Una storia sociale delle salse (2013) – Parte V
Una sinossi. Nella cucina dei “pre-parati” le grandi brode, con l’avanzare tra il pentolame del diciottesimo secolo, s’inspessiscono e perdono la loro opacità, diventando progressivamente dei fondi sempre più brillanti, ma costano attenzione e fatica.
Primi passi. Si diffonde la mirepoix, che gli italiani colti chiameranno dadolata e le massaie soffritto, anche se in principio le verdure (cipolla, carota, sedano) erano tagliate alla julienne. Un’idea geniale di un cuoco al servizio di un individuo incapace e mediocre il duca de Lèvis-Mirepoix, lo sosteneva Pierre Larousse, come scrive Eaton Alan Davinson in Oxford Companion to Food.
Molto probabilmente questa “santa trinità” esisteva già da tempo, ma è in questo momento che diventa un appareil cucinario e, in casa del duca il nobile sudario per le quaglie che portano il suo nome. Di fatto, però, questo termine tra i cuochi s’impone solo a partire dal diciannovesimo secolo, anche in modo strampalato. Carême, per esempio, la chiama Mire-Poix, altri Mire-Pois. Col tempo si arricchisce di un mazzetto guarnito e di un po’ di vino, quasi sempre bianco e secco, anche se Jules Gouffe, l’apostolo della cucina decorativa, consiglia il Madeira. Oggi la si può preparare au maigre e spesso è impropriamente chiamata brunoise, oppure au gras con carne e prosciutto. È spesso arricchita, soprattutto in Francia, con porri, scalogno, funghi e peperoni. In Spagna il sofrito – che non è il nostro soffritto – ha come ingredienti principali il lardo e il pomodoro. Una mirepoix si può preparare anche con il peperone al posto della carota, come nella cucina cajun, o illudersi che sia un “falso ragù”, come in Toscana. La proporzione ideale è di due parti di cipolla per una di carota e una di sedano. I francesi chiamano Matignon qualcosa che assomiglia alla mirepoix, ma è una dadolata preparata per essere portato in tavola come un contorno. Gli ingredienti di un Matignon sono spesso tritati, saltati nel burro, profumati con il timo e addolciti con una punta di zucchero. Servono da “divano” alle carni e al pesce.
All’apice del secolo nasce la spagnola – una preparazione completamente assente dalla cucina iberica. La leggenda parla di cuochi spagnoli al seguito di Anna d’Austria sposa di Luigi XIII che usarono del pomodoro per migliorare il sapore di una salsa bruna preparata per il suo matrimonio. Una fantasticheria se pensiamo al circostanze di queste nozze, di un quattordicenne costretto dalla madre, Maria dei Medici, ha consumarle in fretta e in modo maldestro sotto gli occhi di alcuni medici che dovevano certificarlo per i bisogni delle diplomazie. Altri parlano di un tentativo francese di arricchire il loro pot-au-feu con i ricchi sapori dei prosciutti di Estremadura. È sostanzialmente composta da una mirepoix e da una broda. Richiede molte ore di lavoro costellate da sgrassature, riduzioni, passaggi alla stamina. Grazie a questo con la spagnola il sapore diventa un’architettura alchemica.
Demi-glace. Il clima si fa ancora più spirituale, la riduzione esasperata. Si lascia asciugare la spagnola fino a quando non diventa gelatinosa. La ricetta sarà codificata da Escoffier, segna il trionfo della chimica organica, il punto più alto raggiunto dalla decomposizione degli alimenti. Oggi nessuno più la prepara, per anni è stata la salsa maggiormente falsificata dai cuochi che preferivano realizzarla semplicemente facendo ridurre un po’ di brodo di vitello.
Infine nasce la glace. È una demi-glace portata alle sue estreme conseguenze. Una quintessenza che ha la densità e la consistenza del miele e aromi inaspettati. Se ne sono perse le tracce già intorno alla prima guerra mondiale. Se non fosse macabro si potrebbe dire che risuscita la carne.
Le brode sfamano. Quando diventano salse formano il gusto e diventano festive. Le prime possono elevarsi a potage e consegnarsi all’appetito, si diceva che rigenerassero. Le salse soddisfano e seducono. Una buona salsa è la prova logica che il corpo è il fondamento, alla lettera, della sapienza empirica.
Dal punto di vista di una “critica della ragione cucinaria” nulla è più simile ad una salsa dell’illusione di democrazia parlamentare che spaccia per evoluzione politica l’ignominia degli impasti di coalizione e dei loro rimpasti che fanno masticare amaro gli illusi.
In questo contesto la critica del giudizio invera i prolegomeni di quella del gusto e se è corretto, come scrive Kant, che l’odorato è anomico, mentre favorisce la “sociabilità” gioca un ruolo di senso di una convivenza impossibile.
