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Una storia sociale delle salse – Parte IV

Una storia sociale delle salse (2013) – Parte IV

Una storia (II) Nella cucina romana erano molto popolari i brodetti o “corboglioni” di pesce come il tarantinum, l’apicianum e il martianum, si collocavano accanto agli intingoli per gli animali da piuma quale la salsa per condire la carne di struzzo a base di erbe aromatiche e liquamine, cioè strutto fuso, addensata con l’amido.  Un posto a parte avevano le salse a base di vino in cui erano messe a macerare bacche di mirto, di ginepro e di mortella, degne di pavoni e fagiani.  Ne parla anche Lucio Giunio Moderato Columella, agronomo ed autore di un De re Rustica in dodici volumi.  Un’altra salsa buona per le carni bianche era a base di avellane, le nocciole di Avella, tritate e mescolate con miele, vino, melissa e nipitella.

Due preparazioni particolari erano la salsa verde, profumata con lo spigonardo (lavanda), e la salsa bianca, specifica per l’oca allessata.  La prima aveva come ingrediente principale i pinoli tostati, la seconda le mandorle pestate, c’è chi scorge in questa preparazione un preludio di ciò che sarà il “biancomangiare” nel Trecento.  Una salsa forte era invece destinata agli uccelli di palude, come le folaghe, per scacciare il persistente odore di putrido delle loro carni, per questo sempre lessate in un fondo d’aceto.  Si componeva di aneto, menta, radice di laser, strutto, senape, olio di Liburnia e sapa(°).  In un certo senso tutte queste preparazioni sono confluite nella ravigote francese, una salsa leggermente acida che si può preparare sia a caldo, partendo da una vellutata, che a freddo.  Quanto al pollame era reso gustoso da salse brusche a base di aceto di Lesbo o salse bianche a base di panna liquida, uovo e aromi.  Un ricetta popolare era quella del pollo frontoniano, da Frontone, un ghiottone vissuto sotto l’imperatore Severo, a base di salsa verde con l’aggiunta di aneto, porri, peverella e coriandolo.

Anche per il maiale e il cinghiale esistevano salse ad hoc.  Erano per lo più a base di bacche di lauro pestate come nel “porco laureato” o da vino e garum che compongono l’enogaro.  Sosteneva Lucio Anneo Seneca che questi intingoli avevano più lo scopo di “irritare” che di soddisfare la fame.  Ma non tutti erano d’accordo, il gaudente imperatore, siriano di origine, Eliogabalo, amava istituire premi per chi avesse trovato la ricetta di un nuovo intingolo e lui stesso si era cimentato in questa gara con una salsa ginestrata o ginestrina, di colore giallino a base di mostarda e zafferano.  Vivrà negli epulari italiani fino al quattordicesimo secolo.

 

(°) –  Il Silphium si ritiene fosse un’Ombrellifera o un’Apiacea, originaria della Cirenaica.  Cresceva, ad ascoltare Teofrasto, in modo spontaneo negli aridi ed incolti terreni del plateau costiero di questa regione.  I botanici sostengono che l’unica pianta oggi esistente che le assomigli nell’aspetto è la Ferula communis.  I Romani la chiamavano Laserpitium e Laser o Lacrima cyrenaica fu chiamato il succo resinoso che si estraeva dalle radici e dal fusto. Questo succo era poi impastato con farina per essere conservato e venduto.  Rappresentava una delle ricchezze di questo angolo del Mediterraneo che la scambiava con i metalli preziosi.  Plinio ne parla come di un dono della natura, ma già a partire dal quinto secolo dell’era comune se ne perdono le tracce, forse a causa del suo intenso sfruttamento.  Resta il fatto che ogni tentativo di ritrovare questa varietà botanica, anche in epoca recente, non ha dato risultati.  La forma del frutto, infatti, è l’elemento principale che consente di distinguere le diverse specie di Ombrellifere e nessuna delle piante che conosciamo possiede un frutto dall’aspetto simile a quello che aveva il silphium che sulle monete dov’è rappresentato appare chiaramente cordiforme, cioè di una forma molto simile a quella di un cuore.  A questa Ombrellifera le si attribuiscono molte virtù salutari, dalla cura dei disturbi femminili alla risoluzione degli ascessi, alla guarigione dal morso dei serpenti.  Durante il fascismo ebbe il triste onore di diventare il simbolo araldico dei carristi della Cirenaica.

