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Fondamenti di Sociologia e di Sociologia della comunicazione visuale

Fondamenti di Sociologia e di Sociologia della comunicazione visuale.
Anno accademico 2015-2016.

(APPUNTI A CIRCOLAZIONE INTERNA NON REDAZIONATI)

Capitolo primo

 

Grossomodo tutti sanno o credono di sapere che cosa sono la sociologia o le scienze sociali in generale.

In linea di massima si ritiene che sono delle discipline che studiano l’uomo e la società, le istituzioni, le relazioni sociali e i fondamenti della vita sociale. 

 

In particolare la sociologia è comunemente definita come uno studio scientifico della società o, se volete, dell’azione sociale e dei rapporti intersoggettivi al fine di interpretarli. 

 

Da un punto di vista storico o, meglio, dei processi che la strutturano e la destrutturano la sociologia è una delle scienze empiriche (o, prasseologiche) del diciannovesimo secolo, nate, nell’alveo del positivismo come risposta ai cambiamenti innovativi e per buona parte imprevisti introdotti dalla modernità. 

Davanti a un mondo, che appariva sempre più piccolo e integrato e a un’esperienza interpersonale sempre più parcellizzata e dispersiva, la sociologia rappresentava la speranza non solo di capire che cosa univa tra di loro gli individui e i gruppi sociali, ma anche di rimediare alle molteplici forme di disgregazione sociale e culturale in atto. 

 

Va aggiunto che all’inizio e per molto tempo fu una scienza del mondo occidentale elaborata da una cultura permeata di eurocentrismo e istanze colonialiste, solo dopo due guerre mondiali e l’inizio del fenomeno della globalizzazione si diffuse nel resto del mondo, non senza qualche difficoltà che in alcuni casi giunse fino al suo rifiuto o a una sua radicale revisione.     

***

UNO

 

Sapientia prima est stultitia caruisse.
Orazio.

 

La sociologia, un tempo definita come una fisica dei fenomeni sociali, da un lato, rappresenta uno dei più efficaci paradigmi per la comprensione della complessità, che caratterizza il mondo moderno, dall’altro, costituisce uno degli strumenti più efficaci per conoscere il modo di formarsi della cultura, dei valori, degli stili di vita e dei nuovi mutamenti sociali, come sono la globalizzazione dei mercati, l’affermarsi delle società multietniche, l’incidenza dei mass-media sulle mode, i costumi e le abitudini, l’avanzare delle tecniche digitali.

 

L’obiettivo di questa disciplina è quello di illustrare le dinamiche che conciliano e spiegano il divenire delle esperienze, le passioni e il fare degli uomini con la cultura dei segni e delle forme sociali che domina la modernità e le sue rappresentazioni.

 

Di apprendere a decifrare i significati del mondo reale (vissuto) che si nascondono dietro le architetture della rappresentazione e dei suoi simulacri e essere capaci di governarli.

 

In breve, la sociologia si configura come un punto di vista particolare sulla realtà umana, come una ricerca sull’uomo in quanto individuo sociale che vive in collettività consapevole che è la memoria del vissuto che produce la storia e da un senso al presente.

Si può dunque dire che la sociologia si occupa della società come un prodotto umano e dell’uomo come un prodotto sociale.

E, per deduzione, che è il vissuto che istituisce il tempo della storia e la sua agenda sociale! 

A grandi linee questa disciplina esamina:

– il divenire della società e delle sue configurazioni.

– le relazioni e le correlazioni che strutturano e organizzano i fenomeni della vita corrente.

– i rapporti tra le varie componenti che formano e definiscono i sistemi sociali.

– le interdipendenze tra i valori, i significati e i simboli che compongono la cultura e che sono in continua trasformazione.

– i fattori e le modalità dell’azione sociale e della sociabilità.

– i linguaggi condivisi (i quali consentono la costruzione di un senso che orienta i comportamenti). 

– la costituzione e il funzionamento – attraverso le forme di governo – dell’organizzazione civile e delle forze che in qualche modo la determinano.

 

Prima di andare avanti proviamo a definire, o meglio, a descrivere cos’è la società.

Nell’accezione più comune il termine definisce ogni genere di legami esistente tra gli esseri viventi, siano essi animali o umani, considerando però il fatto che la società umana si distingue da tutte lealtre perché nasce,vive e si sviluppa tramite un insieme di credenze e di rappresentazioni culturali .

Non va dimenticato, sul filo della storia, che è nella stagione del positivismo – che segue quella dell’Illuminismo francese – cioè, è all’inizio dell’800 che la sociologia nasce e si forma per un accumulo di conoscenze ritenute oggettive e razionali, tanto che la sua storia corre parallela a quella dell’idea di progresso.

Successivamente nel corso della seconda metà del diciannovesimo secolo si formeranno le grandi scuole con le loro teorie e i loro protagonisti.

Poi, verso la metà del Novecento, negli anni che seguono alla seconda guerra mondiale, nel discorso sociologico si cominciarono a elaborare quelle che furono definite le sintesi strutturali.

In pratica le diverse correnti delle scienze sociali cercarono di elaborare un proprio paradigma nel quale far convergere le metodologie della ricerca sociale e le loro sintesi ideologiche.  


Qui, paradigma sta per modello epistemologico accettato in un dato momento e in un dato contesto disciplinare, che la ricerca scientifica può condividere o rimettere in discussione e che inevitabilmente si trasforma nel tempo. 

Un esempio lo spiega bene.  In astronomia il paradigma tolemaico – elaborato da Tolomeo nel primo secolo dell’era comune – fu rimpiazzato nel Rinascimento da quello copernicano che consentì all’astronomia di diventare scientifica e di continuare a svilupparsi.  

Con il modello di Tolomeo, definito dai greci il “grandissimo”, non era più possibile pensare la terra al centro del sistema solare senza scontrarsi con le evidenze della ricerca scientifica. 


Seguì una stagione in cui si procedette a rileggere e in molti casi a rivalutare le problematiche etiche e morali dei fondatori di questa scienza.  Sono gli anni che vanno tra il 1960 e il 1980 circa e che hanno al loro centro la crisi o le utopie del 1968, a seconda dei punti di vista.

 

Oggi siamo verso la fine di una fase che potremmo definire contestualistica.

Le teorie sociologiche sono trattate come se fossero degli strumenti ideologici per comprendere e adattare il comportamento degli uomini ai bisogni dell’epoca e ai suoi oggetti sociali. 

In un’ottica politica è come dire che le diverse sociologie, in cui si divide lo studio della società, sono diventate dei mezzi con i quali si legittima l’ordine sociale, sia esso improntato alla conservazione, che al progresso e all’innovazione.

 

Prima di proseguire vediamo un altro concetto che abbiamo usato per dire che viviamo in un mondo complesso: è la complessità.

Nel linguaggio comune la complessità è il contrario della semplicità oppure è un sinonimo di complicazione. Diverso è il significato di complessità nella letteratura scientifica.

Per esempio esiste una teoria della complessità oggi molto attuale, è quella che si è sviluppata intorno all’informatica (e alla conseguente cultura digitale) a partire dagli anni ’90 del secolo scorso.

Il termine è anche utilizzato come sinonimo di epistemologia della complessità, una corrente della filosofia della scienza apparsa nei primi anni ’70 del secolo scorso della quale ricordiamo gli studi di Edgar Morin, Isabelle Stengers e Ilya Prigogine.

Si parla di complessità o teoria della complessità anche in riferimento alla teoria del caos.

Nel concetto moderno di complessità confluiscono oltre i lavori del fisico-matematico Henri Poincaré, che risalgono all’inizio del Novecento, anche gli studi della prestigiosa scuola russa di matematica e dei cibernetici americani come Norbert Wiener, Heinz von Foerster e Warren Weaver.

 

In sociologia la teoria della complessità serve a studiare la cosiddetta teoria del vivente, vale a dire come gli individui e i gruppi agiscono nel contesto reale in cui si trovano e come interagiscono tra di loro. 

“I rapporti tra gli individui non sono altro che il loro porsi in relazione.”  Karl Marx.

Attenzione a una confusione.

Un problema complicato (complicare in latino significa piegare assieme, arrotolare, avvolgere), è un problema che si fatica a risolvere perché contiene un gran numero di parti nascoste, che vanno elaborate una a una. 

Un problema è complesso quando sono alte le interconnessioni che lo formano e lo trasformano.

In breve, nella complessità il tema è l’interconnessione, nella complicazione ciò che conta è l’alto numero delle parti che la compongono. 


Come abbiamo detto, la sociologia è la scienza che studia con i propri metodi e strumenti d’indagine i fondamenti, i fenomeni, i processi di strutturazione e destrutturazione, le manifestazioni della vita associata e le loro trasformazioni.
In questo senso è stata anche definita come la scienza dei fenomeni sociali. 


Per le scienze sociali un fenomeno sociale è caratterizzato dalla proprietà di esistere al di fuori delle coscienze individuali, così gl’individui se li trovano di fronte come delle realtà che preesistono loro e che sono indifferenti alla loro presenza. 

In secondo luogo, i fenomeni sociali sono  anche dotati di un certo potere imperativo e coercitivo in forza del quale s’impongono agli individui con o senza il loro consenso.  


La parola sociologia fu coniata nel 1824 dal filosofo francese Auguste Comte (1798-1857) che, nel suo Corso di filosofia positiva, pubblicato nel 1839, la impiegò al posto di un’espressione allora più popolare, quella di fisica sociale

Un’espressione che era stata coniata nella seconda metà del ‘700 per definire lo studio positivo dell’insieme delle leggi fondamentali proprie dei fenomeni sociali

Questa idea di una fisica sociale, come strumento per studiare gli uomini, può sembrare curiosa ma nella seconda metà del diciottesimo secolo serviva a rivoluzionare un certo modo di vedere il mondo, a capovolgere le sue certezze centenarie, a seminare il dubbio là dove gli antichi saperi costituiti avevano i loro capisaldi, costruiti – il più delle volte – sulla sabbia dei luoghi comuni.

 

Il termine positivismo (che compare nel titolo del libro di Comte) fu impiegato per la prima volta da  Claude Henri conte di SaintSimon (1760-1825) del quale, tra l’altro, Comte fu un collaboratore, per definire un metodo esatto, dal punto di vista scientifico, con il quale fosse possibile affrontare in modo razionale i grandi temi con i quali la società e gli uomini devono in continuazione misurarsi.