Tale equivalenza mette in luce anche un altro aspetto del problema: le salse come le democrazie borghesi cucinano i sentimenti e non le idee. Sono scienze dell’impreciso in cui l’indeterminazione, una forma di regime, indossa la maschera della metamorfosi. In questo modo le ricette impersonano l’ufficio di stratagemmi, formalizzano il contingente.
Dopo Kant, per fissare il punto, le riflessioni sulle ricette seguono e non precedono la pratica, diventando legittime solo nella forma dell’interpretazione, perché non è possibile separare le ricette dal contesto in cui operano. Si può dire che inizia la stagione nella quale l’immaginazione signoreggia dispoticamente e si chiude quella del bricolaggio alimentare praticato dai soggetti senza storia.
Come dicono gli “argomentisti” della “french culture” e le “widow” della “fresh culture”, le buone salse costituiscono dei dispositivi che mutano in formazioni discorsive e così facendo trasformano i sapori in saperi – cioè in sistemi formalizzati – ingannandoli, perché la storia materiale è à rebours rispetto agli archivi della natura e non giova ai sapori apparire troppo vicini al potere economico degli ingredienti. Nello svaporare in poteri, poi, i sapori si rivelano un paradigma condiviso senza un valore che non sia quello identitario della nostalgia, capace di regolare gli stereotipi e modellare le illusioni, cioè il gusto. Questo che potremo definire un post-kantismo è d’ascrivere, per paradosso, a merito di La Varenne che muta in metaforici i contesti metonimici che avevano guidato i salsieri fino ad allora. Da questo momento la salsa come la politica è una rappresentazione del potere. Esibendo la sua singolarità, la tecnica diventa ora matrice di nuovi insiemi, di nuove regole monastiche che il potere trasforma in regimi.
Anche evitando di ridurre la polemologia a broda, le salse sono la continuazione metonimica della politica con altri mezzi. Del resto tutto è condimento, come sapeva bene il divino marchese, confondendo deliberatamente la funzione degli orifizi – dipende dal paradigma. Per esempio lo è la forma politica quando ingozza i comitati d’affari che dominano le democrazie borghesi…prima di sodomizzarli(°).
(°) – Cfr., Noëlle Châtelet, Il corpo a corpo culinario, 1980.
Che cos’è un ruscellamento? È un bouquet.
Jacques Lacan, Lezione su Lituraterra”, 1971
Dopo Antonin Carême il valore di rappresentazione delle salse ha finito di evaporare i loro antichi meriti o virtù, ha liquefatto la loro sapida cristallizzazione gustativa. Prima s’infarinavano per non farle ruscellare, oggi la loro acquosa cremosità industriale fa la felicità dei consumatori di finger food. Queste salse scivolano sulle dita e si leccano, sono colorate come la livrea di un pappagallo. Del resto l’infantilizzazione sociale non poteva limitarsi alla sessualità, ma doveva invadere anche il campo degli atti alimentari dopo aver travolto i risibili precetti religiosi sopravvissuti al Novecento. Come ha sottolineato caustico Charles Baudelaire, lo style coulant è quello che più piace ai borghesi.
In Aurora Friedrich Nietzsche solleva una questione inquietante secondo la quale imparare a digerire le cose può portare, oltre misura, a digerire le ideologie, lui stesso inciampa su questo punto quando sostiene che un eccesso di riso nell’alimentazione può indurre al consumo di oppio.
Una storia (V). “Piglia libra una d’uva passa monda e mollena di tre pani brustellati e mogliati in aceto forte e pesta bene ogni cosa insieme, poi piglia una caraffa di buon vino nero e due bicchieri di bono aceto forte…”, così inizia la ricetta della salsa o “savore camelino” secondo Cristiano o Cristoforo di Messisburgo, cuoco degli Estensi a Ferrara, e prosegue “…distempera ogni cosa insieme e passa per la stamigna, poi aggiungeli libra una di mele e più o meno, si che al tuo Giudicio abbia del dolce & acetoso. Oncia una di cannella pesta ed oncia mezza di pevere e oncia mezza di gengevoro, un quarto de garofani e lo porrai in un vaso con libra una d’uva passa e lo farai sciogliere tanto che s’inspessisca sempre mescolando e facendolo cuocere a bell’agio, poi lo porrai in piatelli da sua posta e sopra Uccelli e Carne Arrosto o Pesce Fritto o dove ti piacerà. Tal sapore si puote fare anche col pane grattato”. In questo caso, va notato, diventerebbe una variante ante litteram della “bread sauce” inglese.
