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Una storia sociale delle salse – Parte IX

Una storia sociale delle salse (2013) – Parte IX

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Girotondo.  La macchina che mangia non è mai ermetica: fessure, orifizi, fermenti, eruzioni la tormentano.  Nella logica di un’idraulica digestiva, nell’ambito di una fenomenologia dei fluidi le salse ci aiutano a ratificare le obbligazioni organiche, a superare i fantasmi connessi: di gravidanza, di nascita, di avarizia,  di economia.  Temi cari a Georg Groddeck, che defeca spavaldamente sulla psicoanalisi per accelerare l’equazione intestinale dei pensieri.  Del resto la digestione possiede ingranaggi che sono unici, scrivono Guattari e Deleuze, unti dalle salse spingono la macchina organica verso sorprendenti e scivolosi percorsi.
Come flusso nutritivo le salse possiedono un linguaggio gustativo che orienta la libido ed introduce uno iato tra le sensazioni di piacere sentite al loro passaggio attraverso la bocca fino all’ano e le impressioni sessuali che queste sensazioni implicano (Freud).  In altri termini, ci rende adulti moltiplicando la voluttà della defecazione.  Per abitudine, per sfinimento.

 

La civile esperienza nutritiva, il cui groviglio tra corpo e nutrimento è stato battezzato dalle brode, si condensa con la salsa che favorisce i grassi flussi nutritivi che solcano l’economia del corpo operaio ossessionato da nutrimenti terrestri socializzati e sognati.  Qui la salsa come una pulsione desiderante si sottrae al materiale per l’organico, esplora i luoghi corporei segreti e amorosi, come bocche di passero.  Ha saggiamente notato Gertrude Stein, le salse sono particolarmente amate da coloro che credono alle passioni intestine!

 

Un po’ di materialismo in cucina.  La prima rivoluzione cucinaria moderna ha per protagonista un rivoluzionario inconsapevole e vero artista, François Pierre La Varenne (1615-1678), perché se ha un significato il nostro modo di riflettere sulla realtà, l’arte in cucina è lo strumento del ritrovamento dell’unità tra forma e contenuto a partire dal riflesso di natura e di vita sociale.

Del resto, comprendere il mondo, come spiega il materialismo, significa penetrarlo nella sostanza.  La Varenne nelle salse e nella pasticceria – come sostiene Hegel in questa citazione infedele di Friedrich Engels – rende convincente per i nostri sensi e per il nostro gusto quel che è ancora esteriormente celato, quel che costituisce ancora e soltanto una tendenza, una possibilità di sviluppo.  In una quello che – se si esclude Menon, qualche decennio dopo con il suo La cuisinière bourgeoise – molti non vedevano.  Di più, La Varenne – là dove, come nella “salseria”, la sua “arte” è più satura – interpreta con la massima eleganza e con il necessario realismo la realtà politica del suo tempo realizzando quello che per la logica dell’idealismo è una contraddizione in termini: il valore politico delle sue salse aumenta il loro valore estetico.  Ma qui siamo in buona compagnia, è pressappoco quello che dirà Marx sull’opera di Honoré de Balzac.

Ciò detto La Varenne lasciò ai suoi epigoni niente altro che ambigui protocolli linguistici senza altra ermeneutica che non fosse quella di una nuova alchimia, forme grammaticali barocche al limite dell’indigesto, escrescenze gianseniste.  In questo senso egli si mosse all’inverso del grande Carême, moccioso abbandonato alla barriera del Maine, spia, architetto di soprammobili, urbanista di Svizzere in miniatura, perché la lotta di classe per un artista si realizza, per cominciare, distruggendo nella sua coscienza quelle frontiere di classe che gli impediscono di rispecchiare il reale.             

 

Le salse possono essere buone di per sé?  Forse.  Il buono che le accompagna è un prodotto della storia sociale, ma si è sviluppato storicamente seguendo un’ottica produttiva che è propria del paradigma cucinario e letterario a cui appartiene.  In questo senso l’appercezione del buono segue lo sviluppo delle forme di cultura – alla lettera – dell’azione dell’uomo sulla natura.

C’è un’analogia che rende plastica questa osservazione.  Fin tanto che gli uomini non hanno scollinato gli ostacoli che i versanti montuosi gli paravano davanti non è esistito il paesaggio, ma una visione che provocava in loro spavento e avversione.