L’idea da cui partì la ricerca di questo metodo affonda nelle tesi dell’Illuminismo, in particolare dai lavori di Jean-Baptiste d’Alembert (1717-1783) e Jacques Turgot (1727-1781).


L’illuminismo è una corrente di pensiero laica che si sviluppa a partire soprattutto dalla seconda metà del 1700 in Europa e in particolare in Francia. 

Il nome descrive bene i suoi obiettivi: Illuminare la mente degli uomini in modo da consentire loro di liberarsi dall’ignoranza, dai luoghi comuni e dalla superstizione servendosi della ragione e degli strumenti della scienza.  

 

Claude-Henri de Rouvroy conte di Saint Simon (1760-1825) pensatore politico, di famiglia nobile, ebbe una vita avventurosa, combatté tra l’altro per la libertà delle Americhe.  Privato di ogni avere dalla Rivoluzione Francese, ricostituì una fortuna che consumò dedicandosi a ricerche economico-politiche.  Alcuni titoli di sue opere: Lettre d’un habitant de Genève à ses contemporains (1802), Réorganisation de la société européenne (1814), Du système industriel (3 voll., 1821-22), Catéchisme des industriels (1823).  E’ considerato uno dei fondatori del socialismo moderno vicino al socialismo utopistico francese di Fourier e Proudhon, il cui punto di partenza non è tanto il problema economico, quanto quello morale e politico.


Oggi possiamo dire che il positivismo contribuì ad affermare i principi o la necessità di una organizzazione scientifica della società (soprattutto di quelle industriali) dando un senso ad un grandissimo fenomeno, sociale, politico ed economico, il fenomeno della tecnica, intesa come una scienza dei mezzi, che si materializza nella tecnologia e da vita alla civiltà industriale.

 

A grandi linee nel suo corso di filosofia positiva Comte sosteneva che lo spirito umano si è evoluto attraverso tre stadi: quello teologico, quello metafisico e quello positivo.

– Nello stadio teologico gli uomini spiegavano i fenomeni che non comprendevano attraverso il ricorso a delle entità soprannaturali.

– Nello stadio metafisico o astratto attraverso il ricorso a delle considerazioni di ordine filosofico.
(La fisica è la teoria dei fenomeni, la metafisica è la teoria di ciò che nel pensiero classico antico si suppone sussiste dietro i fenomeni, dando loro un senso… purtroppo il più delle volte campato in aria).  

– Nello stadio scientifico o positivo la ricerca delle cause ultime – vale a dire di ciò che sussiste dietro i fenomeni – è abbandonata in favore dell’indagine sulle leggi che li governano e sulle relazioni di successione e di rassomiglianza che connettono i fenomeni tra di loro e ci consentono di valutarne l’invariabilità

Brevemente le tesi fondative del positivismo si possono sintetizzare così:
La scienza è l’unico strumento di conoscenza reale (dunque, possibile) del mondo da cui ne consegue che solo i principi scientifici e le cause analizzabili con il metodo delle scienze possono dare origine alla conoscenza.

Come mostra la storia di questa corrente di pensiero oltre che nel discorso delle scienze dell’uomo, il paradigma del positivismo, nel corso dell’Ottocento, penetrò nella medicina, nella politica, nella giurisprudenza, nell’insegnamento, nell’economia, nella filosofia e in molte altre discipline ancora.

La parola sociologia rimanda dunque a un discorso sull’individuo come membro della società, cioè, ad una disciplina che studia il fondamento dei rapporti intersoggettivi (tra soggetti) come se fossero una scienza, cercandone un senso, una ragione, un obiettivo sociale.

Passiamo ora all’etimo della parola sociologia.

Essa è composta da due termini, uno latino, socius (alleato) che sta ad indicare l’individuo in quanto membro della società, l’altro di origine greca, logos, che qui sta a significare “un discorso su…(qualcosa)”
Nella scia delle teorie formulate da Auguste Comte incontriamo Herbert Spencer (1820-1903), un filosofo inglese di orientamento positivista, con grandi interessi per la psicologia, considerato il padre della filosofia evoluzionistica.

Spencer è l’autore di un trattato di sociologia in cui, per la prima volta, le teorie di Charles Darwin (1809-1892) sull’evoluzione sono applicato alle scienze sociali.

L’evoluzionismo – come visione del mondo – ha avuto, nell’ambito del discorso sociologico, il merito di focalizzare l’attenzione sul legame tra passato, presente e futuro.

Possiamo dire che ha sottratto il passato al suo destino di storia morta, facendolo apparire come un materiale vivente, o con un’immagine positivista, come il materiale geologico con cui l’uomo costruisce il suo presente, cerca d’immaginare il suo avvenire e gli dà un senso che non ha l’arbitrio di un destino ineluttabile . 

 

Insieme a Spencer va ricordato John Stuart Mill (1806-1873), filosofo ed economista inglese, studioso di un particolare capitolo delle forme economiche, quelle espresse dall’utilitarismo. 

L’utilitarismo, in estrema sintesi, è una dottrina che elabora i modelli di comportamento che guidano le scelte individuali.
Di per sé le tesi sull’utilitarismo sono molto antiche, si possono far risalire a Epicuro, vale a dire, al quarto secolo circa prima dell’era comune.

L’utilitarismo elaborato da Mill tende a legare il bene con l’utile e a trasformare l’etica e le forme della morale, in una scienza della condotta umana.

Mill in Inghilterra è ricordato con simpatia, soprattutto dalle femministe, perché fu uno strenuo partigiano del diritto delle donne al voto.

 

Sempre per restare nell’ambito dell’utilitarismo inglese ricordiamo un altro suo padre nobile,  Jeremy Bentham (1748-1832).  Bentham è un filosofo riformatore fautore, in sede politica e legislativa, di un grande disegno organico di riforme sociali fondate sull’equità per tutti.
Questo filosofo è conosciuto nei paesi di lingua inglese come il filosofo della felicità, per aver posto questo sentimento a guida e a motore dell’azione degli uomini.
Le sue tesi possono essere riassunte in questo principio:
Il dovere dei legislatori, vale a dire dei parlamenti e dei governi, è quello di assicurare il massimo della felicità possibile al maggior numero possibile di individui. 


Va ricordato che la parola felicità compare come un diritto inalienabile dei cittadini insieme alla vita e alla libertà nella Dichiarazione d’Indipendenza Americana del 4 luglio 1776. 

È una prova indiretta della popolarità delle tesi di Bentham (quando era ancora in vita) nell’area dei paesi di lingua inglese. 

Una curiosità.   

Bentham, alla sua morte, lasciò il suo corpo alla facoltà di medicina con la clausola che, dopo averlo usato per i corsi di anatomia, fosse imbalsamato e conservato nell’università di Londra, che fu in pratica la sua seconda casa.  Oggi, per motivi d’igiene è stato spostato, ma fino a un paio d’anni fa se ne stava seduto su una sedia,chiuso in un armadio del dipartimento di filosofia. 
Ogni anno i suoi numerosi ammiratori e discepoli aprivano l’armadio, lo spolveravano e brindavano al suo ricordo.    


Tornando a Mill.
Per questo filosofo la sola conoscenza possibile è quella empirica e è il metodo della logica che deve guidarla.

Cioè, un metodo per creare inferenze (l’inferenza in logica è un processo per trarre conclusioni dai fatti presi in esame) fondato sull’induzione e la deduzione e, in sub-ordine, sull’abduzione (che è una sorte di sillogismo debole), improntato ad un certo realismo metodologico.
Temi che Mill affronta in un libro famoso, intitolato Sistema della logica deduttiva e induttiva, uscito a Londra nel 1843.


Induzione.  In filosofia si definisce induzione l’argomentare dal particolare al generale, più in generale, il risalire dalla conoscenza dei fatti alla conoscenza delle leggi che li regolano. 
Questo processo, nel linguaggio comune, si chiama “congettura”.  Possiamo aggiungere che, quando la congettura diventa particolarmente barocca e tende al delirio o si nutre di elementi soltanto immaginati, prende in psichiatria un altro nome, di paranoia

(La gelosia, per esempio, come la paura sono due grandi stimoli alla costruzione dei processi paranoici.)      

Deduzione.  La deduzione, invece, è il contrario dell’induzione.  Vale a dire, è il processo logico con il quale si procede dal generale al particolare

L’abduzione è una sorta di deduzione probabilistica. Il suo concetto è stato elaborato dal filosofo americano Charles Sanders Peirce (1839-1914).     

Induzione, deduzionee abduzione costituiscono nella pratica scientifica tre degli strumenti più importanti del ragionamento scientifico e, in qualche misura, dialettico


Spostiamo il nostro punto di vista.

Nelle cosiddette società primitive o tribali non esisteva il problema di dover conoscere e riflettere sui fondamenti dell’ordine sociale.
I rapporti interpersonali all’interno di queste comunità erano basati principalmente sui vincoli di sangue, di latte, di parentela e, non da ultimo, su legami di natura magica o sacra.

Erano società semplici, con strutture organizzative elementari, poco dinamiche, con scambi e contatti ridotti con le altre realtà sociali esterne ad esse, spesso improntati a una certa conflittualità.

Tutto ciò però andò in crisi soprattutto per due circostanze

La crescita demografica – che si ebbe grazie alla diffusione delle culture cerealicole a cominciare da quella regione che oggi viene definita della “mezzaluna fertile” e che corrisponde grossomodo al Medio-Oriente – e, di riflesso, con la nuova complessità sociale che questo comportò.  E con il diffondersi dei commerci, dei viaggi e dei trasporti, che fecero collassare le obsolete strutture di tipo ancestrale.  


Nella storia dell’uomo la cosiddetta svolta cerealicola anticipa la nascita delle città.  Fece aumentare i tassi di natalità e stabilizzò i nuclei familiari che poterono contare sulla certezza di potersi nutrirsi. 

Sulle conseguenze di tutto ciò ci sono gli studi di un urbanista e sociologo americano, Lewis Mumford (1895-1990) che concepì l’urbanistica come una sintesi delle scienze sociali a cui affidare l’organizzazione della società. 

Di Mumford consigliamo, tra le decine di libri e saggi che ha scritto, perlomeno la lettura  del suo libro più famoso La città nella storia, del 1961, in tre volumi.

En passant, ricordiamo qui che le sue considerazioni sono molto apprezzate dagli architetti del paesaggio, a cominciare dall’americano John Nolen (1869-1937) che ha fatto suo il principio che le città dovrebbero assomigliare, come un tutto organico, all’immagine del mondo naturale. 

