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Una storia sociale delle salse – Parte VIII

Una storia sociale delle salse (2013) – Parte VIII

 

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Una storia (IX).  Un tempo le salse madri erano chiamate coulis (colati), tra di essi il più famoso era il coulis spagnolo o sauce-brûlée.  La favola racconta che arrivò in Francia con alcuni cuochi iberici al seguito di Anna d’Austria.  In principio questa salsa fu ignorata, i cuochi francesi erano da tempo abituati ai loro sughi bruni (estouffades) e ai loro fondi dispendiosi.  Fu la penuria e il realismo a rendere popolare la spagnola, prima come supplente dei sughi deboli e in seguito come moda, anche se molti la ritenevano senza un aroma definito e con una sola tonalità, l’insipidezza.  Viaggiatori, tra cui Téophile Gauthier, raccontano che la spagnola era, nella sua patria d’origine, la salsa delle cucine pubbliche e il suo scopo di rimediare alla qualità scadente delle carni o alla loro ambigua provenienza.  Lepre o gatto(°), scrive nel 1892, nel corso di un viaggio in Spagna il libertino Jean Lorrain pseudonimo di Paul Alexandre Martin Duval, che nutriva una vera passione per i lottatori di fiera e le etere, “con la salsa spagnola è impossibile indovinare di cosa è composto un piatto”.  Si può dire che nessun’altro condimento ha mai sollevato tante polemiche, ma c’è una ragione, è la salsa che più di ogni altra cosa ha accompagnato la metamorfosi dei sughi a salse e alla densità dell’appareil che li distingue.

 

(°) – Quella per i gatti serviti al posto delle lepri e dei conigli è una vera e propria ossessione per gli spagnoli che non a caso nel servire l’uno per l’altro ne hanno fatto un proverbio che stigmatizza gli imbrogli dei lestofanti.

 

Le salse nell’alimentazione popolare erano preparazioni feriali così come gli arrosti erano preparazioni festive.  Esprimono ruoli differenti, le vivande salsate sfamano, gli arrosti si consumano dopo averli scalcati, una forma di solidarietà violenta e armata molto diversa dall’intimità del paiolo con le sue brodaglie.  La stessa pittura, al suo nascere, celebrò la brutalità mortale della caccia facendo trasparire nell’erezione del desiderio i balbettii di Eros.  Fu la prima lezione sull’efferatezza.  Poi vennero le ideologie e le brode.

 

Il contadino e il viticultore hanno con i processi di fermentazione la stessa intimità del cacciatore con i processi di putrefazione.  I primo fecondano i campi per salvare la “cultura” dal divino, il terzo lo implora dedicandogli il fumo delle pire per salvare ciò che s’illude sia la sua umanità.

 

A differenza di molte preparazioni alimentari la salsa presuppone la pazienza e l’ordine.  In principio come abilità e sensibilità, poi come ciò che serve alla gerarchia.  Forse è questa la ragione per la quale nel diciassettesimo secolo in cucina entrarono i salsieri e vennero messi da parte i pasticceri.  In superficie su tutto ciò trionfa il sistema dello spettacolo con le sue paillete, ma l’eccesso è un modo indigesto di digerire ciò che nasconde: l’utilità.  Scrive il cardinale Mazzarino alla fine della voce “Banchettare” del suo Breviarium (1684): “Il vasellame altresì della mensa, ove s’introduce tal diversità di vivande a tavola, potrebbe tempestarsi di false gioje, preziosità tutte finte”.

 

Alla fine del Seicento abbiamo ancora salse che sono esplosioni di sapori più che di un calcolo ragionato del gusto.  Non tollerano che il primato dell’ordine, esigono per assecondare i vizi frontiere lontane e speziate.  Al contrario per il popolo il sapore è qui l’altra faccia della fame, esso si rivela inutile e profano da immaginare.  Agl’occhi della penuria striscia lungo i servizi di credenza e di tavola e si mostra imbarocchito e imbellettato, cioè impuro(°).

 

(°) – Il numero delle salse nel Seicento cresce insieme agli obblighi cerimoniali.  Insieme moralizzano il vezzo ostentativo dello spreco.  In questi anni non solo la fame, ma anche l’appetito ha le sue ragioni su cui veglia la sovranità malevola della differenza di classe.

Non va dimenticato che la rassegnazione sofferta genera le jacqueries, la fame vissuta i furori.

