PAGES

Una storia sociale delle salse – Parte II

Una storia sociale delle salse (2013) – Parte II

02

Che sia la cattiva digestione delle salse ad aver generato una società così scettica ed empia e,
al tempo stesso, improntata ad un’urbanità tanto sensibile e ingegnosa?
Charles Augustin de Sainte-Beuve.

C’è una ragione funzionale al fatto che le salse nella cucina europea si stabilizzano intorno al diciassettesimo secolo rompendo con il passato e con ciò a cui erano originariamente destinate.  Questa ragione germina in Italia e si sviluppa soprattutto in Francia dov’è da subito più tranchant, per poi dilagare lentamente verso est e verso nord.  È contenuta nell’atteggiamento dell’aristocrazia che mette fine a certe particolarità medioevali del gusto e si avventura verso una sensibilità gustativa più selezionata, definita e codificata.  Va da sé, a tutto questo non è poi estraneo l’arrivo dalle Americhe di un nuovo catalogo di prodotti della terra e di nuovi sapori(°).

Nel Seicento, in altri termini, si rompe l’alleanza di dolce e salato, anzi, questi due sapori tendono sempre più a contrapporsi riscrivendo i principi della cucina di corte.  I cucinieri medioevali disponevano di un ampio ventaglio di combinazioni di sapori ai quali non siamo più abituati a cominciare dal modo di usare le spezie per arrivare al gusto dei frutti “acidi” o acerbi usati soprattutto per confezionare piatti di carne.  Se fosse legittimo un parallelo si potrebbe dire che questa attitudine è la stessa che oggi definisce la cucina medio-orientale e indiana.

Naturalmente il legame di dolce e salato non è completamente sparito dai cucinari moderni, molte salse contengono zuccheri, miele e frutta così come certi sapori aspri o agri compaiono in molte preparazioni di carni.  Per esempio, i fondi si possono deglassare con zucchero e aceto e questo è spesso usato per la cottura di carni fibrose grazie alla sua capacità di sfaldarle.

A proposito di questa alleanza che si è rotta si può osservare che è pressappoco negli stessi anni che appaiono i primi compendi dolciari distinti dai libri di cucina che in breve diventeranno dei veri e propri trattati sull’arte dei dolci.

 

(°) – Verso la fine del diciassettesimo secolo gli assolutismi riducono gli aristocratici di corte a figuranti e i banchetti a forme teatrali sempre più ingegnose.  Si valorizza ogni elemento di decoro ostentato e si predilige l’esibizione alla sostanza.  Ai cucinieri è domandato di moltiplicare le preparazioni servite e di curarne l’aspetto ornamentale, poco importa se poi molte di queste giaceranno sui buffet, fredde e dimenticate.  In un certo senso tutto questo concorre a moltiplicare le salse, soprattutto per i loro colori e i loro profumi, in particolare si adotteranno per esse nuovi “leganti”, come sono i roux.

 

Ogni condimento tende alla cultura,
 sta al cuciniere non fare l’ignorante!
Alla maniera di Jacques Le Goff.

Una precisazione.  I cuochi del ‘600 rifondando la loro missione cucinaria dovettero correggere quell’insieme di pratiche del passato che appartenevano alla memoria collettiva e che apparivano anacronistiche, parziali e false.  Ciò che sopravvive della fatticità, infatti, non è mai un tutto coerente, ma una scelta che risulta dallo scontro tra le forze che operano per il mantenimento dello statu quo e quelle che lo vogliono rovesciare.  Del resto le salse a partire da questo secolo mostrano di avere un’identità politica piuttosto che storica, intendendo qui la storia della vita corrente come l’unico vero tipo di storia che serve a mostrare la nudità e la vergogna dei poteri dominanti.  Da questa sponda gli atti alimentari costituiscono un paragrafo dell’enciclopedia della storia che compare nel capitolo della cultura materiale come rapporto degli uomini con i mezzi di lavoro, le tecniche, l’utilizzazione dei prodotti, i livelli igienici, abitativi e nutrizionali.

Insomma, nelle salse possiamo inzuppare il politico, il religioso, il culturale e l’economico in quanto fatti sociali che rivelano il loro sapore nelle dinamiche della bocca come strumento di conoscenza.  Una felice regressione critica.

