Una storia sociale delle salse (2013) – Parte VI
La patata e il pomodoro hanno tanta vitamina!
Noi cantiamo lieti in coro: l’Inghilterra non ci mina,
ecco quanto in Patria basta per il sobrio bocconcino!
Filastrocca fascista.
Le salse nei programmi di pranzi suggestivi e determinati. Nella cucina futurista di Marinetti e Fillìa la prima “salsa” è per il cefalo bollito “cucinato” per ventiquattrore nel latte, rosolio, capperi e pepe. Si mangia al rullo di tamburo. La seconda è l’odiata salsa al pomodoro – perché maritata agli spaghetti nell’iconografia dell’immaginario popolare – che finisce spalmata sulla polenta di un pranzo estivo. La terza, per così dire, serve a condire lepri e pernici cotte nel vino drogato. Si confeziona con la poltiglia di altre pernici quasi fradice e macerate con delle vecchie robiole al rhum. Commenta Marinetti, “… i convitati ne mangiano abbondantemente innaffiandole con barbera e barolo”. Nel pranzo “dichiarazione d’amore” la salsa per le costolette di pollo è profumata all’ambra è completata da “un sottile strato di marmellata di ciliegie(°). Lei, mentre mangia, si ammirerà riflessa nel piatto”. Poltiglia di ananas e marmellata sono anche le salse del “pranzo sacro”.
Per la lepre di Fillìa cotta nel vino spumante la salsa, abbondante, è “verde a base di spinaci e ginepro, punteggiata di bomboni argentati che ricordano i pallini dei cacciatori”. Verde è anche la salsa per l’”ultravirile”, preparata a partire da uno zabaione. Per i “rombi in ascesa” la salsa “si compone di sugo d’ossa di vitello brasate al marsala e un po’ di rum, scorza di arancia tagliata in filettini sottili, bolliti con l’odore di aceto”, poi “aggiungere succo di aranci. Profumare con salsa nazionale (°°) che si trova in commercio”. Salsa di pomodoro anche per la “Compenetrazione”, ma con un anello di mela, una fetta di prosciutto e un frutto candito. La ricetta è del proprietario del Santo Palato (°°°). Di fatto le salse non brillano nel catalogo delle invenzioni futuriste è la spiegazione è di Fillia, toglierebbero alle persone che si cibano “la sensazione di mangiare oltre che dei buoni cibi anche delle opere d’arte”. In altri termini l’estetizzazione degli atti alimentari corre di pari passo con una regressione infantile che esalta il dolce a scapito del salato. L’odore a danno dell’aroma. La distrazione teatrale a svantaggio della nutrizione.
(°) – Marinetti, nato ad Alessandria d’Egitto, amava il visne suyu, il succo di ciliegia. Impossibile da trovare in Italia ne fece una scorta in occasione del suo secondo viaggio in Russia grazie alla compiacenza di alcuni suoi ammiratori moscoviti che trafficavano “papaveri” con la Turchia.
(°°) – La “salsa nazionale” è la cosiddetta “salsa rubra”, la risposta autarchica al ketchup americano. Una salsa, questa, a base di soia che molti ritengono di origine cinese o malese, destinata ad intingere il pesce. Si racconta che alla fine del diciassettesimo secolo i mercanti inglesi e olandesi cominciarono ad importarla in Europa, dove perse la soia e si arricchì di aceto, acciughe salate, noce moscata e chiodi di garofano. Ma non era ancora la mitica salsa rossa, lo diventerà con il pomodoro, prendendo il nome di Tomato-Ketchup. La salsa rossa o rubra, invece, è una preparazione originaria del Piemonte, rallegra il bollito misto, composto da almeno sette tagli di bovino e cinque d’accompagnamento e servito con non meno di quattro salse diverse, una delle quali è appunto la rubra.
Salsa rubra, ricetta.