Alla fine del quattordicesimo secolo(°) il vino bianco prese il sopravvento su quello rosso nelle tavole degli altari.  Bastava una goccia caduta di quest’ultimo a rendere impresentabili le tovaglie e a far vacillare la fede.  Così, per analogia, qualche secolo dopo mentre comparivano le salse al pomodoro cominciarono a sparire i tovaglioli piegati a “ficca”.  La sessualità ha spalancato più di una porta in cucina, ma mai accompagnata dalla pulsione di morte.

 

(°) –Per i fedeli questo passaggio fu traumatico, per farlo accettare si ricorse ad un miracolo, quello olandese di Boxtel del 1379, quando un sacerdote che aveva tra i primi usato il vino bianco si vide ciò nonostante la stola macchiata di sangue dopo essersene rovesciato addosso per distrazione una fiala di questo.

 

La salsa è un’impronta come il piede delle puttane di Alessandria che incidevano sulla suola dei sandali  un segno o una mappa per indirizzare i clienti al luogo del loro commercio.  Del resto la salsa abita un piatto, dentro i suoi confini semiologici, come l’uomo abita un luogo.  Soltanto i modi sono differenti.  La salsa è lo sputo che contamina il cucinato, la sua identità, come lo è il sudore per un abito.  Uno sputo che la fa propre, nel duplice ambiguo significato di questo termine nella lingua francese.  Come le camere ad ore delle puttane la salsa ha l’odore del desiderio.  Come il pagus, in cui sono seppelliti i morti della nostra storia, forgia i sapori locali e rivela gli interessi degli ideologici.  Va aggiunto che dentro i suoi confini alla consistenza naturale degli ingredienti la salsa oppone la morbidezza ambigua dei segni.  Ritaglia, all’interno del piatto, l’ens.

Da pagus viene paesaggio: la salsa è la neve sulle rovine del panorama carnivoro.  A stare agli etimi – che legano l’avere all’abitare – la salsa abita i piatti di chi se li può permettere, agli altri bastano le brode nei vasi.  C’è anche da rilevare che la salsa è l’unica traccia di senso che consente attraverso le pieghe della cultura materiale di risalire alla sua storia sociale e a dispetto di quella economica che appartiene agli ingredienti e ai capitali.

 

Come un tempo il mistero della lievitazione è stato un affare teologico, così nel Seicento la salsa diventa quel mistero della politica che trasforma la sostanza fisiologica in gusto.  Il perché è fondato sull’analogia.  Come il pugno è legato alla falce e martello, così la salsa lo è allo stomaco per l’intercessione della pentola.  Non per caso le pentole a pressione, quando se ne apprezzavano i vantaggi nutrizionali si chiamavano digerenti.  Fu la fretta che cambiò il loro destino.  Che cosa significa?  Che le salse seguono le tappe dell’evoluzione sociale e culturale.  Per farlo sono entrate nel territorio degli elenchi e dei résumé.  Filano come le parole e al dunque sanno essere patafisiche, vale a dire, reggono ad ogni théorie des exceptions.

 

Al pari di una frontiera le salse nascondono per separare, nonostante il flusso continuo di sapori e di linguaggi impiegati per nominarle.  Diventano uno sperma per le nuove morfologie della sazietà in cui la forma bella prende il posto del buono da mangiare.  Per questo invece di ruscellare come una diarrea, sono spruzzate.  Invece di essere assimilabili agli escrementi diventano un simbolo di potenza creatrice.  Hanno smesso di sedurre, ma poco importa, si sono trasformate in marche simboliche, espressioni della globalizzazione agroalimentare.  Da questo punto di vista,  paradossalmente, lo stesso risotto condito con l’oro dei battiloro, con il quale si è celebrata la recente cucina creativa lombarda, è nella forma più antico dell’opera di Kazimir Malevic a cui s’ispira.  Ora è solo un modo di formalizzare il potere della merda.  Un modo per glorificare l’essere o il nulla dei cumshot.

 

C’è un’inquietante analogia sensoriale tra la composizione delle salse industriali(°) e le gigantesche discariche che circondano le città.  Entrambe si appropriano del naturale rivelandone la natura.  Ciò vuol dire che questa natura diventa per l’uomo appropriata nell’accecamento e senza quella certezza che guida l’animale “al suo proprio”.  In altri termini: l’incolto uccide.

 

(°) – Le salse industriali oggi fanno tendenza e in questo nuovo sbrigativo ruolo soggiacciono all’avvicendarsi delle mode, tendono a de-materializzarsi trasformandosi in “giocattoli cucinari” che nascondono ciò che sono diventate, liquami della cultura materiale.