 

La révolution culinaire du 17e siècle doit être mise en rapport
avec l’ascension politique, scientifique et économique de l’Europe.
Liliane Plouvier 

Con l’estenuarsi del Barocco gli esotismi speziati, la disinvolta confusione di salato e zuccherato o di dolce e agro tramontano.   Quel che resta dell’Arabia dorme nei depositi degli speziali.  La cucina profuma di timo e di alloro, di prezzemolo e di basilico, di cerfoglio, di salvia, di santoreggia e di cipollotti.  Nuovi aromi che concorrono a rendere grasse e untuose le salse, a maritarle con il burro e i lardi luccicanti, con le panne e le uova di giornata, a tuffarle nella farina che lega, rassicura e emulsiona.

Ma c’è di più.  Tra i fornelli s’insinua uno spirito geometrico che fa del metodo una preghiera laica, cambia l’organizzazione dei lavoranti, le batterie si gerarchizzano seguendo il mutare delle tecniche, dei modelli di allestimento delle vivande, di confezionamento dei piatti.  L’arte cucinaria scopre i “pre-parati”, le grandi brode buone per ogni bisogna(°), i “colati” profumati dal paquet, come i francesi chiamano il “mazzetto odoroso”.  Tutto porta finalmente verso l’avvento dei fondi che si attaccano ai recipienti e si recuperano con il succo degli agrumi, nuovi ori di un sapere materiale.

Il cuore delle forme cucinarie è sempre l’attività di giornata, la “cucinatura”, ma come si è formata una pre-cucina si formerà molto presto una dopo-cucina in cui si fa strada la forma sul contenuto, l’occhio sul palato.

Il metodo rende giustizia alla scrittura, ai rotoli d’istruzioni appesi al muro, ai primi ricettari a stampa.  La cucina – che qualche “maestro” definisce, per lungimiranza o arroganza, nuova o moderna – diviene una produzione di ricette a mezzo di ricette.  La scrittura forma nuovi saperi, nuove sensibilità, nuove metafisiche gastrolatriche.  Nel dialetto lacaniano è come dire che si forma un mapping che suggerisce ai nuovi cuochi il punto esatto in cui si trovano nel discorso di una nuova letteratura.

 

(°) – Questa tendenza ad utilizzare brode eteroclite finirà spesso per uniformare il sapore fino a certi eccessi da caserma dove tutto sa di risciacquatura di piatti.

 

La varietà di salse è un’unità di significanti.
Alla maniera di Roland Barthes.  

Il primo e più noto tentativo di classificazione “funzionale” delle salse lo dobbiamo ad un Bûcherwurm, Marie-Antoine Carême, detto Antonin (1784-1833).  Carême le raccoglie in quattro gruppi di base: alemanna, besciamella, spagnola e vellutata.  Auguste Escoffier (1846-1935) le porta a cinque, aggiungendo la salsa di pomodoro, in seguito però le riduce riclassificando tra le emulsioni la salsa alemanna.  Per Escoffier, alla fine, non restano che tre salse madri: la salsa bruna detta salsa spagnola, la vellutata o salsa bianca e la besciamella, la regina assoluta: un roux diluito nel latte(°).  Quest’ultima, com’è risaputo, apparve e si consolidò come un’allegoria suprema del gusto e del desiderio, della frivolezza e della semplicità.

(°) – Il roux può essere diluito anche nell’acqua salata o in un fondo.  La vellutata è una salsa besciamella con l’aggiunta di una mélange di panna liquida fresca e di tuorlo d’uovo sbattuto.  Se ad una besciamella aggiungiamo del gruyère grattugiato abbiamo una Mornay.