Fate un soffritto con due cipolle rosse tagliate fini, due carote tagliate alla julienne, due gambi di sedano schiacciati con una lama, uno spicchio d’aglio. Uniteci un chilo e mezzo di pomodori maturi, spellati, privi di acqua di vegetazione e semi. Quando il tutto comincia a bollire aggiungeteci 200 grammi di zucchero fine, una foglia di alloro, qualche pilucco di timo fresco, un mezzo tronchetto di cannella sbriciolato, un cucchiaio di senape, tre chiodi di garofano un cucchiaino di fecola. Una volta amalgamato passatelo al setaccio con una spatola e rimettetelo sul fuoco, aggiungeteci tre cucchiai di brandy, regolate il sale e il pepe. Potete conservare questa salsa in bottigliette sterilizzate. Un tempo serviva per il bollito, oggi si può usare anche per le frites.
(°°°) – Nella “Taverna del Santo Palato” di Torino l’8 marzo del 1931 si tenne la prima cena futurista. Questa taverna era stata decorata da Djulgheroff e da Fillìa e per qualche anno fu luogo d’incontri, di accese polemiche e di scontri artistico-letterari. Ricordiamo che Fillìa è lo pseudonimo di Luigi Colombo, nato in quel di Cuneo, ma fervente torinese.
La modernità della cucina futurista si arresta per ragioni risibili davanti alla forma di salsa. Nelle salse, del resto, la ripetizione e la sensibilità personale possono operare una loro individuazione, la cucina futurista invece è monolitica e autocratica. Il gusto non è più soggettivo, ma nazionale come sono i criteri che lo definiscono, la socialità dipende dall’interesse economico. L’estetizzazione del cibo non è più il risultato di una ricetta, ma di una formula che deve fortificare il fantasma della razza. L’innovazione è nutritiva, salsicce ed acqua di Colonia aboliscono la mediocrità del quotidiano grazie al piacere del palato. Alla goffaggine degli intingoli i futuristi rispondono accampando una teleologia estetica: si mangia per consumare opere d’arte. Dirà Salvador Dalí, la bellezza sarà commestibile o non sarà, perché in fondo l’importante è produrre desiderio (°).
(° ) – Per restare in tema possiamo aggiungere, dal punto di vista del cotto come istituzione nutritiva (Lévi-Strauss) le salse costituiscono una speranza per l’estetica positiva.
Nel manifesto della cucina futurista la ghiottoneria diventa uno strumento per cambiare il mondo dalle radici, non importa se l’aveva già detto Ludwig Feuerbach, che per altro Marinetti conosceva e stimava. Questo proclama vi aggiunge un tratto estetico che presagisce il pugno, lo schiaffo, il passo di corsa. Niente paste, niente sughi, la ghiottoneria piegata agli imperativi economici ha virtù dietetiche. Del resto l’umami particolare delle salse aveva subito il suo primo significativo rovescio con il futurista Jules Maincave quando nel 1913 pretese di trasformare con gli aromi chimici i condimenti di cucina da lui definiti ridicolmente limitati. Questa auspicata mutazione, che trasferisce nel naso il primato del gusto e da un senso all’anglosassone flaveur, è nella sostanza un apologia degli additivi che forse non stona con una cucina trasformata in un atelier d’artista, ma pericolosamente prossima ad una adulterazione o meglio ad una manipolazione della natura.
Marinetti, caffeinomane e inappetente, mangiava per rassegnazione dicevano gli amici. La salsa per lui era il contesto di un accadimento in cui domina la drôlerie, lo stesso modo d’intenderla degli “antropofagi” diplomatici – la definizione è sua – che si raccoglievano a Ginevra e divoravano nazioni, carne cruda speziata e sogni operai. Esteticamente in quegl’anni era facile confondere con una salsa l’organico e il mineralizzato, la carne degli sfruttati e il piombo del moschetto degli sbirri.
La tartare è una salsa a base di olio, limone e aceto, ma diventerà una carne cruda condita e sarà innalzata, nel Novecento, a privilegio dietetico, che fa il paio con l’espressione di nutriente e fresco. Perché questa regressione per una “poltiglia” che viveva solo nel cibo immaginario dei nomadi? Rappresenta una disperata reazione alla routine del cucinato, in un’epoca di massimalismi.
Una storia (VI). Tre salse di Bartolomeo Scappi.