Un’idea da cui è derivata la recente moda dei giardini verticali. 


Questo collasso gli storici lo fanno risalire, per quanto riguarda l’area del Mediterraneo, al settimo/sesto secolo prima dell’era comune, a partire dalla Grecia, che allora esprimeva il modello di società più evoluta.
Sono gli anni che vedono nascere la forma della cittàstato, delle polis.
Città che, sia pure in forma embrionale, hanno inventato e sviluppato al loro interno delle configurazioni sociali complesse, in continuo movimento e spesso concorrenti tra di loro.

Da un punto di vista funzionale, in queste cittàstato l’organizzazione comunitaria cominciò a formarsi principalmente intorno a due temi chiave contrapposti, della solidarietà sociale e dell’interesse economico.
La considerazione più importante è che queste micro-società diventarono dinamiche, improntate, cioè, a un costante mutamento. 

Le società primitive erano invece società statiche, lente, fondate su valori considerati sacri, che si ritenevano divini, eterni e indiscutibili.
La città-stato greca, invece, è estremamente articolata, fluida e in qualche misura laica.


Il numero di Dunbar. 

Robin Ian McDonald Dunbar è un antropologo inglese, specialista del comportamento dei primati.  Insegna ad Oxford.  A lui si deve la formulazione di questa legge empirica che va sotto il nome di Numero di Dunbar.  Che cosa rappresenta questo numero?

Il limite teorico di persone con le quali un qualsiasi soggetto può mantenere e coltivare stabili rapporti sociali.  

Oltre questo limite per mantenere stabile una comunità di rapporti occorre che i soggetti siano coinvolti tra di loro, per esempio, a disposizioni normative di natura restrittiva, come avviene nelle forze armate o nei collegi.

L’oscillazione di questo numero può sembrare grande perché va da cento a duecentotrenta persone, tuttavia è intorno a centocinquanta che si ha il picco dei casi. 

Dunbar, successivamente, ipotizzò che questo numero è direttamente legato alle dimensioni della neocorteccia o, meglio, alla capacità di elaborazione neocorticale dei soggetti.

 

Se immaginassimo questo numero come un’area vedremmo che al centro ci sono le relazioni che abbiamo in questo momento e alla periferia le persone che abbiamo perso di vista crescendo o cambiando il nostro modo di vivere.

Come ha fatto Dunbar ad elaborare questa legge empirica?

Studiando il comportamento degli scimpanzé e la loro attività sociale principale, il grooming, un termine inglese che indica l’attività per mantenersi puliti, cioè, lo spulciarsi reciproco degli scimpanzé.

Il grooming rappresenta una pratica collettiva che si esegue seguendo precise norme di comportamento condiviso, perché oltre a mantenere il corpo libero dai parassiti rafforza le strutture sociali, facilita la sessualità e concorre alla soluzione delle dispute.

Lavorando sul campo con una colonia di scimpanzé Dunbar si rese conto che all’interno di essa c’erano diversi gruppi che praticavano tra di loro il grooming, ma un fatto lo incuriosì, i membri di ogni gruppo potevano anche cambiare, ma non il loro numero che si manteneva stabile.

 

Decise di verificare se anche per gli uomini si verificasse qualcosa di simile.

Per farlo studio lo sviluppo della società umana dal neolitico ai nostri giorni e il modo di formarsi delle comunità sociali, soprattutto dal punto di vista della loro grandezza.

Ne dedusse che a prescindere dalla circostanze c’era una tendenza in esse ad oscillare intorno ai centocinquanta individui e abbozzò anche una similitudine tra il grooming degli scimpanzé e il linguaggio dei gruppi umani inteso come uno strumento di pulizia sociale.

Vale a dire come un mezzo per mantenere coesa la comunità riducendo al minimo la necessità di un’intimità fisica e sociale.  Una circostanza che tra l’altro favorisce lo sviluppo dell’individualità non conflittuale.

In altre parole, il limite di centocinquanta rappresenta la soglia numerica entro la quale è possibile dare spazio e porre in essere rapporti interpersonali e conoscitivi che consentano di conoscere chi è una data persona e come interagisce socialmente verso ogni altra persona della comunità.

Come ogni legge empirica la si può verificare.

Partite da un individuo e dalla sua famiglia, sommate il cerchio dei parenti diretti e indiretti, degli amici, dei conoscenti.  Aggiungeteci le persone che incontra con una certa frequenza, il portinaio, il panettiere, il giornalaio, il medico, poi la sfera delle conoscenze passate che sono rimaste vive nella sua memoria ed avrete il suo numero di Dunbar.

L’eventuale scarto per arrivare a centocinquanta esprime il numero delle conoscenze con le quali il soggetto svilupperebbe nuovi rapporti di interazione o di collaborazione se ne avesse l’occasione.

Se invece il numero è superiore a centocinquanta il soggetto in questione, stante così le cose, difficilmente allargherà le sue conoscenze.

 

Questo numero sarebbe rimasto confinato nei testi universitari se non fosse che attirò l’attenzione dei programmatori di software sociali, che incominciarono a tenerlo presente per valutare la dimensione delle reti sociali.

Oggi, per esempio, è tenuto in considerazione in campo militare, nelle aziende, negli organismi pubblici e nelle università.  Viene regolarmente usato nello studio della comunità di Internet, di Facebook e di MySpace.

 

La prossemica

La prossemica è una disciplina che studia lo spazio e le distanze all’interno di una comunicazione sia verbale che non verbale.  Li studia al fine di gestirli.

Questo spazio può essere reale o immaginario, soggettivo o oggettivo, mentre le distanze possono essere fisiche, psicologiche, sociali, funzionali, culturali.

Il termine di prossemica (in inglese, prossemics) per alcuni è formata da due parole greche, pros presso e sema segno, che rinvia al controllo dello spazio.  In questo senso è anche definita una semiologia degli spazi.

Definizione che si adatta anche a un’altra versione sull’etimologia del termine, che la fa derivare da prox(imity), prossimità.

In ogni modo il termine fu coniato nel 1963 dall’antropologo americano Edward T. Hall ( 1914-2009) che la impiegò nel suo libro La dimensione nascosta.  La traduzione italiana è del 1968.

Hall è stato uno dei protagonisti degli studi culturali.  Per venire alla prossemica, Hall notò che la distanza tra le persone è sempre correlata alla distanza fisica.

Partendo da questa osservazione definì quattro zone interpersonali.

– La distanza intima che resta confinata entro i cinquanta centimetri.

– La distanza personale compresa tra i cinquanta centimetri e il metro e trenta.  È la distanza che sviluppa l’interazione tra gli amici.

– La distanza sociale per la comunicazione tra conoscenti che va da un metro e mezzo ai tre metri e mezzo.

– La distanza pubblica che si estende oltre i tre quattro metri e è quella delle pubbliche relazioni.

Naturalmente non sono misure tassative, ma dipendono da molti fattori culturali, sociali ambientali.

È ovvio che la distanza alla quale ci sentiamo a nostro agio cambia a seconda se siamo italiani, svedesi o giapponesi.

Qualche curiosità.

Gl’arabi tendono a stare molto vicini, quasi gomito a gomito.

Gli orientali si sentono più a loro agio se sono oltre l’estensione del braccio.

In India il sistema delle caste ha un complicato codice delle distanze che va fino alla intoccabilità.  In ogni modo i paria devono stare ad almeno trentanove metri dai bramini.

Anche il sesso determina la posizione.

Gli uomini tendono a stare uno di fianco all’altro, le donne una di fronte all’altra.

Quando gli europei salgono in un ascensore collettivo si dispongono appoggiandosi alle pareti, gli americani, invece, si mettono uno accanto all’altro con il viso rivolto alla porta…un piccolo fatto senza un perchè

 

La teoria dei sei gradi di separazione.

Da alcuni anni a questa parte è la legge empirica che ha sollevato in rete le polemiche più aspre e i dibattiti più strampalati.

C’è chi la considera assolutamente attendibile e chi le nega ogni attendibilità, soprattutto ha colpito l’immaginario di matematici, psicologi, scrittori e cineasti a cominciare dal film Six degrees of separation, del 1993, con la regia di Fred Schepisi e la partecipazione di Donald Sutherland.  Tratto da una commedia teatrale di John Guare.

Andiamo con ordine.

È stato lo psicologo americano Stanley Milgram (1933-1984) ad elaborare nel 1967 questa teoria detta dei sei gradi di separazione, secondo la quale sulla terra ogni essere umano è separato da un altro essere umano da un massimo di sei passaggi di conoscenza diretta.

In teoria conoscere Angelina Jolie, Brad Pitt o Barack Obama è più facile di quanto uno non immagini.

Secondo Milgram se tu conosci qualcuno, che conosce qualcuno, che conosce qualcuno…entro sei contatti arrivi a conoscere chi vuoi.

Naturalmente Milgram non si è limitato ad enunciarla, l’ha dimostrata più volte sperimentalmente, anche se molti in passato hanno messo in dubbio i suoi risultati.

Le ragioni non sono sempre scientifiche considerato che questo psicologo di origine ebraica in tutta la sua carriera accademica ha sempre cercato di dimostrare le radici oscure e gli intrecci perversi tra ogni forma di potere e di ubbidienza.

In ogni modo, il primo esperimento dimostrò come un gruppo di studenti del Nebraska fosse in grado di venire in contatto con degli sconosciuti, nello stato del Massachusetts, scelti a caso.

 

Tutto ha inizio a partire da due circostanze.

Una tesi elaborata a livello letterario nel 1929 dallo scrittore ungherese Frigyes Karinthy e contenuta nel suo racconto “Catene”.

Una ricerca di alcuni ricercatori del MIT, degli anni ’50 del secolo scorso tesa ad elaborare una risposta a questa domanda a cavallo tra le scienze sociali e le ricerche di mercato: Dato un insieme di persone qual è la probabilità che ognuna di queste persone sia connessa ad un’altra attraverso un certo numero di collegamenti? 

In quegl’anni furono avanzate molte ipotesi, ma nessuna soddisfacente.

Nel 1967, Milgram, che si era interessato a molte ricerche intorno al tema dell’interazione sociale, trovò un sistema per verificare una sua teoria che definì “teoria del mondo piccolo”.

Milgram selezionò a caso un gruppo di abitanti del Midwest e chiese a ciascuno di loro di mandare un pacchetto ad un estraneo che abitava nel Massachusetts, vale a dire a diverse migliaia di chilometri di distanza.