A Roma le salse a base di laser facevano concorrenza al garum, lo si usava nella minestra di castagne, per condire le zucche, nel sugo per l’orzo e la spelta, nella ricetta del pollo Numidico e per farcire le lepri.  Coloro che non potevano permettersi il costo salato dell’originale silphium cirenaico, utilizzavano il silphium cosiddetto “asiatico”, una varietà che cresceva nell’area della mezzaluna fertile.  Corrisponde probabilmente alla Ferula asa foetida, da cui si estrae l’asafetida, una sorta di droga detta anche stercum diaboli, ma dal gusto più amaro e dall’odore più pungente. 

Quanto alla sapa a cominciare dal sedicesimo secolo divenne molto popolare nelle comunità ebraiche italiane come salsa per condire pesci e oche.  Lo dimostra tra le altre cose il notevole commercio di mosto da cuocere con esse soprattutto nelle regioni venete dove si diceva che gli ebrei pregavano in jiddish, ma mangiavano in italiano. 

 

Le salse dovrebbero educare l’odorato, lo sostenevano gli Abderiti di Tracia, forse è per questo che un amante del merluzzo sottosale com’era Kant ha scritto un libro così insulso come l’Antropologia pragmatica (1798) (°).  A differenza degli animali e dei ghiottoni questo filosofo non aveva capito che l’odorato è uno dei varchi attraverso il quale si percepisce il senso del mondo a dispetto dell’idealismo, rappresenta un modo spavaldo di “penetrare” nel reale e di farsi “trapassare”.  Possiamo anche aggiungere che è proprio la rozzezza pagana delle salse e il pungente dei loro fumi che spingeva i greci a circondare i banchetti di ghirlande di fiori dalle fragranze più diverse e a bruciare resine profumate nei bracieri (°°).  Per ingannare!

 

(°) – I portoghesi, meno filosofi e più pratici, hanno composto per il bacalhau una salsa per ogni giorno dell’anno.

(°°) – Poi, nell’impudica Belle Époque, venne l’odio per le fragranze e il conseguente amore per i cimiteriali fiori finti.  Nel 1886 Auguste Escoffier, scultore mancato, pubblicò il loro decalogo, Le traité de travailler les fleurs en cire.  La parola odio appare forte, ma come dimenticare che condivide il suo etimo con odore?

Nella pratica cucinaria i fiori in cera sostituirono, anche se lentamente, quelli di burro e strutto gelato per la facilità con cui potevano essere realizzati.  La loro composizione consisteva in cera vergine sciolta a bagno-maria con un quinto del suo peso di “bianco di balena” e un quinto di trementina.  Possono essere fusi in forme di legno o stampi arrangiati con carote o rape.  La cera poi si colora con colori ad olio quando è ancora liquida.  Un tempo la cera era la materia di un genere artistico con un passato sorprendente, si veda di Julius von Schlosser, nella traduzione francese, Histoire du portrait en cire, 1997.

 

Come il disprezzo degli odori è per molti la spia di un disprezzo del corpo, così gli aromi troppo pronunciati di certe salse sono l’espressione di una disapprovazione della ghiottoneria.  A loro favore l’impossibilità di classificarli nonostante la loro natura materialista ne favorisce la vocazione di chiasmi.  Un esempio per tutti, il profumo dello zafferano è stato per secoli assimilato a quello dell’oro.  I signori indoravano – con quello vero – il becco e le zampe dei pavoni.  I poveri coloravano con lo zafferano le torte di rape, finirà nel risotto dei milanesi quando costoro scoprirono il “riso del sabato”, una ricetta ebraica.