 

Tutti gli uomini parlano, ma parlano lingue diverse.  Tutti gli uomini mangiano, ma secondo cucine differenti.  Entrambi i fenomeni sono forme di proliferazione che nella modernità si proiettano nel luogo comune generale: inglese e ketchup.  Ciò nonostante restano le nuance.  Io mangio in modo diverso dal mio vicino di casa.  Le piccole frontiere non ancora ideologizzate dai localismi ci proteggono dalle “origini controllate e certificate” e dalla bieca necessità di stare dalla parte del valore, nonostante il suo stretto rapporto con il concime.

 

I segni sopprimono dal piatto la sostanza.  Gli animali si nutrono sfamandosi, l’uomo invece s’illude di consumarli in punta di forchetta dentro un paradigma cucinario che gli impedisce di cogliere il senso materiale della poiesis e dunque dell’immaginario.

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Salse brillanti di seghi, sudori, oltraggi.  La carne come il marmo lunensis – dicono chi lo cava a Carrara dal ventre delle Alpi Apuane – si gusta dapprima con la mano unta di grasso, capace di avvertirne le vene e la linfa.  Una mano che sa di lardo, di brode, che conosce la fame e il piacere di un pezzo di pane, ma ignora la cultura dei salsieri che l’affogano – la carne – incuranti di ogni arte funeraria.  Quando le carestie stracciavano le budella le brode sono state sul serio il fonte battesimale del pane(°).

 

(°) – L’inchiesta Jaccini del 1884 – dal nome del senatore che presiedette la commissione, il conte Stefano Jaccini – riporta la cena tipo del mondo bracciantile italiano composta da una pentola d’acqua scaldata nel quale era messo un cucchiaio di sale, un tocco di lardo e o un cucchiaio d’olio.  In questa broda la famiglia inzuppava quello che era avanzato del filone di pane nero che il bracciante riceveva al mattino come integrazione della paga e che costituiva il suo pranzo di mezzogiorno insieme a una caraffa d’acqua di fonte.

 

Le salse incantano profumando, fanno svanire il nome delle carni che seppelliscono.  Sporcano di un altro sangue le labbra dei golosi sui tavoli apparecchiati con tovaglie a quadretti, la brocca di vino, un tovagliolo, la fissità di una finestra spalancata sul frinire delle cicale sul tronco degli ulivi.  Altre forme di godimento.  Altri modi di pensare la intima corporis.  Altri giochi di merlettaie sbadate che succhiano il dito punto dall’ago.

C’è sempre una goccia di sugo che assomiglia ad una goccia di sangue sulla superficie di una salsa.  Ci ricorda la forclusione che rende umana, cioè non sacrificabile, la materia che ha un’anima animale.

 

La cucina lenta, come quella delle salse, ricorda il pennello di Jan Vermeer, più che il “cibo lento” dei pavidi e reazionari riformismi locali.  Lucida le casseruole e le salsiere di pellicole e velature delicate.  Sommerge di ermellini la morte, addolcisce come una polvere gli oltraggiati moncherini degli uccelli da passo, il petto sotto una coperta di pancetta, gli occhi cavati di chi si abbandona al buio della morte.  Come sulle tele di Vermeer, appunto, perché le salse sono la pietà di un “distillato” sulla still life del beccaio.

 

Antonio Canova parlava del colore delle perle addormentate sulla nuda carne – chair – delle giovinette innamorate, una carne che si può mostrare.  Casanova le immaginava come mandorle che si aprono.  Sughi, flussi, ruscellature, metamorfosi macellaie  – viande – soffici e umide come la madeleine di Proust, come il petto delle ragazze di Combray nelle notte di plenilunio o quello immaginato da Giacomo Leopardi(°).

 

(°) – Vagassi per il cielo, vedessi le ragazze andare a letto, si sciolgono dal capo il bianco velo, si liberan dal busto il bianco petto.   

 

Con lo Scappi l’idea di un’Opera cucinaria smette di essere un’illusione e diventa un artificio.  L’ocra scura amalgama le spoglie, la società del Paiolo e della Cazzuola è l’antipode delle pesti dello Zumbo, salse e sacrifici celebrano l’arte uniti dall’amore per le decapitazioni e per le docollazioni.  Un’arte che alleggerisce le Vergini facendole evacuare.  Bisogna rileggere il Pontorno.  Intanto basta il Freud dei tre saggi: “Nella sessualità l’elemento più alto e il più basso si trovano dovunque intimamente connessi”.  Lo sapevano bene le suore del monastero di Santa Maria d’Alcobaça in Portogallo, le loro cucine erano affidate a vecchie sguattere con l’utero prolassato dai vizi e pozzetti sul pavimento sotto i quali scorreva un vero ruscello pieno di pesci.  Un’ossessione.