Ognuno di costoro conosceva il nome del destinatario, la sua occupazione, e la zona in cui risiedeva, ma non l’indirizzo preciso.

In pratica fu spiegato a ciascuno dei partecipanti all’esperimento di spedire il proprio pacchetto a una persona conosciuta, che a loro giudizio avesse il maggior numero di possibilità di conoscere il destinatario finale.  Quella persona avrebbe poi fatto lo stesso con un’altra persona di sua conoscenza e così via fino a che il pacchetto non venisse personalmente consegnato al destinatario finale.

Tutti si aspettavano che la catena dovesse includere decine di intermediari, invece ci vollero in media solo tra i cinque e i sette passaggi per far arrivare il pacchetto al destinatario finale.

Questo esperimento di Milgram fu poi pubblicato in Psycology today e da qui nacque l’espressione di sei gradi di separazione.

In termini matematici questa teoria non è difficile da spiegare.

Se supponete di conoscere diciamo un centinaio di persone che a loro volta ne conoscono un centinaio, e questi un altro centinaio, eccetera, voi vedete che cento alla sesta è un numero molto vicino al numero degli abitanti della terra.

Con il diffondersi dell’informatica, poi, è divenuta sempre più famosa ed ha trovato numerose applicazioni.

Ma perché questa teoria è importante a parte riuscire a conoscere Angelina Jolie?

Perché, tralasciando il numero dei passaggi che è puramente convenzionale, questa teoria ci consente di studiare le relazioni tra le persone come se fossero una rete e, dunque, di costruire degli importanti modelli, per esempio nell’ambito delle ricerche epidemiologiche, in particolare nella diffusione delle malattie infettive, così come in campi più frivoli com’è lo studio sulla diffusione dei messaggi pubblicitari.  

Una curiosità. Negli anni scorsi la teoria dei sei gradi di separazione l’abbiamo applicata anche allo IED per delle esercitazioni sul giro del mondo in sei contatti, i risultati sono stati più che buoni, vedi su questo sito le esercitazioni.

Nel 2003 la Columbia University realizzò il più grande esperimento in rete con la teoria dei sei gradi di separazione.

Questo esperimento, condotto dal sociologo Duncan Watts, coinvolse più di sessantamila persone in 166 paesi del mondo.  L’obiettivo era rintracciare diciotto persone sconosciute di tredici paesi diversi sorteggiati dagli elenchi telefonici.

(Che tipo di persone? Un archivista in Estonia, un veterinario in Norvegia, un consulente informatico in India, un poliziotto in Australia…ecc.).

La ricerca dimostrò che sono sufficienti da cinque a sette passaggi in rete per giungere a destinazione con il solo aiuto di amici e conoscenti.

Questa ricerca è stata pubblicata sulla popolare e prestigiosa rivista scientifica “Science” da Peter Sheridan della Columbia University.

Per chi è interessato a questi temi suggeriamo la lettura di: Albert-László Parabasi, Link. La scienza delle reti, Torino, 2004.  E di Mark Buchanan, Nexus, Milano, 2003.

Un ultima osservazione.

Molti di voi frequentano i “social network”, ma pochi sanno che il primo network, o meglio il primo servizio online a includere la possibilità di creare uno spazio virtuale in cui realizzare il proprio profilo e di poter avere una rete con la quale comunicare, è stato Sixdegrees.com., creato nel 1997 e chiuso nel 2001.

Quando fu chiuso aveva un milione di utenti, un successo, ma non produceva reddito.

L’obiettivo di questo sito era di realizzare un luogo d’incontri facile da usare e non manipolabile, ma aveva un inconveniente nonostante s’ispirasse alla teoria del piccolo mondo di Milgram non consentiva che due soli gradi di separazione,  gli amici e gli amici degli amici. 

Oggi si dovrebbe dire quattro gradi e cinquanta circa di separazione, se sono corrette le argomentazioni di due professori dell’Università Statale di Milano che lavorano nel laboratorio di Web Algorithmics del Dipartimento di scienze dell’informazione, che hanno collaborato ad una ricerca sul teorema di Milgram con l’università di Palo Alto, in California e con Mark Zuckerberg, l’ideatore di Facebook.

Il tema centrale di questa nuova ricerca, che ha interessato sia il web che i mass-media cartacei, è stato quello di verificare come le relazioni interpersonali cambiano con la digitalizzazione.

Come è oramai risaputo da tempo Facebook ha reso il mondo più piccolo ed ha cambiato molti aspetti delle relazioni sociali.

I due ricercatori milanesi hanno applicato la teoria del mondo piccolo di Milgram ai settecento milioni e passa di utenti attivi sul social network di Mark Zuckerberg  per un totale di circa settanta miliardi di relazioni. 

Il risultato è stato che la distanza media tra due persone è pari a 4,74. 

In altre parole il mondo si è ulteriormente rimpicciolito rispetto alle prime ricerche di Milgram.

Se poi si restringe l’ambito della ricerca ad una sola nazione – che rappresenta mediamente l’84 per cento delle amicizie – si può scendere fino a tre gradi di separazione, cioè a quattro passaggi.

Per concludere, legando questi risultati al numero di Dunbar, si osserva che la maggior parte dei contatti in Facebook e con persone della nostra età anche se mediamente il numero di amici è intorno a 190 per il cinquanta per cento degli utenti si ferma intorno a 100.

È un classico paradosso della rete che tecnicamente s’iscrive nell’ambito dei contanti da rimbalzo, ma che è sintetizzato dalla formula: gli amici degli amici sono più dei nostri amici.

Un dato.  La ricerca della Statale ha riguardato 721 milioni di utenti attivi su Facebook, cioè più del dieci per cento della popolazione mondiale stimata.

 

Quando alcuni anni fa abbiamo cominciato a parlare dei sei gradi di separazione la domanda provocatoria che veniva rivolta agli studenti era: Volete conoscere Angelina Jolie o Brad Pitt? 

Oggi in questo contesto è tutto cambiato. 

Se siete seduti in bar di un aeroporto oppure, se siete sul marciapiede di una stazione in attesa di un treno, molto probabilmente una delle persone che vi stanno accanto conosce un vostro amico o un amico di un amico dei vostri amici.  


Dalla polis è poi derivata la politikà, la scienza degli affari pubblici, la politica, che qui possiamo definire come l’insieme dei problemi che riguardano la polis dal punto di vista dell’esercizio del potere nel quadro della forma di Stato. 
Problemi che, nella sostanza, erano la conseguenza e il riflesso di due preoccupazioni principali.
– Elaborare nuove forme di legittimazione e di delega per coloro che dovevano guidare la polis, in pratica, esercitarne il governo.  È il cosiddetto tema della rappresentanza.
Trovare e definire quelle regole che, se osservate da tutti, garantiscono la pace sociale e fanno prosperare il cosiddetto bene comune.   

 

Per andare avanti velocemente diciamo che è dallo sviluppo di queste considerazioni che ha origine la teoria contrattualistica della società.
Ne fu uno degli artefici principali un filosofo inglese, Thomas Hobbes (1588-1679).
Il punto di partenza di questa teoria è che il mondo dell’agire umano è retto da leggi analoghe a quelle dell’ordine naturale.
In questo modo, pensava Hobbes, si può arrivare a sviluppare una scienza della società umana che ha la stessa oggettività delle scienze esatte, come la geometria o la fisica, considerazione da cui deriva il convincimento che la società e il potere politico non sono affatto naturali per l’uomo, ma costituiscono una convenzione (un compromesso) per mettere fine allo stato d’insicurezza permanente che caratterizza lo stato di natura.

 

Per Hobbe(Il leviatano, 1651) le origini della società sono fondate su un patto, su di una specie di contratto liberamente sottoscritto, e, attraverso la rappresentanza politica, condiviso dai cittadini i quali, per sottrarsi al disordine dello stato di natura come stato a-sociale, caratterizzato dalla lotta di tutti contro tutti (homo homini lupus), avrebbero convenuto (come male minore) di sottoporsi al governo di un sovrano assoluto.

Appare – come qui è esposta – una teoria semplicistica, ma non va sottovalutata, soprattutto alla luce delle implicazioni che ha avuto nel suo tempo.

Vediamo le due principali.
Pensata in questo modo la società diventa una costruzione storica, un prodotto convenzionale privo di una sua necessità ontologica, di un destino, di “un dover essere così”…per esempio, per volere di Dio o di un ente superiore… e di conseguenza anche senza una teleologia, senza uno scopo.

Poi, come sosterranno le correnti illuministiche settecentesche, se la società scaturisce da un patto tra gli uomini, questo patto si può anche rivedere e, magari, riformulare più o meno radicalmente.
Nulla esclude, poi, che la revisione di questo patto possa avvenire anche con una rivoluzione, come sogneranno molti uomini dell’Ottocento europeo e tutti i movimenti riformatori d’ispirazione socialista.


Una nota su Montesquieu.

Ricordiamo questo grande personaggio della storia europea perché è stato il primo a formulare la teoria della divisione dei poteri.  Con Hobbes rappresenta il fondatore della dottrina politica moderna. 

Charles-Louis de Secondat barone di La Brède e di Montesquieu (1689-1755) fu un grande filosofo e saggista francese.  Studiò presso gli oratoriani e si laureò in giurisprudenza a Bordeaux. Consigliere del parlamento di Bordeaux, nel 1716, dopo la morte di uno zio ne divenne presidente. Nello stesso anno fu eletto membro dell’Académie di Bordeaux.  Visse a Parigi dal 1721 al 1725, nel 1728 fu eletto membro dell’Académie française.  Viaggiò per alcuni anni in molte parti d’Europa, tornato in Francia cominciò a lavorare alla sua opera maggiore, De l’esprit des lois, che fu pubblicata a Ginevra nel 1748.

Nel 1716 aveva scritto una Dissertation sur la politique des Romains (postuma), nella quale, evidentemente influenzato da Machiavelli, sostiene l’utilità politica della religione (tesi sulla quale tornerà nell’Esprit des lois). Dal 1718 al 1721 si era dedicato a ricerche scientifiche di fisica e storia naturale, e nello stesso tempo preparava le Lettres persanes, che uscirono anonime a Amsterdam nel 1721, in cui tratta molti motivi tipici del suo pensiero come la polemica contro le dispute religiose e l’intolleranza, la funzione morale e sociale della religione, il rifiuto del dispotismo, la difesa dei parlamenti come garanzia di libertà.