Altre salse d’epoca erano il “savore bianco” con mandorle, mollica di pane, agresto o succo di limone regolato con un pizzico di zucchero. Il “savore grattonato” confezionato con uova sbattute in latte di mandorle ed agresto, addensato con fegatini scottati alla brace, il tutto passato allo staccio messo in una casseruola e cotto a bagnomaria con l’aggiunta di zucchero, cannella pesta, pepe, garofani, noce moscata e succo di melangole.
Bartolomeo Scappi nella sua Opera detta anche la ricetta di due salse destinate al popolo. La cabirottata preparata con cacio fresco, com’è il marzolino delle crete di Rapolano o le formaggelle di Urbino, pestato con grana reggiano, spicchi d’aglio, polpa di cappone arrostito, tuorli d’uovo, zucchero, brodo di pollo, passato “alla stamegna” e cotto con cannella, pepe, chiodi di garofano e zafferano. L’altra, la ginestrata si preparava con latte di capra munto di fresco, farina di riso, zucchero, cannella in polvere, zenzero, pepe, zafferano e sale. Si cuoceva a bagnomaria in una bastardella nella quale venivano aggiunti datteri freschi e fichi secchi tagliati minutamente, pinoli, zibibbo, uva passa di Corinto, il tutto passato al mortaio. Era una salsa calda e come la precedente serviva a “coprire” tordi o altri uccelletti allo spiedo.
Una salsa per pesci era la malmona, una sorta di rozzo “biancomangiare” con tuorli d’uovo sbattuto e succo d’arancia, che diventava salsa per legumi, asparagi e piselli in particolare, con l’aggiunta di brodo, zucchero e cannella, il tutto cotto con il burro. Questa specie di zabaione era anche usato come “ristoro” per gli sposi novelli, lo preparava la madre di lei. Nel complesso sono salse povere di grassi e ricche di spezie e zucchero, mercanzie che gli speziali si facevano pagare a peso d’oro.
In punta di eresia. Dopo Antoine-Laurent de Lavoisier il roux, burro più farina, si rilevò un matrimonio imperfetto consolidato dalla tradizione. Le salse però tengono soprattutto a partire dalla loro riduzione, basta fare una prova. Mettete una salsa sul fuoco e rigiratela in continuazione con un cucchiaio perché non attacchi. In capo a qualche minuto, grazie all’evaporazione, diventerà gommosa e lucida al pari di una vernice. Lo stesso effetto si ottiene con la fecola di patate o, lontano dalla fiamma, con il tuorlo d’uovo e, con qualche abilità, lavorando il burro crudo(°).
(°) – Il burro è l’elemento che rende una salsa specchiante. Esso, per così dire, cede la sua lipidica materia agli aromi con i quali lo si mescola.
Come parte liquida del piatto le salse sono il pivot della classificazione cucinaria europea, sia nella forma arcaica e già vista di brode – nel Viandier appaiono divise in broets e potages lyans – che d’intingoli, nel duplice ruolo di condimento che accompagna e di fondo in cui viene cucinata o, al limite, apparecchiata la parte solida di una pietanza (°).
Nel Fait de cuisine di maître Chiquart questa parte, indipendentemente che sia carne o pesce, è definita grein e è definita a seconda di come viene servita in tavola. Il primo è en escuelles belle et nectes che lascia ai commensali la libertà di servirsene. Nel secondo l’intingolo è versato sopra la pietanza già cotta al momento del servizio. Nel terzo modo viene incorporato durante la cottura per facilitarla e insaporirla. È quello che chiamiamo in umido. Nel quarto il grein viene immesso nell’intingolo quando già troneggia sul mobile di servizio, il dreceur. Sono modalità che il più delle volte si coniugano con il colore degli intingoli e con la gestualità teatrale degli scudieri destinati al servizio. In breve gli intingoli rappresentano ciò che caratterizza un piatto e gli da un nome, sia per il ruolo che giocano, sia per la funzione caratterizzante, almeno a tutto il diciottesimo secolo, medico-dietetica.
(°) – Sulla pietra tombale dell’autore di Le Viandier, Guillaume Tirel, detto Taillevent – che si può ancora oggi vedere nel museo di Saint-Germain-en-Laye, invece la sepoltura nella chiesa di Notre-Dame d’Honnelont fu distrutta dai giacobini nel 1793 – campeggia lo scudo portante le sue armi: tre marmitte e sei rose. Quale migliore insegna per la cultura materiale!
Tecnicamente gli intingoli, a partire dai manoscritti medioevali, possono essere classificati in legati e non-legati, in cotti o crudi. Successivamente si divideranno tra quelli destinati alle carni, da cortile o di selvaggina, e quelli destinati ai pesci e ai crostacei. In principio sono pensati ed impiegati soprattutto per riequilibrare il temperamento delle parti solide del piatto, una sorta di forma mistica la cui epifania può essere acre o liquorosa, sempre immersa nelle spezie. Con il tempo molti di questi intingoli, laicizzandosi, diventeranno salse come le conosciamo oggi. L’evoluzione materialista comincia con quelli cotti e legati.