 

Nelle salse si verifica un curioso paradosso, quello per cui l’odorato acquista nel corso della cottura un postulato di certezze superiori alla vista che il ghiottone riassume, dopo aver annusato il piatto, con un sospiro.  Del resto, a differenza della vista che mira invano alla verità, l’odorato sogna la jouissance che compone la sua natura materiale.  Qui vale l’assioma fenomenologico per il quale l’odore fumoso di una salsa è la salsa stessa, a differenza di ciò che capita agli arrosti e al babysh della politica politicata.

 

Una buona salsa non dissolve il suo profumo nell’aria, lo moltiplica in modo che chi la

odora non debba allo stesso tempo pensare.  In quest’ottica è assimilabile alle ghiandole animali, causa prima dell’attrazione sessuale, o all’odore materno che assicura al neonato ricordi gradevoli che persisteranno per tutta la vita.  Del resto l’odore è pedagogico, l’ignoranza che lo denigra asociale.

Gli uomini hanno paura di perdersi negli odori perché temono la solitudine della soggettività, ma soprattutto quella stagione della loro infanzia durante la quale non era il potere economico a fare la differenza, ma il naso.  Di riflesso il pudore appare una sorta di controllo dei processi di costruzione dell’Altro che va di pari passo con la socializzazione dell’odorato.  In questo senso non bisogna mai sottovalutare il nesso etimologico che lega odore e odio o, meglio, che concorre alla costruzione di quei codici che spingono ad associare l’odore a circostanze che possono essere gradevoli o sgradevoli.

 

Tutte le volte che una salsa è prima nella testa e poi nella pentola non si fa altro che legittimare l’imperio della tradizione classica, l’ubbidienza ad una volontà che ha nei suoi modelli ideali il prototipo di cui la salsa è una copia.  La stessa cosa avviene con la democrazia borghese e il sempre eterno ritorno delle sue archetipiche illusioni, che come le piogge, cadono immancabilmente dall’alto.

 

Una storia (III)Sono le Crociate che hanno cominciato a cambiare il gusto della tavola in Europa.  Anche se molte spezie erano conosciute fin dai tempi dei romani, le attività delle “spezierie” si diffusero soprattutto in seguito a queste inqualificabili guerre di religione dal sapore predatorio.  In Italia i primi ad approfittarne furono i veneti, anche grazie ai viaggi orientali di Marco Polo, i pisani e i fiorentini.  Una notizia sul pepe, che si teneva “stricado”in borsette di cuoio, la troviamo nella geniale “Maccaronea” di Merlin Cocaio, che riscattò la letteratura italiana dalle dabbenaggini dell’Orlando Furioso.   A Venezia i Mocenigo erano detti “del pevere” e ci sono numerosi documenti nell’Archivio di Stato che attestano dei loro importanti commerci, soprattutto con la Spagna e il Nord Europa.  La famiglia dei Fugger ad Augusta in Germania, con gli ingenti guadagni del commercio delle spezie intercorso con i veneziani, arrivò fino al punto di mettere in pericolo il monopolio bancario italiano.  I Medici e i Salutati a Firenze che gestivano i prodotti dell’industria tessile e il mercato del denaro liquido, erano grandi commercianti di spezie.

Si può dire che a parte le “agliate” realizzate con i bulbi importati dalla Spagna e dagli orti dei Mauri del Sahara, tutte le salse, dalla “peperata”, alla “cominata”, compresa la “garofolata”, erano a base di droghe coloniali.  Tra queste certamente la più famosa era la camelina o cannellina, composta di cannella, chiodi di garofano(°), gengevaro (zenzero), uva passa.