“Molte cose – egli scrive nell’Esprit des lois – guidano gli uomini: il clima, la religione, le leggi, le massime di governo, le tradizioni, i costumi, le usanze: donde si forma uno spirito generale, che ne è il risultato”: di queste “cause” ce n’è una che agisce, nelle varie nazioni, con maggior forza, le altre “cedono in proporzione”.

Descrivendo le forme di governo, mette in luce come a ciascuna corrispondono particolari modi di sentire (per esempio, al governo repubblicano corrisponde la virtù), particolari leggi, costumi, ampiezza di territorio (la repubblica è più adatta agli stati piccoli, la monarchia ai medî, il dispotismo ai grandi imperi).

La sua ispirazione razionalista si ritrova nella distinzione dei tre tipi di governo possibile: repubblicano, monarchico, dispotico. Il governo repubblicano può essere democratico o aristocratico. Nella democrazia il popolo è a un tempo sovrano e suddito, la logica della democrazia è ugualitaria e condurrebbe anche all’eguaglianza della fortuna, ma poiché realizzare questa eguaglianza è difficile, bisogna limitarsi alle fortune come vengono.

L’aristocrazia comprende la distinzione tra nobili e popolo: i nobili formano un corpo con proprî interessi, che reprime il popolo. Ma sorge il problema dell’osservanza delle leggi da parte degli stessi nobili. Le vie sono due: o quella di una grande virtù, o quella di una virtù minore, che è la moderazione. Nel primo caso i nobili diventano eguali al popolo ed eventualmente formano una “grande repubblica”, cioè una democrazia, nel secondo caso, ossia con la moderazione, i nobili si rendono eguali fra loro, e ciò determina la loro conservazione, la moderazione è dunque l’anima del governo, appartiene a uno solo, ma nella monarchia il governo è saggio e temperato, nel dispotismo si ha al contrario il puro arbitrio, la forza bruta. La monarchia si fonda sull’onore, il dispotismo sulla paura.  Ciascuna forma di governo presuppone dunque determinate condizioni; l’importante è che il governo non sia dispotico, che cioè la libertà del singolo sia garantita, intendendosi per libertà sicurezza della propria persona e dei proprî beni.


Il Settecento, come abbiamo detto fu il secolo dell’Illuminismo e degli enciclopedisti francesi che raccolsero e svilupparono l’eredità dell’empirismo inglese.

L’Illuminismo è un movimento di idee caratterizzato dalla convinzione di poter risolvere i problemi della società con i soli lumi della ragione e a dispetto di ogni rivelazione religiosa o di ogni tradizione.   

È il secolo di Diderot, D’Alembert, Rousseau, Helvétius, Voltaire e dei primi filosofi materialisti come Paul-Henry barone d’Holbach.

Diciamo che gli illuministi rimproveravano ai filosofi che li avevano preceduti di non aver considerato con la dovuta importanza i fenomeni “fattuali” (materiali), ma di essersi inutilmente infatuati delle teorie astratte.

Ciò implica che, per gli illuministi (e questo rappresenta una grossa novità metodologica) la spiegazione razionale non viene mai prima dell’osservazione, come se fosse una dote innata dell’individuo, ma è indissolubilmente legata al mondo dei fenomeni dei quali costituisce il nesso. 

 

Proviamo adesso, ad intrecciare la domanda relativa a quando è nata la sociologia con quella che s’interroga sulle ragioni della sua comparsa, perché è essenziale capire, prima di procedere oltre, il motivo per il quale la sociologia e, in generale, tutte le scienze sociali e/o empiriche (o prasseologiche) hanno avuto la loro culla nel corso dell’Ottocento. 
Sono scienze che nel loro specifico campo di studi, ereditano, sia pure in misura diversa, il patrimonio della filosofia classica e in un certo modo, i suoi progetti.

Nel complesso esse rappresentano il tentativo di reagire ad una crisi di portata epocale, la crisi della metafisica, cioè, di quel discorso ideale sulle cose del mondo che si pongono oltre la fisica e oltre gli aspetti materiali della mondanità.


L’espressione di metafisica indica, alla lettera, l’azione del pensiero che oltrepassa gli aspetti fisici del mondo: meta ta physikà, al di là delle cose della fisica  

Nello specifico è un concetto che si fa risalire ad un grande filosofo greco, o meglio macedone, Aristotele (384-322 a.c.).  Con esso si indicano i suoi studi per la ricerca delle cause prime e dei principi che governano tutte le cose.  
In breve la metafisica raccoglie quegli studi che non si possono classificare né come logica, né come fisica, né come etica, i tre rami canonici che componevano la sapienza greca. 

Poiché questo non è un corso di storia della filosofia, limitiamoci ad osservare che la crisi della metafisica corrisponde nella modernità ad un’altra grande crisi, la crisi della conoscenza e in sub ordine dell’idealismo. 

 

Questa crisi della conoscenza corre parallela alla nascita dell’idea di modernità che, per convenzione, la maggior parte degli storici fa risalire alla Rivoluzione francese, vale a dire al 1789

Il concetto di modernità appare per la prima volta in un testo di Honoré de Balzac (1799-1850) per indicare la presa di coscienza della singolarità dell’epoca, in materia letteraria ed artistica, in rapporto al passato.
Per estensione è diventata il carattere proprio di un mondo, una società, un’epoca che sa che il passato non rinvia più a nulla.  
Certi storici fanno risalire la modernità, come coscienza di un cambiamento irreversibile delle cose, al Rinascimento, altri al XVIII secolo, cioè all’Illuminismo, altri ancora alla rivoluzione industriale del XIX secolo. 
La data del 1789, quella della Rivoluzione Francese, è la più condivisa e, in qualche modo, la più suggestiva. 

Il concetto di modernità non è precisamente datato, ma cambia secondo l’ottica con il quale lo si affronta.

C’è però un idea di modernità molto popolare che interessa questo corso di studi. È quella che riguarda il mondo delle arti. . 

Nasce in Francia con il Secondo Impero (1852-1870)e si oppone all’arte accademica – in seguito definito stile pompier –  un arte indipendente che si proclama realista e che conosciamo meglio nella sua evoluzione impressionista.   

In nome della modernità, come sappiamo, il realismo opera una serie di rotture. 

In politica con il radicalismo, perché i pittori realisti o naturalisti sono repubblicani e si oppongono ai disegni imperiali di Napoleone III. 

Nell’estetica, perché questi artisti detestano le grandi scenografie mitologiche e le maestose mitografie dei pittori accademici, rivendicando la bellezza semplice della natura. 

Nell’ambito della questione sociale, perché essi provengono – salvo qualche eccezione- dal  mondo popolare, difendono la democrazia e detestano l’aristocrazia al potere. 

Perfino nel modo di pensare l’ambiente, rivalutando la campagna contro il moltiplicarsi degli appetiti dell’industria e del capitale che sta cambiando la geografia del territorio, anche se è forte la lusinga della tecnica che il realismo vede impersonata dalle ciminiere, dalle stazioni ferroviarie, dai fuochi delle fabbriche.    

 

En passant.  Qualche tempo fa un sociologo di origini polacche, Zygmunt Bauman ha introdotto il concetto di  modernità liquida  (il saggio omonimo Liquid Modernity è del 2000, la traduzione italiana del 2006) nel tentativo di spiegare la post-modernità

Questa modernità liquida è una metafora di quel potere che è capace di dissolvere le tradizioni, le istituzioni e perfino la stessa morale, tipico del capitalismo globalizzato.    

Si caratterizza per l’impossibilità degl’uomini di individuare dei punti di riferimento stabili – necessari  alla costruzione di una propria identità sociale – e nell’ansia che ne consegue, che s’invera nel concetto di precarietà economica e dei valori morali.    


La crisi della conoscenza classica si colloca tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento.

Sono gli anni in cui si conclude anche la parabola dell’Illuminismo, che aveva mostrato come il mondo che abitiamo fosse più complesso di quello che sembrava e ancora per buona parte inspiegabile.

Una inspiegabilità che metteva in luce come, con il proseguire della conoscenza sperimentale, tutte le idee semplici ed astratte e tutte le invocazioni della fede religiosa non servissero più a nulla.
Questa crisi, che inizia con il dissolvimento del pensiero della metafisica, può anche essere interpretata come una crisi dell’idealismo e delle sue speranze e un grande impulso a rivalutare i fatti e le loro logiche.
In altre parole, con la Rivoluzione francese giorno dopo giorno l’antico affresco del mondo che era stato dipinto a cominciare dalla filosofia greca va in pezzi dando vita a tutta una serie di tentativi per porvi rimedio.

Generalmente si chiamano conservatori o reazionari gli sforzi impiegati a ricomporlo e progressisti o rivoluzionari quelli impiegati per approdare a nuovi e più avanzati equilibri.

 

Per riassumere, il Positivismo e con esso l’Empirismo logico o scientifico, lo Storicismo, e il Materialismo dialettico sono alcune delle correnti di pensiero che si formarono in questo periodo e che trasformano il modo di pensare il mondo. 


Pur con accenti diversi in queste teorie la crisi della filosofia classica, e della metafisica in particolare, associata al progredire del pensiero scientifico, indusse molto presto all’affermarsi generale di una conoscenza fondata sui principi della razionalità invece che sui meccanismi della speculazione astratta.

Ma, c’è anche un fatto nuovo, decisivo per il mondo Occidentale, l’avanzare prepotente in tutti i campi della vita corrente, dagli affari alla politica, dalla morale al governo delle nazioni, di una nuova classe sociale, quella che aveva vinto la Rivoluzione francese e che adesso esigeva che le venissero riconosciuti quei diritti per i quali aveva preso le armi: la borghesia.   


Bourgeois o Bürger, dal latino burgensis, erano detti nell’alto medioevo coloro che abitavano nei borghi anziché nel castello o nel contado.  In genere svolgevano mestieri liberi anziché funzioni politiche, militari, religiose, o mansioni servili al servizio del castello. 

In questo modo per attività, luogo di abitazione e status, si differenziavano sia dai nobili che dal clero, per un lato, dai contadini e dai servi per l’altro. 


Il 14 luglio 1789 il popolo di Parigi prende d’assalto la Bastiglia, ma nel suo diario Luigi XVI, quello stesso giorno scrive una sola parola: Rien. 

Siccome le idee non cascano dal cielo, ma si formano e si sviluppano tra gli uomini, una tale rottura epocale – che questo aneddoto descrive in modo vivido e che da vita alla modernità e a tutte le sue convulsioni – è soprattutto l’effetto di questa nuova classe in ascesa.