 

Considerate come un’opera d’arte le salse – che non hanno mai conosciuto il morso di canoni e grammatiche – rappresentano un mosaico senza codici, un rimedio all’afasia dei bolliti.  In breve si rivelano mascherandosi, una condizione per la quale possono essere maneggiate per quello che sono, delle sorprese retoriche che nella sorpresa denotano un senso.  La spiegazione la lasciamo all’acume di Jacques Lacan, le salse “gettano al vento le cambiali in bianco di una cavalleria folle”, ovvero l’esoterismo elimina lo scetticismo delle procedure.  Detto altrimenti.  Le loro ricette sono un gergo formalizzante?  Esistono nelle arti cucinarie linguaggi puramente operativi, privi di ogni ideologia?  La risposta è no.  Le cucine hanno più specchi di quelli che Alain Resnais ha usato in L’Année dernière à Mariembad.

Insomma, nella casseruola c’è sempre una béance tra la ricetta e la salsa.  L’immaginario non si muta nel simbolico soltanto se lo vuole.  La cuoca sa che, in ogni momento, un briciolo d’esitazione realista può mutarsi in una esoscopia d’ingredienti che precipita il gusto.

 

È l’ordine del linguaggio che ha permesso a Carême di classificare le salse.  Lo scoprì da sguattero davanti alle planches di Vitruvio nel Gabinet du Dessins del Louvre.  È la parola che rivela la norma.  Le salse madri hanno ceduto nel secolo della ragione ad un destino desiderante pur di entrare nel mondo del linguaggio, della cultura, del gusto, così nel mondo dei saperi e dei sapori le salse diventano una sostituzione di significanti, consentono alla gustazione d’introdurre significati nuovi, di separare il loro destino dalla coazione a ripetersi.

Lo si può vedere in un caso di specie.  Nel Medioevo la salsa verde appariva per quello che era, un camuffamento degli allessi e questo camuffamento costituiva per i privilegiati la nominazione del loro desiderio, sensibili ai colori associavano la salsa verde alla laidezza delle vecchie puttane.

Erano secoli nei quali prima di conquistare la tavola dei signori le salse avevano avuto un’importante funzione morale che s’inverava nella loro pretesa azione medicamentosa, inibendone  ogni abuso.  Tuttavia se gli atti alimentari sono strutturati come un linguaggio alla loro radice opera un materiale secondo leggi che sono familiari alle lingue positive.  In questo modo se la profezia leninista si dovesse realizzare le cuoche in politica saranno guidata in tutto e per tutto dal simbolico e sperimenteranno sul tessuto della parola la ruvida trama delle ideologie(°).

 

(°) – La politica in Italia lo ha già verificato, le cuoche possono dirigere gli affari di governo visto che i governanti sono finiti a fare gli sguatteri nelle cucine delle idées reçues.

 

Vissuto, emozioni e pensieri seppelliti nella salsa soffocano la loro identità nel momento stesso in cui questa si rivela matrix del gusto, delirio di totalità, una irrinunciabile e sconfinata vocazione sensoriale ad esprimere il tutto.  In termini analitici un piacere impossibile perché innominabile.  Di più, da quando le salse madri sono invecchiate diventando grasse e laide assistiamo ad una “lolitizzazione” delle loro figlie, glabre, magre, lisce, variopinte.  Come per le salse industriali non c’è più in loro né la nostalgia del peccato né la metamorfosi barocca degli intingoli.  Solo un’assuefazione all’umami, cioè, al glutammato monosodico.

 

Le salse madri nella loro infanzia ebbero un carattere che è mancato alle figlie, di essere induttrici di sensualità, espressioni di una civiltà orgiastica che ha assaporato nei cabinets particuliers i suoi répertoires e i suoi inconfessabili appetiti.  Come dimenticare certi guazzetti di rane dall’odore di foglie morte e di fica divorati solo perché queste bestiole sono a loro volta ghiotte di cantaridi(°)?

 

(°) – La cantaride o mosca spagnola è tra i cosiddetti afrodisiaci quella che ha sempre goduto di una credibilità ampia e sulfurea, soprattutto nel Settecento: serviva a confezionare biscotti al cioccolato per i boudoir dei libertini, che oggi devono consolarsi con i macarons.

 

La globalizzazione è anche il topos delle salse industriali(°) che sono confezionate con la stessa pasta di cui è composta la forma di merce.  Così allestite le salse esprimono per intero tutto il sex-appeal dell’inorganico, il loro iniquo fascino mercantile.  Da esse il gourmet esige soprattutto di essere “ricompensato” per le sue illusioni e le sue inappetenze.  Solo il loro brand le rivela come la cattiva coscienza del tempo.  Le infedeli guardiane della gaia coscienza.