 

Michel Serres è accorato quando parla di un soggettivo perduto a causa delle lordure ideologiche amplificate – alienate – dai media.  Quando un po’ di condimento diventa sozzura?  Quando si spezza il legame tra gnosi, linguaggio e la “ricetta intuitiva”, che testimonia di un legame sociale e di circostanza, diventando legge nel nome del padre, regola ostensiva di classe, spettacolo culinario per ripiegare sulla routine come destino in attesa – con una splendida immagine di Luigi Pirandello – di un treno che fischia nella notte.  In questo senso l’avventura impressionista della nouvelle cuisine(°), sia pure con un ritardo di un pugno di generazioni, sembrò a prima vista un’aurora, la fine dei fondi bruni, dei burri chiarificati, di quella pesantezza che fu l’aplomb della borghesia, il trionfo autoritario dei brasati e della trippa sui gavroche di Victor Hugo o gli scugnizzi di Matilde Serao.

 

(°) – Conosciamo per convenzione la sua data di nascita, il 1974, più difficile è cogliere la sua scomparsa sublimata nella cucina molecolare.  In pratica liquidata dal ritorno futurista del rimosso, tra fiamme ossidriche, piaccametri, coloranti e addensanti alimentari d’incerta origine.

 

In cucina la naturalezza delle stagioni e l’asprezza della fame si scontrano incessantemente contro i codici e i presidi.  Guai alle massaie se vince il rasoio dei capitolati e la legge del si fa così.  Superato l’imbarazzo dell’incesto, peccato senza fondamenti, l’onnivoro aveva conciliato con il fuoco il double bind della sua inquieta natura, una purificazione senza ricette freudiane, funzionale agli “appetiti dell’appetito”.

 

Marchi, etichette, certificazioni.  Nulla di più pericoloso per i fornelli delle famiglie di questi osceni contrassegni identificativi dei c.a.n.i. travestiti da innocue pecorelle.  Nei “sigilli” industriosi dell’Ottocento perlomeno c’era una parvenza di nobiltà bottegaia.  Nei brand, confezionati d’illusioni, che animano il circuito televisivo dell’agro-alimentare, imputridiscono gli interessati propositi di una giusta, sana ed economica offerta alimentare.  In “rete”, come oggi si dice, si trovano c.a.n.i. di tutte le razze e nessun accalappiacani.  Nonostante le apparenze siamo stati estromessi dai processi di formazione del gusto, tutt’al più, se il reddito lo consente, possiamo visitare gli orti di cartapesta dei nuovi Jourdain dell’autenticità (sic), abili nell’illudere gli allocchi di poter ostentare privilegi di genuinità.

 

Sbarazzarci del nome del padre – o, se si preferisce, della funzione fallica della legge – e liberare Gastarea dai bordelli in cui è rinchiusa.  Superato il punto di non ritorno, doppiata la punta della Salute appare finalmente la missione di queste pagine.  Fanne tesoro, lettore, prima che gl’orfani di Lacan ricomincino a decorare con i nodi di Borromeo la superficie delle brode!

 

Se è pronta si “assaggia”, altrimenti durante la preparazione si “sente”.  Sentire, aistanomai, una postura perfettamente inutile per “gustare” l’arte moderna con le sue immacolate illusioni, concetto chiave per lo studio dei fatti sensibili, lo afferma Alexander Baumgarten.  Le salse sono belle, avrebbe scritto Socrate, se sono conformi allo scopo.  Se lo sono, sono anche buone, cioè espressive.  L’odissea del pomodoro in questa prospettiva è esemplare, se solo pensiamo a come fu temuto per il colore della sua pelle!

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Leggi le altre parti
Una storia sociale delle salse – Parte I
Una storia sociale delle salse – Parte II
Una storia sociale delle salse – Parte III
Una storia sociale delle salse – Parte IV
Una storia sociale delle salse – Parte V
Una storia sociale delle salse – Parte VI
Una storia sociale delle salse – Parte VII
Una storia sociale delle salse – Parte VIII
Una storia sociale delle salse – Parte IX

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