Civiero: Mettete in una terrina due libbre di prugne secche, due tra visciole e marasche secche, una d’uva passa, sei once di pane bianco abbrustolito con due libbre e mezzo di vino “gagliardo”, due di mosto cotto e una e mezza di aceto. Aggiungeteci un’oncia di cannella sbriciolata, mezza di pepe, mezza di gengevoro, mezza tra chiodi di garofano e noce moscata, due di mostaccioli pestati. Mescolate il tutto e cuocetelo in una casseruola a bagnomaria per quaranta minuti. Passate il tutto al setaccio e poi aggiungeteci quattro once di malvasia, tre di succo di melagrana, portate a bollore e spegnete, completate con due once di acqua di rose con zucchero e cannella in polvere ed eventualmente con dei pinoli confettati come decorazione. Questa salsa è adatta per la piccola selvaggina da pelo.
Miraus: Pestate due libbre di mandorle “ambrosine” abbrustolite in una padella e due libbre di mostaccioli napoletani, stemperateli in due libbre tra malvasia, agresto e succo di melangole alle quali avrete aggiunto otto once di brodo. Passate il tutto al setaccio, aggiungeteci una libbra e mezza di zucchero, un’oncia di cannella, mezza di pepe, mezza tra chiodi di garofano e noce moscata il tutto pestato in un mortaio, cuocete a fuoco dolce finché la salsa non “pigli corpo”. Valutate se c’è un giusto equilibrio tra il dolce e l’agro, cospargete il tutto di cannella in polvere ed usate questa salsa per la selvaggina allo spiedo.
Peverata: In una pentola di coccio mettete una libbra di mollica di pane abbrustolita con otto once di mosto cotto, una libbra di brodo di vitello e quattro once di aceto. Aggiungeteci un’oncia di cannella sbriciolata, una di pepe, chiodi di garofano, noci moscate e zenzero pestati. Cuocete il tutto a bagnomaria e poi passatelo al setaccio. Ricuocetelo con sei once di zucchero e tre di malvasia, spolveratelo di cannella e “sbruffatelo” di acqua di rose. Potete allungare questa salsa con un po’ di brodo. Serve per gli arrosti di “quadrupedi selvatici”. Come si vede non ha nulla in comune né con la “poivrade” della cucina francese, né con la salsa diavola degli inglesi(°).
(°) – La libbra nel Medioevo variava notevolmente da luogo a luogo. Si passava dai 328 grammi della libbra romana ai 500 grammi circa di quella d’Oltralpe. L’oncia è la dodicesima parte di una libbra.
Torniamo ad una particolare “salsa rubra”, il ketchup che da tempo è percepito in modo ambivalente. Da una parte è consumato con golosità. Dall’altra è vissuto come un fattore di omogeneizzazione se non addirittura di alienazione. Rappresenterebbe, di fatto, la ragione di un impoverimento del gusto soprattutto presso le giovani generazioni e, associato al fast food, di dissoluzione del pasto sia da un punto di vista nutrizionale che cerimoniale.
Untuoso, dolcigno, dal colore brillante focalizza la funesta egemonia dell’american way of life. Il suo uso generalizzato è considerato la concausa della scomparsa di altri sapori più antichi, complessi e raffinati. Insieme alla mostarda e alla maionese in tubetti serve soprattutto a nappare certi cibi o a radicare certi sapori industriali. A differenza di altri aromi, come il pepe, il peperoncino o le erbe aromatiche, non è mai usato per cucinare, ma svolge un ruolo additivo, del resto difficilmente potrebbe essere integrato agli altri sapori nel corso della cucina.
Ketchup, mostarda e maionese sono oggi serviti direttamente a tavola e in genere se ne usa la quantità che si desidera perché la loro funzione è di marcatori della sapidità. Maionese a parte, ma quella industriale ha poco a che fare con quella domestica, questi marcatori non possono essere preparati, ma sono acquistati pronti all’uso. Se si guarda alla loro “geografia” si nota come il ketchup nonostante sia la “salsa” più recente delle tre è quello che sta scalzando le altre due per la semplice ragione mercantile che è meno “aspro” rispetto alla mostarda e possiede una nota “agrodolce” che manca alla maionese. Indagini sul campo hanno rilevato che il ketchup ha un’alta capacità di dissimulazione dei sapori iniziali ed è percepito nell’immaginario come una “salsa” che aggiunge una nota “dolceacida”, molto speziata. Rispetto alla maionese, considerata una “salsa” per cibi semplici o crudi, appare innovativo per l’alleanza di dolce e salato nonostante che il dolce sia pensato come qualcosa che minaccia la linea e il sale sia da qualche tempo diventato moralmente e medicalmente sospetto.