In Francia si formò, sotto Carlo IV, una corporazione, quella dei salsieri (saulciers) che nel 1514 diede vita ai “vinaigriersmoustardiers”, cioè, ai mostardieri dell’aceto, un liquido acido che già da tempo affascinava gli alchimisti e gli imbroglioni.  In seguito sotto Luigi XII si suddivisero in distillatori di acquavite o di spirito di vino e credenzieri.  Sono anche gli anni in cui le salse, soprattutto la mostarda, venivano vendute agli angoli delle strade delle principali città della mitteleuropa.  Anche se la mostarda è una preparazione tutto sommato romana – come tra l’altro afferma un celebre medico Hermannus Boerhaave (1668-1738) (°°) – sono le città di Digione e di Angers a fabbricare questa salsa come le conosciamo ancora oggi.  A questo proposito fu l’antipapa digionese Clemente VII abile nel meretricio di cose sacre – tanto che non cascò nella trappola dell’autenticità della “sindone” che dichiarò, con una bolla, essere solo il  risultato di una frode ingegnosa – a creare per primo la carica di “mostardiere del Papa” per favorire, si racconta, la sua golosità e gl’affari dei suoi nipoti.  Quanto all’ayolì o all’agliata, considerata la teriaca dei poveri, si vendeva insieme alle aggiugate o alla “bottarigata” di cefalo e di barracuda sciolta nell’olio e spesso adulterata con le uova del barbo che sono tossiche.  Una curiosità, il tartufo che i ghiottoni romani avevano celebrato nella cucina medioevale scompare dalle tavole.  Bisognerà aspettare il Rinascimento per vederlo di nuovo trionfare.

 

(°) – Le cronache raccontano che i chiodi di garofano furono importati in Italia da un viaggiatore senese, Nicolò dei Salimbeni che Dante Alighieri ricorda in un passo dell’Inferno.  Secondo Dante “discoperse” il costoso vizio dei chiodi di garofano, allora costosissimi, e lo “appiccò nell’orto”, una metafora per indicare la città di Siena, “Nicolò che la costuma ricca del garofano primo discoperse…”, Canto XXIX.  Va anche detto che per alcuni storici non si tratta di Nicolò Salimbeni, ma di un Buonsignore.  Questa spezia è citata per la prima volta come condimento domestico nel sesto secolo in Apici Excerpta di Vinidarius.  La prima ricetta che ne parla, invece, è contenuta nell’Epistola de observatione ciborum di Anthimus, un testo dietetico del quinto, sesto secolo.  Al tempo dell’Alighieri un piatto che abbondava di chiodi di garofano era il manzo pastizzà dei veneti, una sorta di stufato speziato.

(°°) – Nella storia della medicina questo medico è ricordato per aver identificato il cremore di tartaro nel mosto d’uva, l’espressione di tartaro deriva dall’arabo e significa deposito del vino, ma soprattutto lo si celebra come il fondatore dell’insegnamento clinico del moderno ospedale.

 

In Europa le salse negli anni a cavallo tra la cacciata degli ebrei dall’Andalusia e l’assoggettamento degli indigeni americani sono un fenomeno convulso e cangiante come gli uteri transmotio di cui parla Ippocrate.  In esse non c’era il divenire ideale delle utopie, ma la franca arroganza dell’appetito senza denti, c’era la voracità dei signori e l’imbarazzo dei chierici.  Erano schiave di un’economia della rarità resa meschina dal superfluo(°).

 

(°) – In qualche modo il commercio delle spezie ha inaugurato i mercati dell’immateriale forgiando gli strumento della speculazione finanziaria.  Rapportato alla data di questo libro il commercio di pepe e cannella della Serenissima si può stimare in difetto in venti milioni di euro a stagione.  Su di esso, poi, dopo l’esplorazioni di Vasco da Gama, dominerà la corona portoghese.

 

05

Le nostalgie alimentari vanno scrutate nei loro arrière-pensées.
Katharina di Niewerve

Una storia (IV)Le salse come le conosciamo oggi cominciano a diventare ricette nel Rinascimento.  Sono innumerevoli e il loro nome dipendeva o dal sapore dell’ingrediente principale o dal colore.  Nel primo caso, per esempio, abbiamo la “limonia” a base di succo di limone e la “limia” o “lumia” a base di arancia agra o di melangola, nel secondo la camelina che ricorda il manto dei cammelli e il suo ingrediente principale, la cannella.