 

(°) – Con la globalizzazione le salse sono diventate un convenience food in cui investire denaro e ricerca.  Con esse l’industria del’agroalimentare ha conquistato due traguardi.  Un’innovazione a costi molto bassi – vale a dire dei nuovi sapori che mantengono nel tempo odore, colore, consistenza con composti chimici in cariche tali da non provocare patologie – e una sicurezza alimentare accettabile dal punto di vista dello HACCP (Hazzard Analysis Critical Control Point).

 

Se prendiamo la materia per l’oggetto in cui s’invera possiamo costruire un processo metonimico tra la salsa e il senso del mondo in cui il divenire della salsa un prodotto culturale esprime alcuni fattori che modellano la socialità, almeno così sembra.

 

La scimmia divenne uomo con una dieta da lupo,
poi divenne lupo con la transustanziazione.
Bernard Rosenthal.

L’alchimia nel Medioevo prestò alla salsa non solo un abbozzo di ontologia, ma anche il mito della transustanziazione, quel mutare della sostanza che, ci fa osservare Gaston Bachelard, fa del reale un alimento e della ghiottoneria un’applicazione del principio d’identità.  Una condizione nella quale si  perpetuano le virtù sostanziali della materia alimentare che non si piega semplicemente alla forma e che esalta l’interiorità a espressione della sostanza.  In questo senso l’equivalenza alchemica di sale e oro è un’affermazione di questa sostanza come “causa prima”, come “spessore delle cose” e caput mortem.   Aggiunge Gilbert Durand: “Il sale che appartiene al dominio culinario, alimentare e chimico, può passare in una chimica di prima istanza, a fianco dell’acqua, del vino e del sangue, per il padre degli oggetti sensibili” e commenta “del resto il sale come l’oro è inalterabile e serve all’umile conserva alimentare”. 

 

Abbecedari.  Se consideriamo il centinaio di manoscritti di ricette di cucina medioevali che conosciamo emerge un interrogativo, quello di una tecnica che si trasmetteva e ancora si trasmette soprattutto oralmente e dunque del perché essa sia diventata anche una forma scritta proprio a partire da un secolo in cui la scrittura non era accessibile a tutti e, soprattutto: scritta per chi?  Forma che le cronache indicano capace di diffondersi con una certa progressione e che di fatto istituisce, direbbe Marshall McLuhan, un altro modo di pensare la ricetta come media(°).  Sono circa una trentina i manoscritti databili tra il tredicesimo e il quattordicesimo secolo e più di settanta quelli del quindicesimo.  Quanto ai possessori dei manoscritti essi spaziano tra le corti e le canoniche dove però imperava la lingua dei padroni: il latino.  Interessante è anche la loro struttura, accanto al corpo delle ricette vere e proprie sono completati dagli argomenti più compositi, in particolare di medicina e a scalare di religione, letteratura, filosofia spicciola, agronomia e veterinaria.  Questo fa sorgere il dubbio che le ricette scritte abbiano stentato molto a trovare la loro pratica letteraria volgare.

Uno dei primi manoscritti che si possono definire un ricettario è il Du fait de Cuisine di Maître Chiquart, ragionevolmente databile intorno al 1420(°°).  In una prospettiva di cultura materiale questo dipese da un aumentato volume, varietà e velocità di circolazione delle derrate agricole.  In ogni modo ogni conclusione deve tenere anche conto che i manoscritti di cucina erano facili da riprodurre, alterare per dispetto o saccenteria, oppure glossare per vanità.  Una sorta di diritto di trasformazione e di condensazione che pareva allora indiscutibile quando questi finivano nelle mani di altri esperti.  Basti osservare i due più famosi, il Viandier – come risulta dall’inventario dei beni del duca di Barry costui acquistò una copia di questo manoscritto nel 1404 al prezzo di duecento scudi d’oro – e il Mesnagier de Paris.  Sono entrambi stratificati da glosse e da considerazioni di merito che rendono dubbio la prima loro stesura e a chi effettivamente si rivolgano.  In ogni modo verso la fine del quindicesimo secolo si moltiplicano le loro traduzioni, soprattutto dal latino.  Gli  autori, che non sono solo cuochi, ma medici, agronomi, dietologi coltivano un mixage di testi spesso raffazzonati e favorito dall’assenza di diritti d’autore.  Ma chi sono gli editori?  In questa stagione della pergamena in primo luogo i monasteri, che integrano i manoscritti della tradizione cucinaria alle somme e alle enciclopedie e s’industriano a distribuirli.  Questi testi, anche supponendo che fossero indirizzati a dei cuochi, lasciano in sospeso la domanda, ma costoro sapevano leggerli?