Le salse, a differenza della cucina di sacrificio agli dei di Abele, esprimono il sudore di Caino, l’agricoltore. Gli arrosti possono essere sacralizzati, le salse sono irrimediabilmente pagane. I primi hanno ripercussioni morali e di classe, le seconde sono immorali, femminili, intestinali. Dalle brode di cereali tritati tra due pietre del neolitico alle salse borghesi dell’Ottocento europeo questi condimenti hanno sempre espresso un sentimento di parentela verso il venereo e le torbide fantasie ginofobiche. Alla resa dei conti le salse, come sostenevano i sensualisti inglesi, sono la rappresentazione più oscena del sacro.
La necessità d’inzuppare la fetta della pagnotta nel companatico eleva la ghiottoneria per una salsa a virtù, non si vive di solo pane! “Lèonie, che piatto hai preparato con questo tirapasta? È tutto impiastricciato! Oh! Madame, lo lecchi! É buono. Ma cos’è mai non riconosco il sapore. Cos’è? Ma è sugo di fica. Uso quel mattarello per godere. Lo faccio spesso… ” (°). Perché le creme si leccano e le salse no? Senso di colpa!
(°) – Da, Pierre Louÿs, Douze douzains de dialogues on petits scènes amoureuses, cit. Il disprezzo di Louÿs per le donne è da vaudeville, più complesso quello del Divino Marchese, un circolo vizioso dove cibo e escrementi s’identificano spesso con il corpo dell’Altro. Il libertino costantemente perseguitato da una fame che non controlla svuota il corpo dell’altro per vuotarlo della vita. Come osserva Serge Safran nel suo testo sul libertinaggio gastronomico al XVIII secolo, “il n’y a plus d’autre sauce que celle des larmes, du sperme, du sang, de la merde et de l’urine. Une sauce ultime qui accompagne la mort de l’autre et l’incapacité criminelle de libertin, au bout du compte, à se nourrir d’amour sans la mort. In una prospettiva teologica, come racconta Marco (7, 14-23), Gesù dice che si può mangiare di tutto perché non è quello che entra dentro che determina il rapporto con Dio, ma quello che dal di dentro esce fuori.
Una storia (VII). Le salse verdi fin dal tempo della cucina romana erano confezionate con grano non maturo, prezzemolo, ruta, maggiorana, menta, assenzio ed altre erbe aromatiche. Altre salse si preparavano con uva passa, mele “appie”(°), cipolla, nocciole, ciliegie, marasche, prugne e poi melagrane, uva spina, ribes (come ancora oggi si fa nella cucina inglese), melangole (come nella salsa bigarrade dei francesi), limoncello, bacche di mirtillo, di ginepro, di sambuco, more selvatiche, chicchi d’uva nera, ingredienti che coloravano le salse come le carote o gli spinaci, quest’ultimi ottimi con le salse bianche a base di latte di mandorle. Sono salse simili alle confetture che ancora oggi sono preparate nella mitteleuropa. Si potrebbe dire con l’Orazio dell’Ars Poetica: “Multa renascentur quae iam cecidere”.
Vale la pena di ricordare qui Charles de Marguetel de Saint-Denis de Saint-Évremond (1613-1703) epicureo e libertino francese che teneva le salse in gran conto. Nell’edizione londinese dei suoi scritti si dilunga a spiegare agli inglesi quali sono i piaceri della tavola e si compiace di mostrare loro la sua competenza di salsiere, raccomandando intingoli e medicamenti. Lo aveva colpito molto la cattiva abitudine inglese di bollire e successivamente arrostire le carni per poi aromatizzarle con salse esotiche come l’Albert sauce, l’aromatic sauce, la brown oyster sauce, la melted butter sauce (una variante della salsa bastarda), la Porto wine sauce, la Yorkshire sauce e la più che famosa salsa al pepe dalla quale nell’Ottocento derivò la Reform sauce del “Reform Club”, una salsa servita esclusivamente per le costolette di montone.
(°) Cfr., G.E.Simonetti, La sostanza del desiderio, Roma 2005, pag. 83.
Le cattive salse sono i condimenti degli altri!
Pampille.
Soupieres et vieilles dentelles.
