumentale, ma come quel prendersi cura a partire dalle possibilità stesse del luogo, il quale, dunque, contiene sempre delle potenzialità di senso non ancora espresse.
Ecco perché una concezione culturale ed ermeneutica del paesaggio è molto importante.
La salvaguardia dei luoghi non può prescindere dal riconoscimento di tale nucleo di senso se non vuole ridursi ad una semplice valutazione quantitativa delle risorse naturali.
In realtà, solo a partire dal riconoscimento dell’alterità del paesaggio, del suo carattere singolare e differenziato, si può contrastare il dominio dell’identico.
Che questa esigenza si manifesti anche sul piano politico è dimostrato, secondo Bonesio, dalla ratifica della Convenzione europea del paesaggio che valorizza l’identità qualitativa del paesaggio, definibile, come recita la Convenzione, come quella porzione di territorio caratterizzata da interrelazioni naturali e umane.
Secondo Norberg–Schulz la perdita di senso del luogo (genius loci) dipende dall’assenza di tre elementi fondamentali: la memoria, l’orientamento e l’identificazione.
Ciò che si conserva richiede sempre un atto di interpretazione, dunque di apertura verso il futuro.
Il paesaggio è pensabile solo come sedimentazione di una memoria vivente e non oggettivata (nel qual caso si tratterebbe di un’operazione di storicizzazione), che racchiude in sé l’esigenza della memoria e dell’avvenire.
Ogni paesaggio, ha scritto Martin Schwind, è come un’opera d’arte ma molto più complessa: un pittore dipinge un quadro, un poeta scrive una poesia, ma tutto un popolo crea un paesaggio, che costituisce il serbatoio profondo della sua cultura e “reca l’impronta del suo spirito”.
Paesaggio è il luogo particolare al quale apparteniamo.
Parliamo di paesaggi , perché “il paesaggio in senso astratto non esiste, come ha suggerito Georg Simmel all’inizio del secolo scorso.
Ogni cultura instaura il suo rapporto con la natura, creando luoghi con determinati caratteri, attraverso le poetiche più diverse.
Luoghi divenuti di conseguenza lo specchio della storia, della cultura e della società che li ha promossi.
Documenti della natura e della storia, i paesaggi sono ambiti complessivi della vita umana: ciascuno con la propria peculiarità, espressione di una data libertà.
La formazione di un popolo è connessa al suo paesaggio, alla totalità dell’immagine del proprio mondo “afferrata” dalla contemplazione.
Il paesaggio è dunque lo spazio dove si “legge il mondo” nella sua complessità. Ogni momento storico può essere individuato nel paesaggio, luogo che accoglie la relazione tra l’uomo e la natura.
La storia delle forme del paesaggio – ha scritto Rainer Maria Rilke – sarebbe “un compito che impressiona per la novità e la profondità inaudite”.
Ogni paesaggio è natura trasformata dall’uomo nel corso della storia; ma è concettualmente ben differente dalla natura , con la quale viene spesso confuso.
La natura, in sé e per sé, non è altro che la vita spontanea, l’esistenza delle cose per se stesse, secondo leggi necessarie: come unità di una totalità, la natura non ha parti, è priva di contorni.
Ciascun paesaggio, al contrario, necessita di delimitazione e deve essere compreso in un orizzonte momentaneo o durevole.
In ogni paesaggio c’è il nostro passato e il nostro presente, da tramandare alle generazioni future con sentimenti di rispetto e di tutela.
Per concludere diciamo che la migliore tradizione paesaggistica è quella storico-teorica ricca dei contributi estetico-filosofico che troviamo nei lavori di Georg Simmel , Karl Kerényi , Joachim Ritter e Rosario Assunto, per ricordare alcuni dei nomi che abbiamo fatto.
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Il Patrimonio Culturale Immateriale.
In passato sia in antropologia, che nell’ambito delle grandi organizzazioni transnazionali come l’UNESCO, per consuetudine di un territorio si distinguevano due generi di patrimonio, quello culturale e quello naturale.
Da circa una trentina d’anni a questa parte questa distinzione è stata rivista e trasformata e è prevalsa la tendenza a definire il patrimonio culturale nel suo significato più ampio, come ciò che comprende sia le risorse materiali ( dette tangibili) che quelle immateriali.
In questo modo si può definire come patrimonio materiale un monumento, un insieme di artefatti o di edifici, un sito, il cui valore è storico, estetico, archeologico, scientifico, etnologico, antropologico o tutte queste cose insieme.
Così definito il patrimonio materiale comprende, per fare qualche esempio, un luogo come Angkor Wat (un complesso di templi cambogiani), il carcere di Città del Capo, in Sud Africa, dove fu rinchiuso Nelson Mandela per ventisei anni, l’antica città di Piramidi di Teotihuacan vicino a Città del Messico, la miniera di sale di Wieliczka non lontana da Cracovia.