Popolare era il “cisame de pesse”, una salsa veneziana agrodolce.  Se ne può leggere la ricetta in un antico manoscritto oggi conservato presso la biblioteca dell’Università di Marburg, in Germania: Toy lo pesse e frigello, toy zevolle e tagliale menude, po’ frizelle ben, poy toli aceto et aqua e mandole monde intriegi, et uva passa, e specie forte, e un pocho de miele, e fa bolire ogni cossa insema e meti sopra lo pesse.  Questa salsa era la base delle sarde o sardelle “in saor”.  Un’altra salsa era la “rucata” caratterizzata dalla ruchetta.  Poi, c’era il “sartramone” una salsa al sapore di carni diverse.  La “peverada scleda”, con peperone rosso, mele, aceto e zafferano, buona per la carne di “castron o di capreto”.  La “nocellata” a base di nocciole,  la “saracinesca” alle erbe aromatiche, agresto di uva e visciole, la “finocchiata” con il finocchio selvatico e la “salsa verde”, a base di prezzemolo, zenzero, chiodi di garofano, cannella e aceto, forse la più popolare e riuscita, arrivata fino a noi anche se con una composizione diversa.

Curioso era il “sapor tartaresco” con aglio, mandorle, cinnamomo, zenzero, chiodi di garofano, zucchero e tuorlo d’uovo.  Nelle salse di questa stagione cucinaria una presenza fissa era costituita dall’agresto che si consumava anche da solo, soprattutto con la carne di piccione e con le cosce di rana che il Platina raccomanda di cucinare solo nei mesi estivi.

Due altre salse importanti erano quella a base di aglio e quella di cipolle.  Quest’ultima, in particolare, mescolata con il sangue dell’animale cucinato serviva a preparare la salsa “zeunìa” per pollastre e colombe e la salsa “romanìa” per polli in padella.  Ne parla un anonimo libro di cucina toscano che risale al XIV secolo.  Particolari erano le salse a base di frutta e di fiori, alcune delle quali sopravvivono nelle cucine tedesche ed inglesi.  Sono salse a base di prugne, mele cotogne, more selvatiche, succo di melograno, visciole, ribes nero (cassis), uva spina, fiori di sambuco, camomilla, cumino, coriandolo, sommaco (°).

 

(°) – Sommaco o Sommacco (Rhus coriaria).  Un arbusto a foglie pennate dai fiori giallo-verdastri riuniti in pannocchie e dai frutti di colore rosso-bruno.  I frutti, raccolti prima che giungano a maturazione, essiccati e tritati, danno vita ad una spezia dal sapore acidulo, simile al succo di limone, quasi sconosciuta in Occidente, ma particolarmente usata nella cucina mediorientale.  In Libano e in Siria la impiegano per insaporire il pesce.  In Turchia la mescolano alle insalate.  In Iran serve ad insaporire il kebab.  Ideale con le lenticchie, le farce di carni bianche, le salse alla cipolla e allo yogurt.  Se ne ricava anche un succo immergendo i semi triturati in acqua.  Del sommacco ne parla Plinio nella sua “historia” come di una pianta usata per la concia delle pelli e la preparazione di medicine.  Fu introdotto dagli arabi in Sicilia, una regione nella quale attecchì bene soprattutto nel territorio di Piazza Armerina dove all’inizio dell’Ottocento se ne cominciò la coltivazione intensiva.   Alcune antiche cronache raccontano che gli ebrei la usavano per preparare un pane di carestia, buono per accompagnare le lumache cotte sotto la brace, una cibaria poco kasher, ma capace di riempire lo stomaco.    