Maître Chiquart(°°°) nella prefazione al suo scritto da una parte sembra in qualche modo restio a dilungarsi sulle ricette, dall’altra è come se volesse compilare un’antologia del sapere orale e della sua esperienza di cuciniere al servizio di Amedeo VIII di Savoia.  In alcune copie di questo scritto, che si devono alla pazienza monacale, si parla di rotoli invece che di incunaboli o post-incunaboli.  Ciò consente di dedurre che il rotolo è stato la prima forma – pratica – nella quale circolavano molti epulari nelle cucine.  C’è anche da dire che essi non erano indirizzati solo ai cucinieri.  Per  esempio, il Liber del Coch(°°°°) è diviso in tre parti, una raccolta di ricette, un manuale per gli scudieri addetti al taglio (gli scalchi), un altro per l’arte della sommellerie.  Il Mesnagier de Paris è dedicato dall’autore alla sua sposa al fine di educarla a diventare una buona padrona di casa e a gestirne l’economia.  Altri testi – come il manoscritto di Tegernsee (1535) – è dedicato all’esercizio cucinario in funzione degli imperativi imposti del calendario religioso (°°°°°).

In altri termini, per tornare agli interrogativi iniziali, è difficile affermare che la trasmissione orale e quella scritta del sapere cucinario abbiano convissuto negli stessi luoghi e con i medesimi protagonisti e intenti.  Certamente la forma dei manoscritti, la loro grandezza, l’assenza di tavole riassuntive o di indici rende difficile associarli immediatamente all’uso in cucina, mentre è più logico pensare che essi facessero parte di una proto-letteratura “romanzata” il cui obiettivo era quello di trasmettere un immagine di fasti e di privilegi, in breve, di una letteratura destinata all’ostentazione, la stessa che Georg Simmel qualche secolo dopo vedrà come la cattiva coscienza della forma di merce.

 

(°) – Come media il gusto di una ricetta è stato nel corso del Novecento soprattutto “cartaceo”, solo da qualche anno è diventato anche visuale: quello che è buono da vedere è buono da immaginare!

(°°) – Cfr., Antonella Salvatico, Il principe e il cuoco, Torino 1999.

(°°°) – Un manoscritto di Maître Chiquart è conservato a Château de Chillon, sul lago Lemano.  Tra le sue pagine è stato rintracciata una “lista della spesa” di questo cuoco al servizio dei Savoia che prevedeva l’acquisto di duecento buoi, duecento agnelli, tremila polli e seimila uova.  Il tutto per un matrimonio con quattrocento invitati.

(°°°°) – Il Libre del Coch fu pubblicato nel 1520 a Barcellona.  È scritto in catalano, l’autore si firma come maestre Robert e dichiara di essere il cuoco di Ferrando o Fernando re di Napoli.  Ebbe da subito un grande successo e fu più volte ristampato.  La prima edizione in spagnolo è del 1525 con il titolo, Libro de Cozina, come autore viene indicato Ruperto de Nola.  Nonostante le ricerche bio-bibliografiche chi ne sia l’autore è ancora controverso.

(°°°°°) – L’abbazia di Tegernsee o Abbazia Imperiale di Tegernsee è stata fino al diciannovesimo secolo la più conosciuta comunità benedettina di Baviera e un importante centro di produzione di manoscritti.