Il patrimonio naturale, di contro, è definito come l’insieme dei tratti geologici, biologici, fisici di rilevante importanza.
Esso comprende gli habitat botanici o le specie animali minacciati, le aree significative dal punto di vista scientifico o estetico – come abbiamo visto sono i paesaggi – o che debbono essere tutelate o conservate.
In questo modo il patrimonio naturale include luoghi come il Mar Rosso, il parco del monte Kenia, il Gran Canyon, l’area della grande Amazzonia nel Brasile centrale.
Film 7 Angkor Wat – Film 8 Wieliczka mine.
In principio le cose non erano così.
Nella Convenzione del 1972 dell’UNESCO sui patrimoni culturali si prendevano in considerazione unicamente i beni materiali, ma in seguito gl’antropologi e gli etnologi richiamarono l’attenzione anche sugli aspetti intangibili della cultura allo scopo di promuovere la ricchezza delle diversità culturali in qualsiasi forma e espressione.
Nel 1989 fu stilata una raccomandazione per la salvaguardia della cultura tradizionale e del folclore.
A proposito dell’antropologia culturale italiana e soprattutto del folclore –come espressione delle tradizioni contadine e popolari – vale la pena di ricordare i Quaderni dal carcere di Antonio Gramsci.
Egli è stato il primo a ridiscutere la concezione del folclore appiattita sulla ricerca del pittoresco per considerarlo, invece, come un indice della mentalità dei popoli e delle loro divisioni in classi capace di portare alla luce una nuova concezione della rappresentatività.
In altri termini, l’unicità, la diversità, la pluralità delle identità cominciarono a essere considerate come ciò che definiscono l’umanità e ne disegnano la specifica rappresentatività.
Questo documento (del 1989) afferma testualmente:
Come fonte di scambio, di innovazione e creatività, la diversità culturale è necessaria per l’uomo quanto la biodiversità per la natura, per questo dovrebbe essere riconosciuta e affermata per il bene delle generazioni presenti e future.
Nell’ottobre del 2003 a Parigi fu poi stilata la Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale.
All’articolo due questa Convenzione definisce il patrimonio culturale immateriale come la prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how – come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti, e gli spazi culturali associati agli stessi – che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale.
Ma come si esprime il patrimonio culturale immateriale?
Sono stati elaborati cinque punti.
Esso si esprime:
– attraverso le tradizioni e le espressioni orali, compreso il linguaggio in quanto veicolo del patrimonio culturale immateriale.
In Africa si dice che quando muore un vecchio un’intera biblioteca sparisce.
– attraverso le arti dello spettacolo.
– attraverso le consuetudini sociali, gli eventi rituali e festivi.
– attraverso le cognizioni e le prassi relative alla natura dell’universo.
– attraverso l’artigianato tradizionale.
In estrema sintesi si può affermare che, al pari del patrimonio materiale, il patrimonio immateriale è cultura. Al pari di quello naturale, è un insieme vivente paragonabile a un organismo.
Per comprenderci possiamo dire che intorno a noi vive e pulsa in ogni momento una rete di storie, di saperi, di tradizioni e usanze che contribuiscono alla costruzione della nostra visione del mondo e della nostra identità.
Da un punto di vista pratico-descrittivo ciò che compone un patrimonio immateriale deve essere:
1 – Riconosciuto come facente parte del patrimonio culturale per una comunità o per un gruppo di individui.
2 – Deve essere trasmesso da generazione a generazione.
3 – Deve essere creato e ricreato in continuazione da una comunità o da un gruppo d’individui interagendo con l’ambiente e la loro storia.
4 – Deve generare un sentimento di identità e di continuità.
5 – Non deve essere in contrasto con i diritti dell’uomo così come sono stati elaborati dagli organismi internazionali e non deve offensivo con i sentimenti delle persone.
Questi punti sono importanti perché delineano il sentimento d’identità non solo come un bene etnologico, ma come un bene sociale, culturale e politico da proteggere.
A questo proposito si deve distinguere all’interno del concetto di patrimonio immateriale il concetto di intangile.
Molta produzione immateriale è intangile perchè è tutelata dal diritto d’autore e essa ha dei supporti che la diffondono, come, per fare un esempio, un CD o un film.
Ma sono un bene intangibile, per fare l’esempio importante oggi, i saperi artigianali.
La Regione Lombardia, per esempio, ha varato una legge che a partire dalla definizione dell’UNESCO prevede la costituzione dell’AESS, cioè, dell’archivio di etnografia e storia sociale diviso in cinque sezioni.
Il registro dell’oralità, il registro delle arti e dello spettacolo, il registro delle ritualità, il registro dei saperi della natura, il registro dei saperi tecnici.
Per l’AESS il patrimonio immateriale comprende in modo esplicito:
I proverbi, le leggende, le canzoni epiche, le poesie, le preghiere, le canzoni popolari, i balli, il teatro.