“Le vin est non seulement une des richesses, mais un des honneurs de la France. Seul existe le vin de chez nous. Quiconque a jamais trempé ses lèvres dans l’effroyable piquette allemande, à goût d’eau de Seltz et de cirage, quiconque a eu le palais brûlé par la rioja espagnole, l’estomac pelé par ce chianti dont les Italiens sont si fiers, quiconque a subi ce sirop exaspéré, le tokay, sait parfaitement qu’en dehors de notre vignoble tout est simulacre, amertume, effervescence vaine ou sucre sans mesure” (°).
(°) – Léon Daudet, da l’Almanach d’Action française, 1925.
Le giovinette in fiore, che i vizi dei nemici di Francia attirano
nei cinema e nelle balere, non sanno più come si cucina una salsa.
Marthe Allard Daudet.
La profanazione untuosa dei sapori gli procurava orgasmi celesti come quelli di Santa Teresa alla Vittoria in Roma. In cucina era “Pampille”, un ninnolo, in salotto era Marthe Allard cugina e sposa di Léon Daudet, reazionaria, antisemita, integralista. Per Pampille era necessario che una buona salsa si accordasse con la cortesia, la moda, il patriottismo, i vini, un amore quest’ultimo che condivideva con il marito. Le cerimonie della tavola con lei e la sua corte di malviventi divennero de facto il paradigma compositivo di tutti i fatti sociali legati al cattivo gusto e alla deboscia mascherata da santità politica. Le salse come le spose, per l’Allard, esprimevano una virtù farcita di languori e sospiri, a questo proposito amava identificarsi con la bordolese, una salsa che riteneva avesse domini morali e radici antiche.
“Fusa una noce di burro in una casseruola” scrive “allo sfrigolare uniteci un paio di cucchiai di scalogno tritato fine. Appena è imbiondito aggiungeteci uno spicchio d’aglio in camicia, mezza foglia di alloro, qualche pilucco di timo, un sospetto di noce moscata, tre grani di pepe nero schiacciato con una lama e un quarto di litro di Bordeaux”. (La nostra cuoca suggerisce tra i tanti un Pessac Leognan 1911, dello Château Haut Brion, un 1er Cru Classé, ma l’urbanizzazione del territorio ha modificato molte cose nel bordolese). “Riducete tutto a qualche cucchiaio di fondo. A questo punto mettete nella casseruola una tazza di salsa spagnola e fate bollire per una decina di minuti. Passate la salsa con una garza, rimettetela sul fuoco, aggiungeteci un’altra noce di burro che avrete passato con un colino insieme a cinquanta grammi di midollo di bue freschissimo e scottato per cinque minuti in acqua bollente. Regolate il sale e tenete la salsa al caldo fino al momento dell’uso”. Che aggiungere? Con le salse l’inconscio delle brave massaie scopre le voragini dell’immanenza e l’untuosità dei desideri.
Per il nazionalismo culinario le salse sono il linguaggio del fornello, che si fa focolare, quartiere, paese, regione. In breve, sono le ideologie che fanno le salse patriottiche, le donne puttane e i gourmet “frigoristes”, per difendere l’onore perduto delle Halles e la cucina rurale.
Nella prospettiva dei cultural studies c’è una differenza abissale tra le salse dei paesi coloniali da quelli che fallirono questa bieca avventura espansionista. Una béance fatta di nostalgie, di monumenti, di bronzi, di coccarde, di reduci, di pellegrinaggi all’insegna di un “orientalismo” del gusto che ha conosciuto le minestre in bottiglia, le carni argentine raffreddate e le sauces fabriquèes dans le mines, come scrive Robert Brasillach, un fedele del fiore di lys fucilato da De Gaulle per i suoi crimini contro la Francia, il paese che l’aveva adottato e fatto diventare uno scrittore di un certo successo.
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Leggi le altre parti
Una storia sociale delle salse – Parte I
Una storia sociale delle salse – Parte II
Una storia sociale delle salse – Parte III
Una storia sociale delle salse – Parte IV
Una storia sociale delle salse – Parte V
Una storia sociale delle salse – Parte VI
Una storia sociale delle salse – Parte VII
Una storia sociale delle salse – Parte VIII
Una storia sociale delle salse – Parte IX
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