Ci sono tra le salse figlie alcune che sono “orfane” della grande famiglia borghese, sono quelle rimaste impudicamente innocenti davanti al maturare delle tecniche. Salse celibatarie il cui sapore non si è evoluto con la storia cucinaria e non lo si trova sulle labbra delle donne. Salse succulenti e patriottiche, che contribuiscono all’idea di tradizione e a mala pena tollerano l’esotico del pigmentato. Sono le benevoli testimoni del paesaggio alimentare d’autrefois che gli amici della lentezza, nutriti di luoghi comuni e cacatori di stoppini, adorano come il frutto di un Eden al servizio dell’immaginario e che la scrittura trasforma in sogni che si possono acquistare per abbonamento. Queste salse affollano le pagine dei petit bréviaire de la gourmandise che non mancano mai nelle cucine delle canoniche e delle case di campagna.
Steli, statue, inscrizioni e salse: sono i confini politici dei regionalismi d’operetta usciti dalla Grande Guerra
e cresciuti all’ombra dei revisionismi.
Bernard Rosenthal.
Negli atti alimentari l’ideologia conservatrice è stata costretta a ripiegare sulla nostalgia dopo essere stata schiacciata dall’industria, la stessa che le ha fornito le ragioni per il suo cahier de doleance farcito di “idée reçue”. Del resto non poteva agire diversamente, almeno fino a quando l’alimentazione ha continuato a modellarsi sul costume. In fondo sono gli odori che fanno la povertà e questa impregna con il suo fetore la cronaca, lo dice un esperto, Maurice Sailland, che ebbe il meritato privilegio di portare la rosetta al bavero dell’orbace grazie al suo pseudonimo di Curnonsky, principe della gastronomia.
Colette e Marthe(°) – che mandava in visibilio con le sue ricette la signora Guermantes – sono divise da un abisso. La prima si adoperò per tutta la vita a inseguire gli odori venerei della sua infanzia. La seconda – nonostante un certo seguito tra i lettori di L’Action française – aveva capito, inascoltata, che il fascismo si poteva difendere anche a partire da una teoria delle salse che condisse con la sua autorevolezza patriottica gli intrugli nazional-affaristici. Poi tutto sarà banalizzato dalla guerra. Molte argenterie cambieranno di cassetto, intere collezioni di cristallerie spariranno dalle vetrine dei buffet in direzione dei monti di pegni, la casalinghitudine al lumicino si esprimerà nelle forme efemeridi dei piatti “asciutti” montati dalle cuoche in cucina e muniti di zoccoli vegetali sui quali troneggiare. Fatto importante dal punto di vista della rappresentazione perché rivela una perversione sospetta, per meglio dire una denegazione, quella di voler restituire una vita “monumentale” alle carogne animali e la forma di scultura alla sostanza organica. Ancora una volta la metamorfosi condizione l’azione e condanna il gourmet a un détournement del sapore a profitto dello sguardo.
(°) – Sono, rispettivamente, Sidonie-Gabrielle Colette (1873-1954), da molti considerata una delle maggiori scrittrici francesi della prima metà del ventesimo secolo e Marthe Allard Daudet (1878- 1960) detta Pampille.
Le salse sono servite alla modernità per nascondere dentro una broda le illusioni sulle virtù nutritive dei c.a.n.i.(°) – definiti un tempo come PAF, produits alimentaires falsifiés – e le speranze che in essa affogano. Del resto dai condensati della moderna chimica organica e fino alla fine della seconda guerra mondiale le salse “apprettate” apparivano riservate a coloro che avevano dei bisogni e non dei desideri.
A questo proposito una delle ultime metamorfosi delle salse “povere” è stata inaugurata dai dadi per il brodo che trasformano l’idea di alimento in oggetto per proiettarlo su dei nuovi scenari cucinari dominati da un insolito cubisme culinaire. Una poetica dello sguardo sul piatto che dovrebbe rendere meno dura la letargia delle idee.
(°) – Acronimo di “composti alimentari non identificabili”
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Una storia sociale delle salse – Parte I
Una storia sociale delle salse – Parte II
Una storia sociale delle salse – Parte III
Una storia sociale delle salse – Parte IV
Una storia sociale delle salse – Parte V
Una storia sociale delle salse – Parte VI
Una storia sociale delle salse – Parte VII
Una storia sociale delle salse – Parte VIII
Una storia sociale delle salse – Parte IX
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