La sociologia, dunque, come scienza della società, non poteva nascere in un altro momento

Questa disciplina era funzionale ad un nuovo modo di vedere il mondo, rispondeva alle aspettative di una classe sociale alla ricerca di un’identità all’altezza della sua storia, fino al punto che non solo ne esprimeva i suoi caratteri, ma arrivava a rafforzarla nelle sue consapevolezze e nelle sue determinazioni e, in prospettiva, nei suoi errori.  


L’aver posto la data del 1789 come quella d’inizio della modernità non significa che la modernità è nata il 14 luglio di quel anno, giorno della presa della Bastiglia, ma che è maturata in un certo intervallo di tempo di cui quel anno è lo spartiacque. 
Questa data è funzionale al paradigma delle scienze sociali e della sociologia in particolare.  Per altri versi e nell’ambito di una storia più generale delle idee la modernità nasce con la scoperta dell’America, in pratica con il XVI secolo.  


La sociologia, soprattutto all’inizio, ha poi contribuito a diffondere, perlomeno tra le classi dominanti, due grandi miti dell’Ottocento:

il mito della tecnica, più specificatamente, della macchina.

– il mito del progresso (o, dell’idea di progresso), come speranza di un futuro radioso per un numero d’individui sempre più numeroso.

Questo secondo mito rappresenta una piena fiducia nell’avanzamento continuo e instancabile della scienza e con essa delle condizioni materiali e spirituali dell’umanità.

 

Abbiamo visto sia pure di corsa come il positivismo abbia in qualche modo orientato, nel corso dell’Ottocento, le principali ricerche intorno al tema della società e delle sue leggi.

Lo ha fatto mentre alle sue spalle si scolorivano e si dissolvevano le strutture e i valori tradizionali dell’Ancien Régime. 
È il contesto nel quale maturarono molte ricerche e si aprirono, spesso in modo esagitato, confronti e dibattiti su concetti, teorie o riflessioni che oggi appaiono popolari, ma che allora, soprattutto agl’occhi dei conservatori e del popolino, sembravano irriverenti, improponibili, blasfemi o addirittura intoccabili.

Per esempio:

Si cominciarono ad affrontare i temi del rispetto culturale dell’Altro, come individuo, e dei popoli come una forma sociale d’identità d’accettare e comprendere.

Della cooperazione internazionale come strumento per un sentire comune delle differenze culturali, sociali e politiche.

Si cominciò a sviluppare l’idea di nazione e di solidarietà sociale.

Si diffuse il principio dell’assistenza agli indigenti e ai malati, l’idea di consenso come base di ogni democrazia, la pratica del suffragio elettorale per eleggere i parlamenti.

Si cominciò a riconoscere il diritto al voto delle donne.

Molti paesi introdussero il divorzio che, implicitamente, trasformava il matrimonio da sacramento divino a semplice contratto tra un uomo e una donna.

Si cominciò a riflettere sul controllo delle nascite.

 

Sono in buona sostanza temi che oggi costituiscono (o, dovrebbero costituire) la spina dorsale delle democrazie occidentali.


Un inciso.

Compare, in questi anni, anche una nuova filosofia sulla condizione sociale dell’uomo, il materialismo storico e dialettico. 

Dal punto di vista della storia della filosofia è una costola del cosiddetto “hegelismo di sinistra”. 

Nella realtà storica di quel periodo rappresentò una speranza per le classi sfruttate dalle nuove strategie dell’economia capitalistica, speranza che si trasformò quasi subito in un’idea politica fondata sull’analisi scientifica delle leggi che governano i rapporti di produzione e le forze che li gestiscono. 

Nell’ambito del discorso sociologico il materialismo storico dialettico può, dunque, essere considerato come una teoria scientifica del conflitto di classe. 

 

L’influenza del pensiero marxiano sulle scienze sociali, da cui discendono i capisaldi del materialismo, (perché è soprattutto a Karl Marx (1818-1883) che va riconosciuto il merito di aver elaborato questa dottrina) è stato determinante da molti punti di vista.  

Ha consentito di elaborare una teoria critica delle ideologie come rappresentazioni illusorie della realtà materiale. 

Come sovrastrutture al servizio delle idee dominanti destinate a giustificare gli egoismi di classe, a razionalizzare le illusioni, a legittimare il potere costituito e a giustificarne le contraddizioni. 

Ha rafforzato il discorso critico intorno alla scientificità del pensiero scientifico, procedendo ad una analisi delle condizioni che la determinano.  Tema questo che ha poi dato vita a diverse specializzazioni della sociologia, come sono la sociologia della conoscenza, della tecnica, del pensiero scientifico. 

Ha introdotto nell’analisi delle forme sociali il concetto di alienazione e di identità


Abbiamo visto come con la modernità i temi che dominano il mondo siano cambiati radicalmente.

Oggi si parla di società contemporanea.
Secondo i sociologi e i politologi questa società si caratterizza per almeno tre aspetti:

– Una spinta globale all’interconnessione attraverso dei sistemi di rete sempre più estesi all’intero pianeta.

– Una evoluzione degli stili di vita sempre più rapidi e profondi che sono, per la prima volta nella storia dell’uomo direttamente legati all’innovazione tecnologica.

– Una trasformazione dell’ambiente e dell’habitat di un’ampiezza senza precedenti dovuta a dei fattori evolutivi di natura sociale, culturale, economica e tecnologica.

Quello che più conta, però, è un’altra cosa ancora.
Si stima che questi mutamenti siano di natura irreversibile e che coinvolgano direttamente tutti, sia pure in modi differenti, a partire dal quotidiano, cioè, dal nostro modo di concepire la convivenza umana. 


Veniamo, adesso, ad un protagonista del pensiero positivista, Emile Durkheim (1858-1917), considerato il fondatore della moderna sociologia.


Emile Durkheim nasce a Epinal (Francia) da una famiglia ebrea nel 1858. Avendo rifiutato

di diventare rabbino, entra alla Scuola Normale Superiore nel 1879, è compagno di studi di  Jaurès, Bergson, Janet, Blondel. Legge Herbert Spencer, Renouvier, Auguste Comte e segue i corsi di Fustel de Coulanges sulle istituzioni delle società antiche.  

Repubblicano, sostenitore  di un ideale d’universalismo laico, Durkheim vuole contribuire con l’insegnamento e la ricerca alla ricostruzione sociale e morale della Francia ancora lacerata dalla sconfitta di Sedan del 1870 e dagli eventi che seguirono (occupazione prussiana, Comune di Parigi e sua repressione). Nel 1882, avvia alcune ricerche sulla divisione del lavoro sociale e su Montesquieu.  Viaggia in Germania, dove studia lo sviluppo delle scienze umane e sociali e prende atto dei loro progressi, nel 1887, inaugura a Bordeaux la cattedra di scienza sociale e di pedagogia. Nei suoi corsi tratta della solidarietà sociale, del suicidio, della fisiologia del diritto e dei costumi, del fatto morale e religioso, delle strutture educative e delle dottrine pedagogiche.

Raccoglie attorno a sé un gruppo di discepoli e di collaboratori (suo nipote M. Mauss, R. Hertz, F. Simiand, e Maurice Halbwachs, che elaborò una teoria sulla memoria collettiva) e fonda l’Année sociologique (1896).  

Nel 1902, diventa titolare della cattedra di scienza dell’educazione alla Sorbona, che, nel 1913, prenderà il nome di  cattedra di educazione e sociologia. Vicino al partito socialista, dreyfusardo, fermamente convinto dell’evoluzione parallela dei progressi scientifici e tecnici da un lato e dei progressi sociali e morali dall’altro, ma anche dell’armonizzazione razionale e pacifica delle relazioni tra nazioni, cade  nella disperazione all’atto della deflagrazione del conflitto mondiale del  1914 che infranse questo suo ottimismo intellettuale e che inghiottì numerosi suoi collaboratori e il figlio André, nel 1916. Durkheim sopravvive alla sua morte solo un anno: morirà infatti nel 1917.

Al di là dell’ambito prettamente accademico, le tesi durkheimiane si diffusero in Francia, in ambito storico (scuola delle Annales ), linguistico (Ferdinand de Saussure) ed etnologico grazie a Marcel Mauss. Furono introdotte nei paesi anglosassoni da R. Radcliffe-Brown (scuola di Chicago) e B. Malinowski (Gran Bretagna). 

Le teorie di Durkheim hanno conosciuto un rinato interesse a partire degli anni ’50 del Novecento, soprattutto per via del suo scetticismo nei confronti dello psicologismo e  per i suoi lavori di sociologia della conoscenza. 


In particolare, Durkheim riuscì a conciliare la sociologia con l’antropologia culturale, studiando le società primitive e le forme religiose.

In questo senso il tema dominante del suo lavoro fu la società considerata come una realtà sui generis, che trascende gli individui da cui è composta.

Durkheim per spiegarlo ricorre alla metallurgia, una tecnologia che nell’Ottocento sembrava essere l’essenza stessa dell’idea di progresso.

”La durezza del bronzo non si trova né nel rame né nello stagno che sono serviti a formarlo, e che sono sostanze molli o flessibili.  Essa si trova nella loro mescolanza”.
In altri termini, la società detta le sue leggi dall’alto delle sue istituzioni e attraverso un processo coercitivo costante costringe i suoi membri a conformarsi alle sue regole.

La caratteristica principale della scuola sociologica francese da lui fondata fu quella di considerare i fenomeni sociali come fatti aventi una vita propria, cioè, un’esistenza indipendente dall’apporto delle singole coscienze degli individui.

Fatti capaci di esercitare una pressione costante sulla società. 

 

Ogni società è, per Durkheim, caratterizzata da una coscienza collettiva, ossia da un insieme di norme, credenze e sentimenti comuni alla media dei membri che la costituiscono.

Da questa coscienza collettiva ne discende il comportamento degli individui in società e lo strutturarsi del consenso sociale.
In breve, per questo autore, l’individuo è un prodotto della società e non viceversa, così ogni azione che compie l’individuo in società è il risultato di una coscienza che ci è superiore e dalla quale dipendiamo.

Vediamo in pratica queste tesi applicate ad un tema di costante interesse, il suicidio.


Da tempo sappiamo che il suicidio è la seconda causa di morte tra gli adolescenti, dopo gl’incidenti stradali. 

Secondo l’OMS ogni anno nel mondo il suicidio uccide come la malaria. 

Nel 2012, per coglierne la rilevanza, si sono uccise (il dato è in difetto) più di 800mila persone.  