In relazione a questo tema l’analisi marxiana ha evidenziato come l’uomo trasformando la natura trasforma se stesso e questa stessa natura.  La cucina in senso lato – da cui derivarono gli atti alimentari – è nata dal lavoro femminile, ma una volta che si è istituita come lavoro(°) ha esercitato la sua influenza sull’evoluzione del gusto e, in seconda istanza, del disgusto come categoria sociale.  Un’influenza da cui facciamo derivare anche le forme di rappresentazione del sapore.

In termini analogici ricordiamo come sul filo del tempo le intuizioni di Rembrandt (°°) a proposito del chiaroscuro hanno sensibilmente approfondito e trasformato la comprensione estetica della luce e dell’ombra fino ad allora ritenuta inessenziale, così La Varenne ha sensibilmente contribuito a trasformare il gusto attraverso le diluizioni, le riduzioni, le cotture prolungate dei liquami e dei coulis che, non per caso, divennero una metafora della politica e del buon governo.

 

(°) – È la ripartizione delle attività che ha prodotto la nascita della forma di lavoro fin dal neolitico.  Questa ripartizione era dettata dalla necessità della caccia con appostamenti che richiedeva una vigile allerta e dunque l’allontanamento del cacciatore dalle donne e dalla cura della prole come dalla conservazione del fuoco.

(°°) – Rembrandt e non altri se si ha a mente la piccola e splendida incisione della contadina accosciata che orina in un campo di grano.  La fecondità ha le sue alchimie.

 

Naturalmente le salse di La Varenne non furono apprezzate da tutti, a cominciare da coloro che non ne potevano condividere la metafora culturale.  Il mondo contadino era allora estraneo alla vita debosciata e parassitaria dell’aristocrazia che immaginava immersa in un continuo peccato contro natura.  La bassa corte vedeva nelle salse un altro inganno ancora nella partita per gli arrosti di cui respiravano il fumo e rosicchiavano le ossa.  Tale atteggiamento, anche se reazionario, in realtà è una critica-pratica alla divisione della società in classi.  Sappiamo che si ripeterà più volte nel corso della storia e sappiamo come è finita.

 

Scrive Marx a proposito dell’arte dell’antica Grecia: “La difficoltà non sta tanto nel capire che essa (l’arte) e l’epica della Grecia sono legate a determinate forme sociali dello sviluppo storico.  La difficoltà sta nel capire perché entrambi continuino a darci un godimento estetico, e, in un certo senso, conservino l’importanza  di norma e di modello irraggiungibile”.

Tutti i problemi del “buono cucinario” si presentano nella loro forma più attuale al mutarsi dei suoi stili, tipi e generi, come abbiamo costatato nell’odierno dissolversi dei processi cerimoniali.  In questo mutamento traspare l’importante funzione del gusto nel campo dell’educazione materiale.  Il carattere specifico di una tale educazione – a differenza di altre forme di episteme – consiste nel fatto che esprime sempre di più, attraverso le sue immagini, un determinato contenuto della vita sociale e della sua esasperata estetizzazione.

 

Il carattere specifico degli atti cucinari nel corso dell’Ottocento – a differenza dei prodotti dell’industria dell’agroalimentare – consiste nel fatto che essi esprimono, attraverso delle rappresentazioni, contenuti propri del quotidiano che riflettono una conoscenza materiale del mondo.  I prodotti industriali, di contro, sono espressioni di una visione meccanicista e ideologica di questo che agisce sui sensi e si proclama ideale.  Tali atti cucinari, infatti, non s’identificano con il gusto, ma identificano il gusto dell’educazione borghese.  In questo modo possono esprimere il ripugnante e il disgustoso, esattamente come la Parigi dopo il bagno di sangue operaio del 1848 che farà dire a Friedrich Engels che “Parigi era morta e questo bel cadavere era tanto più orribile, quanto era più bello”.

Nella sua teoria del plusvalore Marx scrive che la produzione capitalista è ostile ad alcuni campi della produzione poetica quali sono l’arte e la poesia.  Aggiungiamo, è anche decisamente ostile alla storia sociale e alla cultura materiale, di cui gl’atti alimentari sono un aspetto, per il solo fatto che sanno estrarre dalle esperienze del passato ciò che vi è di prezioso e distinguerlo da ciò che vi è di estraneo alle ragioni del desiderio e della rivolta.