 

Addenda.  Con i ricettari manoscritti e in seguito a stampa nasce anche una “mentalità collettiva” e, contemporaneamente, una dimensione storiografica che sottintende al modo in cui i loro committenti rappresentano e in qualche modo formalizzano il loro rapporto con la vita corrente e le sue cerimonie e, più in là, con la coscienza del corpo e del vissuto.  Questi documenti portano con se un sapere specifico e una certa eccedenza di senso che meriterebbe di essere analizzato.  

 

Il desiderio e il disgusto sono le due colonne del tempio del Vivere.
Paul Valery.

La forma di salsa è un congegno che contribuisce a coagulare un apparato, vale a dire è una configurazione, la stessa che definisce una Gestalt.  Come configurazione la forma di salsa è un’unità funzionale determinata in base alle relazioni tra gli elementi che la compongono.  Acquisita culturalmente ha la tendenza a raggiungere un equilibrio in cui i componenti concorrono ad innescare una percezione gustativa chiara e concisa, in sostanza, buona da pensare.

In accordo con Christian von Ehrenfels si può dire che il processo gustativo non percepisce “una folla di dettagli giustapposti” ma una “formazione”.  In questo senso la salsa “pensata” diventa un’astrazione composta da un liquido o da un semiliquido in cui delle sostanze più o meno addensate legano tra di loro dei lipidi e delle spezie.  Se poi diamo retta a Hermann Ebbinghaus e alle sue teorie “associazioniste” la salsa pensata è ancora più buona se l’assaggiamo là dove ci auguriamo di trovarla, per esempio in un ristorante di lusso.  In ogni caso la curva dell’oblio svaluta le sensazioni che abbiamo avuto nell’immediato e fa diventare tenace il ricordo della sua Gestalt.  Funzionalmente questa Gestalt è il nome in cui l’accumulo del ricordo gustativo fa le veci del sapore.  Ciò implica che il “contesto” della forma di salsa è più significante del “testo”, essa comprende gli alimenti in cui è aggiunta, cioè li prende insieme.

 

La salsa condisce e poi avvalora, sublima, nasconde, rimuove, trasforma, maschera, esalta, camuffa, mimetizza, vela, occulta, traveste, eleva, trascende, esagera, elogia, onora, decanta, evidenzia, eccita, smorza, mitiga, convalida, dissimula, cela, sfuma, confonde, appanna, accresce, esaspera, acuisce, addolcisce, amplifica, enfatizza, modera, assorbe, attenua, impregna, inzuppa, addensa, colora, uniforma, unge, macchia, inzacchera, liscia, fonde, aggrega, omogeneizza, domestica, diversifica, conforma, adegua, differisce…

 

La vera gloria del ghiottone è la competenza enciclopedica, l’abilità nell’enumerare gli ingredienti di una salsa dal maggiore al più insignificante e di ragionare sulle quantità.  Lo sapeva bene Ian Lancaster Fleming che confezionò per una delle sue spy-story una risoluta e molto british caccia al nemico di sua maestà a partire dagli ingredienti del fondo di una bouillabaisse.

 

La salsa come paradigma evidenzia le forme della comunicazione cucinaria, diventando sostanza sociale e materia di interrelazioni.  In questa “evidenziazione” si creano strategie che esaltano i desideri, soddisfano le passioni, formano nuovi codici o trasgrediscono i vecchi, esaltano l’azzardo e minano ogni logica.  Se poi consideriamo la forma di salsa come una forma di sociabilità in cui è racchiusa una visione del mondo, allora essa è assimilabile ad una metafora che consente di comprendere alcune significative rappresentazioni del mondo occidentale.

Questa equivalenza nasce dal fatto che sociabilità, socialità e salse possono essere intese come dei leganti che concorrono a costruire dei legami che si modificano nel tempo e contribuiscono a scrivere una storia sociale del gusto.