Come accennato il tema centrale delle ricerche di questo studioso è sempre stato il rapporto, spesso problematico, tra l’individuo e la società. 

Il tema di uno dei suoi libri più importanti è quello sulla divisione sociale del lavoro, tuttavia, il suo studio più famoso, anche per la natura dell’argomento, rimane quello sul suicidio che pubblicò nel 1897.
In esso si riflettono anche tutte le problematiche di una società dominata dalla confusione ideologica, dall’instabilità politica e dalle incertezze economiche.

Ciò che rende questo lavoro importante sono soprattutto due motivi.
Un motivo di natura etica, perché Durkheim esamina il suicidio sotto l’aspetto di una disfunzione drammatica nel rapporto individuo-società.

Vale a dire, come la spia di una crisi nell’organizzazione sociale, affermando implicitamente che esistono sempre delle responsabilità nell’azione degli uomini che hanno degli effetti sul comportamento di altri uomini e della società nel suo insieme.
Come dire, in un certo senso, tutti siamo compromessi.


Durkheim, scienziato dei fatti sociali, provò anche a elaborare una definizione “scientifica” di suicidio. Sono un suicidio, egli scrisse,“tutti i casi di morte che risultano direttamente o indirettamente da un atto positivo o negativo messo in essere dalla vittima stessa con la convinzione o la certezza di produrre questo risultato”. 

Come si vede in questa definizione è evitato ogni commento o considerazione morale.


L’altro motivo è che Durkheim, per difendere le sue tesi, non esitò a utilizzare i risultati di una scienza nascente, la statistica.
Con essi mise in luce il fatto che i tassi di suicidio mantengono, a livello statistico, valori costanti nel tempo e nei luoghi.
Da ciò ne dedusse che il suicidio non può non essere considerato come un fatto sociale.


Nella teoria di Émile Durkheim i fatti sociali costituiscono l’oggetto della ricerca sociologica.

È considerato fatto sociale “qualsiasi maniera di fare, fissata o meno, suscettibile di esercitare sull’individuo una costrizione esteriore o, anche, un modo di fare, che è generale di una data società pur possedendo una esistenza propria, indipendente dalle sue manifestazioni individuali”.

(Le Regole del Metodo Sociologico, 1895)


Sempre con l’ausilio delle tabelle statistiche Durkheim evidenziò come il suicidio varia in modo inversamente proporzionale al grado di socialità che l’individuo riesce a sviluppare vivendo in società.  Dunque si presenta come un fenomeno che prescinde per buona parte dalla psicologia individuale.
Un cruccio di Durkheim a questo proposito fu il fatto che non riuscì mai a spiegare razionalmente perché il tasso di suicidio è più elevato tra le professioni liberali che tra gli operai, tra gli uomini che tra le donne, tra i protestasti che tra i cattolici.    

Un altro motivo importante è che con questo libro Durkheim sviluppa quella che oggi potremmo chiamare una metodologia della ricerca sociale.
Metodologia che, con grande intelligenza, egli elaborò a partire dal pensiero di John Stuart Mill, di cui abbiamo già ricordato le tesi sui meccanismi dell’induzione nella ricerca scientifica. 

 

In sostanza, Durkheim, individua per il suicidio due cause, a ciascuna delle quali sono riconducibili due tipi diversi di suicidio.

In questo modo sono delineati quattro tipi di suicidio, a seconda della causa che lo scatena e del modo con cui essi si rapportano ai temi dell’integrazione e della regolazione sociale. 

Temi che coordinano il rapporto dell’individuo con la società.

 

In tutti e quattro i casi per Durkheim si constata una compromissione della società nella storia e nelle ragioni dell’individuo che in essa vive e che, in qualche misura, la rende co-responsabile del suo stile di vita e del suo agire.
Come è facile intuire, è proprio questa co-responsabilità che sollevò le polemiche più feroci contro questo autore, perché l’epoca non era ancora disposta, intrisa com’era di individualismi e di egoismi sociali, ad accettare delle responsabilità di questa natura, anche perché non voleva essere coinvolta nella ricerca dei rimedi.

Vediamo adesso un altro autore legato in qualche modo all’infanzia della sociologia e alla corrente positivista, Vilfredo Pareto, un ingegnere e economista italiano nato a Parigi nel 1848 e morto a Ginevra nel 1923.  E’ più conosciuto come sociologo, una disciplina a cui dedicò buona parte della sua vita.

Nei panni dell’economista, Pareto concepiva l’economia come una scienza che ha per oggetto le azioni logiche dell’uomo, quelle azioni che indirizzano consapevolmente ai mezzi obiettivamente adeguati per il raggiungimento dei fini desiderati.
Per Pareto l’individuo o, meglio, l’homo oeconomicus, è guidato dai fini, cioè, dai sui gusti, dalla sua educazione, dalle sue mete e esso agisce quasi sempre entro degli ambiti determinati dai mezzi e dalle disponibilità.

Partendo da un modello di tipo meccanicistico dell’equilibrio economico generale, la sua analisi sociologica si proponeva di trovare le condizioni che assicurano l’equilibrio del sistema sociale.

Ma siccome, di fatto, nessun sistema sociale è costituito solo da azioni logiche, Pareto introdusse nelle sue riflessioni anche le cosiddette azioni non-logiche.
In altri termini, egli arrivò alla conclusione che l’uomo non ha sempre una grande consapevolezza di ciò che fa ed è proprio questo che inceppa il meccanismo di realizzazione dei fini.

C’è anche da sottolineare, secondo Pareto, il fatto che l’individuo sociale, pur agendo in modo non-logico, cosa che lo fa assomigliare alla specie animale, rispetto a quest’ultima presenta la caratteristica di accompagnare i propri comportamenti con delle formulazioni verbali la cui funzione è quella di fornire un motivo tra virgolette logico del comportamento stesso.


È una tesi non del tutto vera.  La moderna etologia – cioè la scienza che studia il comportamento animale nel suo ambiente – afferma che gli animali lungi dall’essere irrazionali sono fin troppo prigionieri delle finalità che li guidano, finalità che sono assolutamente funzionali alla specie a cui appartengono e che rappresentano il loro modo di essere razionali.

 Semmai non sono logici dal punto di vista della nostra logica. 


Compito della sociologia, dunque, è di spiegare quali sono le costanti del comportamento sociale non-logico e quali sono le caratteristiche e la funzione del discorso sociale.

Ma cosa sono le azioni non-logiche?
Sono le azioni in cui i processi induttivi e deduttivi sono alterati da errori di giudizio.
Questi errori sono in genere individuali, ma possono riguardare, e sono molto più gravi, anche gruppi d’individui o intere classi sociali.
È facile costatare come questo problema si è complicato con l’avvento dei sistemi mediali di comunicazione nei quali è riconosciuto un grande potere ai testimoni (in genere personaggi che appartengono al mondo delle élite) di influenzare le masse o, come si dice oggi, l’opinione pubblica e di manovrare i consumi, i costumi, la morale e i consensi politici.

Che cosa c’è di più illogico di comprare una determinata automobile perché ce lo suggerisce un giocatore di calcio, o un frigorifero perché ce lo propone una modella in biancheria intima?
Soprattutto, perché, a mente fredda ridiamo di queste cose e poi, al dunque, ne restiamo influenzati? 

Dall’analisi del pensiero di Pareto si deduce che egli considerasse come uno degli obiettivi principali della sociologia quello di analizzare ed interpretare quelle azioni e quei comportamenti collettivi che appaiono come irrazionali

In sostanza, si può dire che, con le dovute approssimazioni, che sono azioni-non logiche quelle che sfuggono allo schema mezzi-fini.   

Per Pareto, dunque:
La scienza economica ci consente di conoscere il modo in cui operano gli individui in funzione dei fini che si danno. 
La sociologia ci permette di entrare nelle ragioni che impediscono loro di agire o di non raggiungere gli obiettivi che vorrebbero. 

Più semplicemente, la sociologia ci consente di mettere in evidenza i determinismi sociali, che limitano l’autonomia degli individui. 

 

Per concludere una curiosità. 

Pareto studiando la distribuzione dei redditi dimostrò che in un dato territorio solo pochi individui possiedono la maggior parte della ricchezza.

Questa osservazione lo portò a formulare la famosa legge del “80/20”.

Possiamo sintetizzarla così, la maggior parte degli effetti è dovuta ad un numero ristretto di cause.
Questa legge empirica è conosciuta anche come il Principio di Pareto
Così, per estensione, in molti campi delle attività umane, l’ottanta per cento dei risultati dipende dal venti per cento delle cause.

Nell’economia come nei processi industriali.

Facciamo un esempio, il venti per cento dei possibili tipi di errori in un processo produttivo genera l’ottanta per cento dei difetti totali.

Oppure, l’ottanta per cento dei reclami di un servizio proviene in genere dal venti per cento dei clienti insoddisfatti.

L’ottanta per cento dei ricavi di una compagnia aerea deriva dal venti per cento delle rotte non in perdita.

L’ottanta per cento delle perdite del servizio sanitario si concentrano in un venti per cento di azienda sanitarie locali, distribuite sul territorio.

 

Proviamo, adesso, a riassumere alcuni caratteri del discorso sociologico. 

Come tutte le discipline empiriche anche questa disciplina ha della variabili e delle invarianze.

Tra le invarianze ricordiamo:
L’interconnessione dei fenomeni sociali, da cui ne deriva la necessità di studiarli come un insieme di realtà correlate.
L’importanza dei dati oggettivi, dei fatti, delle azioni, i soli che possono confluire nell’elaborazione delle teorie e, i soli che contano nei confronti.
La tendenza, sviluppatasi nella modernità, alla razionalizzazione della vita sociale, che si riflette su una semplificazione pragmatica dei comportamenti sociali.
L’affermarsi del discorso scientifico come base per lo studio del consenso sociale e, dunque, delle forme di evoluzione della socialità.

 

Per completare questa prima parte che, abbiamo visto, connette la storia della sociologia con le ragioni che l’hanno determinata e con i meccanismi cognitivi che la fanno funzionare, fermiamoci sul tema delle invarianze per meglio esaminare alcuni autori che se ne sono interessati.

 

Queste invarianze furono l’oggetto di discussione di un grande filosofo della politica, un tedesco, un berlinese, come si definiva, ancora oggi molto apprezzato come giurista e studioso di economia politica, oltre che sociologo, Max Weber (1864-1920).


Max Weber (1864-1920) Sociologo e storico tedesco. 