 

Che cos’è una salsa dal punto di vista della cultura materiale?  È una forma specifica di conoscenza del gusto capace di influenzarlo e trasformarlo.  Agisce mediante la creazione di rappresentazioni che sono un riflesso della vita sociale e, soprattutto, appare come una rifrazione della natura attraverso l’esperienza.  Del resto il contenuto e la forma di una salsa sono condizionati da quel complesso di atti sociali che l’hanno prodotta alla base dei quali si distinguono nella modernità una cultura di sapori cresciuta tra rapine coloniali e poteri economici sempre più immateriali.

 

La rivoluzione cucinaria del diciassettesimo secolo consiste soprattutto nel fatto che questa rivoluzione ha finito per esprimere, al pari dell’arte e del buon governo, una forma sincretistica della cultura proto-borghese, vale a dire, un sistema ancora indifferenziato di rappresentazioni in cui le forme sensibili della conoscenza cominciano a corrompersi sotto la ruggine dello spettacolo.

 

La nouvelle cuisine e l’estetizzazione degli atti alimentari.  La fortuna mercantile di cui ha goduto la nouvelle cuisine risiede sostanzialmente nel fatto che ha rappresentato da una parte l’espressione delle istanze del mondo dello spettacolo, dall’altra delle dilaganti pretese creative affidate alla soggettività.  In questo modo il valore della cucina come esperienza sensoriale fu trasferita all’esercizio estetico-gustativo delle preparazioni alimentari.  Alla base della sua popolarità troviamo le aspirazioni artistiche dei suoi cuochi sensibili alle istanze della performance coniugata con i temi della nascente globalizzazione.  Sui fornelli si confezionava la narcosi sociale del gusto e si accontentavano le pretese ostentative, mascherate con la nostalgia, delle sue élite.  Come dire, questa nuova cucina ha rappresentato lo scivolare del gusto dalle cucine londinesi del Ritz a quelle del “piccolo chimico” che ha pasticciato nelle cucine di El Bulli di Barcellona.

Alla fine della spesa nella nouvelle cuisine la banalizzazione della sostanza alimentare finì per inverarsi in un’espansione degli elementi propriamente formali del piatto che vennero disorganizzati in nome del primato creativo.  In questo modo cucinare divenne un’espressione degli stati d’animo del cuoco destinati ad esaltare il misticismo estetico delle posizioni di classe.  Di fatto è come se, accanto alle ragioni del gusto, valesse per le pratiche cucinarie quello che Wassily Kandinsky chiamò il principio della necessità interiore.  Per il proletariato è la fame, per lo chef è il narcisismo.

 

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Tutto cominciò da molto lontano.  C’è una certa continuità picaresca tra le signorine della calle Avinyó di Barcellona e il modo disordinato di mangiare di Pablo Picasso che, una manciata di anni dopo, Guillaume Apollinaire cercherà di conciliare con il suo cubismo culinario(°) e, in seguito, di giustificare come l’eterna disputa tra Ordine e Avventura.  Nolenti è di nuovo il tema della rappresentazione e di ciò che ci aspettiamo da essa.  Tema che brilla ancora di più nel confronto con le “salse d’oro” che ungono i fondi della pittura viennese, in particolare di Gustav Klimt.

Una forma di rappresentazione che affligge il secolo appena iniziato, caotica e rissosa, fatta di acidi e di brutali compromissioni tra burro e cannoni, destinata a salvare dalla rivoluzione, con la guerra, la borghesia e i suoi interessi.  Per comprenderla occorre leggere Robert Musil, oppure, sedersi ad un tavolo di un ristorante in riva al mare di Collioure, l’antico borgo di frontiera ad un tiro di schioppo da quel Hotel Franca di Port Bou, dove una trentina di anni dopo si consumerà un dramma che opprime il cuore di chi crede nella poesia della nuda vita: il suicidio di Walter Benjamin.  Sedersi ed ordinare – mentre giovani donne danzano la sardana sulla passeggiata – uno dei piatti locali ruscellanti di salsa “marina”.  Vi porteranno una tela di Matisse, un acquarello di Derain, il resto va scoperto in compagnia di quell’Angelus Novus che ha il sapore della terra arata!

 

(°) – Cfr., “Le cubisme culinaire”, in Fantasio, Parigi 1 gennaio 1913.