 

Le salse medioevali erano acide – perché a base di succo di agrumi, aceto, succo d’uva acerba, soltanto più tardi si userà il mosto dolce – e povere di grassi se non addirittura prive.  Venivano legate con la mollica di pane raffermo inzuppato nell’acqua, nel brodo, nel latte o da pane sbriciolato.  Qualche volta erano addizionate con un tuorlo d’uovo e variamente speziate con erbaggi profumati.  Servivano più che altro a “condire” carni rosse e selvaggina.  Il loro gusto si modificò nel tempo, sia per il variare delle dosi degli ingredienti usati, sia per l’intervento di nuove spezie.  Per la politesse rappresentavano una forma di distinzione e spesso erano arricchite di poteri magici, medicinali e afrodisiaci.  L’aggiunta di miele in molte di esse serviva a smorzare il sapore forte di frollatura della selvaggina, sovente al limite della putrefazione.  Non per caso questa è la grande stagione delle mostarde, la regina delle salse medioevali.

 

Le salse nell’Encyclopedie.  Sauce o Sausse composizione liquida nella quale i cucinieri cuociono le pietanze più diverse o preparano a parte per condire le carni quando sono cotte.  Conosciamo bene le salse moderne, ma forse può far piacere trovare qui qualcuna delle  salse della cucina dei nostri progenitori che il signor Sauval(°) ha repertoriato nelle sue antichità di Parigi.  Queste salse sono la salsa gialla, la salsa calda, la salsa à compote, la salsa mostarda o galantina, la salsa rapée e per finire la camelaine.

La salsa gialla si preparava con il pepe bianco, che i nostri padri chiamavano jaunet (ambrato).  Fa parte delle salse calde.  Nella salsa à compot è invece impiegato il pepe nero.

La salsa mostarda o galantina è fatta con le radici di questa pianta che i nostri botanici non conoscono più e che forse non è altro che il rafano che noi mettiamo oggi nelle nostre salse e che è non meno caldo e piccante della galantina.

La salsa rapée si fa con il verjus (verde) del grano o con il ribes verde.

La salsa verde, che apprezziamo ancora oggi, aveva tra i suoi ingredienti lo zenzero e il verjus, che si tingevano di verde con il succo di prezzemolo o di grano verde, e si completava con della mollica di pane bianco.

Per quanto riguarda la camelaine, che prende il suo nome da qualcosa che ci sfugge, è composta di cannella, zenzero, chiodi di garofano, grani di mostarda, vino, verjus, pane e aceto.  Ne consegue che è la più articolata di tutte le salse di questo tipo.

Il diritto di fare e di vendere delle salse apparteneva un tempo ai mercanti di spezie che si definivano speziali-apotecari-salsieri, ma in seguito il nome e la merce sono passati ai maestri acetari che ancora oggi hanno la qualità di maestri salsieri.

La salsa Robert, come dice il Cuisinier(°°), è composta da cipolle condite con della mostarda e cotte nel grasso di una lombata di maiale o di qualcosa d’altro che si è usato p

er bagnare la salsa.

I cucinieri chiamano salsa verde anche una salsa fatta con il grano verde, pane abbrustolito, pepe, sale, il tutto schiacciato e passato alla stamigna(°°°).   

 

(°) – Henry Sauval (1623-1676) è stato avvocato e storico.  Nel 1724 uscì postuma in tre volumi, la sua Histoire et recherches des antiquites de la ville de Paris.  E anche l’autore di L’histoire des bordels de la Cour et de Paris, composta da due parti, Galanterie des rois de France e l’altra sul fenomeno della prostituzione.  Quest’ultima è stata ripubblicata nel 2008 con il titolo Traité des bordels.

(°°) – Si tratta di Le cuisinier royal et bourgeois di François Massialot, uscito nel 1705.

(°°°) – Da, Encyclopedie ou Dictionnaire raisonné des siences, des arts et des métiers, 1751, prima edizione, tomo quattordicesimo.

***

Leggi le altre parti
Una storia sociale delle salse – Parte I
Una storia sociale delle salse – Parte II
Una storia sociale delle salse – Parte III
Una storia sociale delle salse – Parte IV
Una storia sociale delle salse – Parte V
Una storia sociale delle salse – Parte VI
Una storia sociale delle salse – Parte VII
Una storia sociale delle salse – Parte VIII
Una storia sociale delle salse – Parte IX

Un pensiero su “Una storia sociale delle salse – Parte II

  1. Pingback: » Una storia sociale delle salse – Parte I · Piccolo Archivio di Gastronomia e Scienze leccarde