Tutte le forme tradizionali dello spettacolo di piazza, della pantomima, dei cantastorie.
I riti di culto, i riti di passaggio, i rituali di nascita, di cerimonie nuziali e funerale, i giuramenti di fedeltà, i sistemi legislativi tradizionali, i giochi e gli sport tradizionali, le tradizioni culinarie, i sistemi curativi e la farmacopea, la magia, le cosmogonie, eccetera.
A livello nazionale abbiamo invece l’Istituto centrale per la demoetnoantropologia (IDEA).
L’IDEA è stato istituito nel novembre del 2007 e i suoi compiti istituzionali sono prevalentemente di tutela, studio, valorizzazione e promozione del patrimonio etnografico italiano.
L’IDEA ha una propria autonomia scientifica e di ricerca ma è inserito giuridicamente nell’amministrazione del Ministero per i beni e le attività culturali.
Sono parte integrante dell’istituto:
Il Museo nazionale delle arti e tradizioni popolari
L’archivio di antropologia visiva
L’archivio fotografico
L’archivio sonoro
La biblioteca
Il gabinetto delle stampe
La missione di questa istituzione è finalizzata alla salvaguardia e alla valorizzazione del patrimonio culturale, materiale e immateriale, e alla promozione di iniziative volte a tutelare i settori fortemente legati all’identità collettiva e al senso di appartenenza dei vari gruppi sociali presenti sul territorio, nonché alle espressioni delle diversità culturali
Eventualmente, Elenco delle feste italiane riconosciute come patrimonio immateriale dell’umanità
Nel 2001 l’Italia è entrata nel patrimonio immateriale con il teatro dei pupi siciliani. Nel 2014 con il vitigno dello zibibbo di Pantelleria.
Dobbiamo notare, en passant, che le discussioni sul folclore, i patrimoni immateriali, i rituali, le usanze, eccetera hanno favorito l’introduzione nel discorso dell’antropologia culturale di due neologismi oggi molto popolari.
Quello di First Peoples invece di Terzo Mondo.
Quello di Les Arts Premiers invece di Arte primitiva.
Quest’ultima espressione è impiegata soprattutto per indicare la produzione artistica delle società senza scrittura e in genere per le culture non occidentali, come l’arte Maya, l’arte della civiltà precolombiana (degli Olmechi), l’arte africana tradizionale, l’arte inuit, l’arte dell’Oceania e degli aborigeni australiani, le arti asiatiche tradizionali, l’arte amerinda.
L’espressione di arte primitiva è invece caduto in disuso perché troppo legato all’ideologia colonialista, ma anche il concetto di arts premiers è controverso perché fa pensare che l’arte occidentale sia un arte compiuta.
Molto usate sono anche altre espressioni, come arte tribale, etnografica, tradizionale o arcaica.
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Sul piano meramente teorico il concetto di patrimonio culturale immateriale è stato molto dibattuto in antropologia perché è un concetto che nella pratica si rivela enigmatico e scivoloso.
Molti, per esempio, affermano che è il frutto di un ossessione patrimoniale della società contemporanea, altri ne sottolineano gli aspetti politici e emotivi che mascherano le insufficienze scientifiche.
Gli etnologi hanno parlato di una fissazione per la museificazione dei processi culturali che in molti casi si è risolta in una invenzione o in una esagerazione delle tradizioni di tipo spettacolare.
In questo modo, tra l’altro, non si salvaguarda la cultura, ma le sue rappresentazioni.
C’è anche, tra gli studiosi non occidentali, chi ha denunciato il rischio di una gerarchia globalizzata dei valori espressione di una economia morale ideologicamente appiattita sul neoliberismo.
Una economia morale che – in modo implicito – è interessata a costruire certi elenchi di beni immateriali piuttosto che altri scegliendo in base alle convenienze mercantili.
Queste obiezioni – che possono e in molti casi devono essere condivise – hanno riaperto le discussioni sul concetto e la definizione di cultura che sembravano sopite dopo la seconda guerra mondiale, discussioni che si sono allargate anche alla definizione di società e di comunità.
Sulla scia di queste problematiche sta avanzando un nuovo concetto, quello dei diritti culturali e delle relative rivendicazioni che in qualche modo vengono a completare il capitolo degli studi coloniali nell’ambito dei cultural studies.
Un’ultima osservazione estremamente attuale, la difesa dei patrimoni culturali, materiali e immateriali, non deve assolutamente scontrarsi con le diversità migranti né cercare di sussumerle ma, di contro, deve favorire il loro diritto alla differenza.
In questo senso è interessante il fatto che negli Stati Uniti i segni di appartenenza a una comunità sono spesso esibiti con orgoglio e protetti, perché se è vero, come scriveva John Dewey, che la democrazie costituzionale è una community of communities, manifestare i segni visibili di appartenenza definisce la modernità e garantisce la democrazia.