Paul Joseph Carton (1875-1947) è stato un medico francese a suo tempo molto famoso, ancora oggi è ricordato come l’iniziatore della medicina naturale.  Carton sosteneva che tutte le malattie provengono da un deficit del sistema immunitario causato dalla cattiva igiene e dagli stili di vita alimentari.   Una tesi che si può condividere, ma in un’opera intitolata Les trois aliments meurtriers del 1912 indicava la carne, lo zucchero e l’alcool come i veleni che avevano colpito, devastandolo, il pensiero contemporaneo.  Ad essi attribuiva la produzione letteraria immorale, i romanzi deliranti, la musica sconclusionata, la pittura senza armonia, le mode assurde e ridicole del ventesimo secolo o, meglio, delle avanguardie storiche del primo Novecento.  In sostanza era convinto che Les Demoiselle d’Avignon (1907) o meglio le chicas della via Avignone di Barcellona, dipinte da Pablo Picasso e considerate un capolavoro del Novecento, invece d’inscriversi nella tradizione pittorica che ha in Les Grandes Baigneuses (1906) di Paul Cézanne un importante antecedente, dipendessero dalla paella, dalla buttifarra (salsiccia) o dalla escudella, la zuppa di carni e verdure, bagnate dai bianchi e freschi cava (spumante), di cui l’artista era ghiotto.

 

Le salse attraversano la Belle Epoque come una hybris.  Avevano il culo grasso che era stato loro imposto dalla cucina di Carême e le tette piccole della Lou di Apollinaire(°).  Conoscevano la gioia del successo, per quanto precario, finendo come nel caso italiano in ordine alfabetico nei “cucchiai d’argento” in attesa di una dottrina nazionale con i suoi mal tollerati appelli iconoclasti dei futuristi, simpatici manigoldi pagati dal consorzio dei risi nazionali, a sua volta promosso da quello sciagurato figurante della politica che fu Benito Mussolini.

Qui non è casuale il richiamo, attraverso Freud, alla Gradiva di Wilhelm Jensen, di quel seppellimento del ricordo e del suo rinascere nelle polle della libido.  Chissà se la sua bianca statua di marmo, restituita al mondo dal sonno pompeiano, aveva sul serio la passera rasata?   

Harmonia, symmetria e congruentia, Eros ha sempre girato il mestolo nelle pentole libertine, una scopata come un condimento non sono nulla, si possono rifare e poi il corpo nudo, il corpo senza il velo delle salse o dei merletti è orribile, fuori dalla cultura.  Apollinaire considerava abominevole l’Olympia di Manet.  Diciamo, alla lettera, insopportabilmente attraente come sono gli acidulati inguini delle ragazze d’Avignone.

 

(°) – Era una stagione nella quale i bons vivants mettevano sullo stesso piano le cocottes, le partire di bridge contratto e le terrine di tordo profumate dai moscati di Corsica.

 

Ormai tutto è salsa, cioè nulla.  Chiunque può definirsi salsiere, anche se le specializzazioni si giocano sui primi piatti amidacei.  I cumshot diventano sempre più pallidi e rarefatti, come le livree delle professioni maschili in Duchamp o le uniformi degli eserciti.  Va notato, nessuna divisa ha più il colore del sangue, tutt’al più sono kaki, una tinta molto coloniale e molto inglese, il colore della polvere e dell’arroganza.  Vorrebbero sembrare tinte dal sudore e dai pigmenti naturali, ma inalberano colori industriali indelebili.  Del resto, chi sogna ancora ciotole d’argento piene di salse che circondano pavoni dalla coda drizzata e dal becco dorato?  Chi sogna ancora paesaggi?  Si racconta che Picasso di fronte alle stoffe mimetiche delle tute militari abbia esclamato:  “Siamo noi che abbiamo inventato tutto questo!”  Una bieca compiacenza.

 

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In un’epoca in cui subiamo imbelli la vittoria della parte sul tutto, del frammento sull’insieme, le salse sono l’ultima spiaggia della bella totalità.  L’illusione – si fa per dire – che esista ancora una tradizione da combattere, una morale da superare, dei tabu da trasgredire. 

Forse un giorno, lettore, uscendo dalle nebbie dello spettacolo un viandante ti chiederà: Potrebbe dirmi che posto è questo e dove mi trovo? 

FINE

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Leggi le altre parti
Una storia sociale delle salse – Parte I
Una storia sociale delle salse – Parte II
Una storia sociale delle salse – Parte III
Una storia sociale delle salse – Parte IV
Una storia sociale delle salse – Parte V
Una storia sociale delle salse – Parte VI
Una storia sociale delle salse – Parte VII
Una storia sociale delle salse – Parte VIII
Una storia sociale delle salse – Parte IX