 

…riverrun, past Eve and Adam’s, from swerve of shore to bend of bay,

brings us by a commodius vicus of recirculation back to Howth Castle and Environs…

James Joyce

Quando l’appetito era il miglior condimento gli aromi si chiamavano aperitivi, il sapore si costruiva con il sale, le droghe coloniali servivano ad imbalsamare i cibi e a produrre sia sulle papille gustative che sull’“apparecchio stomatico” un eccitamento benefico che facilitava la loro completa “chimicazione”.  Ogni inizio comincia con una fine come nel Finnegans Wake.

 

L’aspetto polisemico delle salse le apre ad una proliferazione di significanti, complessi e strutturati:   “…Ebbene, permettimi di darti una ricetta di cui mi ringrazierai in eterno.  Mescola, trenta grammi di vasellina, cinque grammi di farina di senape, due grammi di pepe di Caienna, tre grammi di acido borico.  Intingi la punta del dito in questo composto e ungiti con movimenti circolari la clitoride e le piccole labbra prima di cominciare a masturbarti.  La reazione non è troppo dolorosa?  No. Per niente. Le dosi sono misurate. …”(°).

 

(°) – Da, Pierre Louÿs, Douze douzains de dialogues on petites scènes amoureuses, Parigi 1927.

 

Alcune preparazioni preliminari o appareil(°):  Fondo bruno di vitello chiarificato, di pollame e di selvaggina.  Brasature preparatorie per la spagnola e la demi-glace.  Fondo bianco di vitello, di pollame e di selvaggina.  Brode e consommé semplici o in marmitta, di manzo, vitello, pollame e selvaggina.  Fumetto di pesce al vino rosso.  Essenze da fondi chiari bruni o bianchi molto ristretti.  Ghiacce di brode di carne condensate a partire da un fondo chiaro o da un fumetto.

Fondo bruno di vitello, di pollame e di selvaggina legati.  Spagnola.  Demi-glaceAméricane per pesci e crostacei.  Coulis di crostacei.  Vellutata di vitello, di pollame, di selvaggina.  Vellutata di pesce.  Besciamella.  Salsa al pomodoro.  Concassée al fondo di pomodoro.  Purea o coulis di pomodori.  Salse al vino bianco senza o con panna.  Salsa al vino rosso.  Olandese.  Maionese. 

VinaigretteRoux bianco.  Roux biondo.  Roux bruno.  Roux cotto per gli allestimenti.  Burro maneggiato.  Mirepoix di magro, grassa, alla bordolese.  MatignonSalpiconDuxelle secca, bonne femme per le farce e per le guarnizioni.  Farcia per pâté di vitello, maiale, pollame, selvaggina, fegati, per gratin di paste calde.  Farcia di maiale per salsicce.  Farcia da desserte magra e grassa.  Farcia per duxelle, inglese, Maître d’Hôtel, rouennaise.  Farcia per pesci brasati.  Farcia à gratin per crostoni.  Farcia mousseline grassa e magra.  Panata di pane, di farina, frangipane, di riso, di patate.  Godiveau di vitello, alla lionnese.  Marinata cruda, cotta.  Bianco per cuocere i legumi, le frattaglie.  Courtbouillon al latte, all’acqua, à la nage, al vino rosso, all’aceto.  Salamoia al sale, liquida.  Gelatina semplice, di pollame, di selvaggina, al vino bianco, al vino rosso.  Burri.  Da quello all’aglio alla vinaigrette di burro, sono almeno sei dozzine.  Infine le salse lavorate.

L’impoverimento lessicale in cucina va di pari passo con la sua trasformazione in industria.

 

(°) – In cucina si chiama appareil una preparazione normalizzata e codificata di ingredienti diversi che viene usata in concorso con altri prodotti per realizzare la ricetta.

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Leggi le altre parti
Una storia sociale delle salse – Parte I
Una storia sociale delle salse – Parte II
Una storia sociale delle salse – Parte III
Una storia sociale delle salse – Parte IV
Una storia sociale delle salse – Parte V
Una storia sociale delle salse – Parte VI
Una storia sociale delle salse – Parte VII
Una storia sociale delle salse – Parte VIII
Una storia sociale delle salse – Parte IX

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