Laureatosi a Berlino alla scuola di L. Goldschmidt, passò poi, con T. Mommsen, allo studio della storia agraria romana.  Fu chiamato nel 1894 alla cattedra di economia politica di Friburgo in Brisgovia e poi nel 1897 a quella di Heidelberg.  In questo periodo elaborò una nuova metodologia della ricerca scientifica nelle scienze sociali (storia, economia e, soprattutto, sociologia), che sintetizzò nel volume Wirtschaft und Gesellschaft (1922).

Weber si proponeva di studiare le azioni tipiche, le probabilità calcolabili nel comportamento degli uomini, non i valori soggettivi determinanti nella realtà le azioni; da qui la legittimità di una ricerca dei nessi mezzi-fine non in vista di un giudizio di valore sui fini stessi, ma in vista dell’adeguatezza dei mezzi per conseguirli.  

I suoi contributi principali in campo sociologico sono rappresentati dall’indagine sui rapporti tra forme religiose e forme economiche.  Ancora oggi è di grande attualità la sua tanto discussa tesi che fa risalire la formazione dello spirito capitalistico (imprenditorialità razionale) all’influenza delle posizioni etiche calvinistiche che concepivano il lavoro come vocazione, ascesi intramondana. Tra le opere ricordiamo: Gesammelte politische Schriften (1921) e Wis­senschaftslehre (1922).


Per sintetizzare diciamo che l’obiettivo scientifico di Weber era quello di verificare se fosse possibile conciliare il capitalismo (come teoria economica) con la razionalizzazione delle forme sociali.

Weber, in breve, sosteneva che molte delle conclusioni che costituisco il corpo del discorso sociologico, non rappresentano delle verità, ma sono il frutto dei caratteri e dei criteri di ricerca che sono stati impiegati per studiare la società.

Per questo filosofo le teorie rappresentano le impalcature provvisorie per comprendere e catalogare i fatti.

Esse costituiscono una sorta di rifugio temporaneo alla conoscenza in attesa di potersi orientare nel contesto dei fatti empirici.

In questo senso, si può dire che Weber ha introdotto nelle scienze sociali la discussione sulla forma di teoria.

 

Nei suoi studi, soprattutto quelli del periodo del suo insegnamento ad Heidelberg, egli si fece promotore di una sociologia fondata sulla comprensione della realtà umana più che sulla spiegazione delle sue istituzioni oggettive.
D’accordo con Georg Simmel (1858-1918), un altro sociologo tedesco di estrazione filosofica, Weber in qualche modo difese il carattere relativo della cultura e mise in luce i rischi di una sua  razionalità esacerbata.
Una razionalità che per Weber tende inevitabilmente a diventare un carattere formale, carattere che possiede un suo naturale terreno di diffusione nelle forme della burocrazia considerata in tutti i suoi aspetti, dallo Stato alla famiglia.

Dunque la razionalità, per Weber, in determinate condizioni o in particolari momenti storici, può diventare impersonale, statica, ripetitiva e, alla fine, sostanzialmente repressiva rispetto alle esigenze di una  espressività spontanea o alla naturale imprevedibilità degli individui.

Ma da dove hanno origine queste contraddizioni?
Dai fatti.  Osserva Weber che nella società moderna spesso i mezzi tendono a subire una metamorfosi, a diventare dei fini.

Così, quelle che fino ad un certo momento sembravano delle architetture sociali, create per facilitare la vita corrente, si trasformano in congegni autonomi, astratti, autoritari. 

Diventano delle gabbie dalle quali è spesso difficile liberarsi o non essere oppressi.

 

Qui siamo di fronte ad uno dei grandi temi della sociologia, quello della libertà.

Non lo possiamo trattare in modo specifico, diciamo solo che per Weber spesso le competenze tendono a diventare normative a trasformarsi in punti di vista vincolanti.
In questo modo gli aspetti soggettivi della vita finiscono per essere preda di quelli oggettivi e le regole generali e formali concorrono a condizionare la routine soggettiva del vivere.

 

Veniamo brevemente ad un ultimo autore, Talcott Parsons (1902-1979), uno dei sociologi che più hanno contribuito a rinnovare la sociologia americana.


Talcott Parsons (1902-1979) è un sociologo statunitense.  Studiò alla London School of Economics e poi a Heidelberg. Iniziata la carriera accademica come economista, dal 1931 si dedicò esclusivamente alla sociologia, disciplina di cui divenne professore nel 1944 alla Harvard University. Fondatore dello struttural-funzionalismo, elaborò un’ambiziosa teoria della società, concepita come un sistema che, per durare, deve soddisfare quattro requisiti funzionali:

– conservare la propria identità nel tempo, definendo i confini con l’ambiente esterno,

– assicurare l’integrazione tra le sue parti,

– fissare i propri scopi,

– organizzare i mezzi per raggiungerli. 

A ogni funzione è preposto un particolare sottosistema (famiglia, religione ed educazione, diritto, politica ed economia). Tra le opere principali: The structure of social action (1937) e The social system (1951).


Il libro più importante di Parsons s’intitola: The Structure of Social Action, risale al 1937.
Il suo punto di vista è di tipo funzionalistico e la sua teoria, non per caso, è definita strutturalfunzionalistica

Parsons l’ha elaborata in questo modo nel tentativo di riuscire a coniugare le scienze sociali con le scienze dell’agire umano, cercando una sintesi tra le idee di Durkheim, Pareto e Weber.

 

Il funzionalismo come indica la parola è una dottrina delle scienze sociali che fa appello al concetto di funzione, cioè, predilige la ricerca delle condizioni in cui un determinato fenomeno si manifesta invece di esaurirsi nella ricerca delle sue cause in senso stretto.  

In parole semplici, la ricerca di Parsons privilegia l’analisi delle conseguenze piuttosto che delle cause di un insieme dato di fenomeni empirici.
Per Parsons la ricerca sistematica delle conseguenze va poi distinta anche da un’altra nozione delle scienze sociali, quella di scopo.
Lo scopo, infatti, ha a che fare con le motivazioni coscienti degli attori sociali, mentre l’analisi delle conseguenze tiene conto anche delle motivazioni non-coscienti, non volute o inconsce.

 

In sostanza, La struttura dell’azione sociale di Parsons, parte da un assunto di massima, che il comportamento individuale è il primo gradino di ogni ricerca sociologica, assolutamente necessario per arrivare a comprendere l’ordine sociale.


Appendice.
Fino a quando la sociologia è stata la scienza delle spiegazioni dei fenomeni sociali e il suo oggetto è apparso soprattutto teorico, le ricerche sono rimaste confinate nell’ambito della definizione delle sue metodologie.

Con il progresso del pensiero scientifico, il progredire della ricerca empirica e l’affermarsi del fatto come il mattone del suo edificio formale, accompagnato dal nascere di un certo pacchetto di domande e di risposte “sociali” da parte del mondo del lavoro, dell’imprenditoria o, più semplicemente, del tempo libero, la sociologia cominciò a specializzare i suoi strumenti d’indagine e il suo linguaggio, dando vita a numerose “sociologie”.

 

Una delle prime sociologie fu quella dell’industrializzazione, il cui tema centrale sono i risvolti sociali della tecnica e delle relazioni umane nei luoghi di lavoro.  Come si può intuire è una sociologia che ha molti punti in comune con la sociologia della politica e della cultura.

Accanto a questa sociologia troviamo la sociologia delle classi sociali che si è successivamente evoluta verso i problemi dei consumi, della emulazione sociale e degli stili di vita, come fattore d’imprinting tra le classi.

Ricordiamo anche la sociologia del lavoro, che ha avuta grande diffusione soprattutto nei paesi di lingua inglese.

Complementare a queste due sociologie è la sociologia della famiglia, intesa come una delle istituzioni della società.  Per questa sociologia la famiglia è una sorta di fabbrica del privato.
Essa influenza la società nel suo insieme e, di riflesso, ne è influenzata.
Controllare ideologicamente la famiglia – infatti – significa controllare politicamente la società. 

C’è poi la sociologia urbana, con i suoi studi sulla nascita delle metropoli e di molti fattori connessi, socialità, devianza, flussi migratori, eccetera.
Questa sociologia di recente è mutata in una sorta di sociologia dei sistemi, per sottolineare il passaggio da una sociologia descrittiva ad una sociologia critica, che studia le forme urbane come se fossero sistemi collegati a sottosistemi, eccetera.

Altre sociologie, tra di loro connesse da quella che si definisce l’astrazione argomentativa, sono la sociologia delle religioni, la sociologia del diritto, la sociologia delle forme di conoscenza, la sociologia della comunicazione, la sociologia della globalizzazione e la sociologia delle reti.

Sono discipline che sconfinano in continuazione nella morale e nell’etica, sollevando ampi dibattiti, come quello, per esempio delle conseguenze di certi riti religiosi o legati alla tradizione tribale, che vengono a scontrarsi con le forme di morale del mondo occidentale.

 

Per fare un esempio significativo prendiamo in considerazione la pratica dell’infibulazione e dell’escissione, cioè delle mutilazioni sessuali sulle donne.
Le origini delle mutilazioni femminili sono legate alle tradizioni dell’antico Egitto (da qui il nome di infibulazione faraonica).  Si calcola che in Egitto, nonostante la pratica sia vietata, ancora oggi tra il’70% e l’80% delle donne che vivono nelle aree rurali abbia subito l’infibulazione.

La Somalia, dove la pratica è molto diffusa, è stata definita dall’antropologo de Villeneuve le pays des femmes cousues, il paese delle donne cucite.

L’infibulazione e l’escissione della clitoride non sono menzionate dal Corano, non è dunque richiesta dall’Islam alcuna forma di manipolazione dei genitali (tra cui l’infibulazione) che rechi danno fisico alla donna.

Secondo molti studiosi non è neppure considerato accettabile dall’Islam che sia limitato il piacere sessuale della donna, anche se molta parte di quello ortodosso tollera la pratica della circoncisione del clitoride seguendo l’unica presunta prescrizione lasciata da Maometto e riportata nel libro degli Hadit.  Da qui il fatto che la giurisprudenza coranica ammette, fra le cause di divorzio, difetti fisici della sposa, come ad esempio una circoncisione mal riuscita.
Sebbene non sia in nessuna parte richiesta dal Corano, l’infibulazione è però una pratica che si può riscontrare in alcuni paesi, in tutto o in parte Islamici (essenzialmente la parte meridionale dell’Egitto, Sudan, Somalia, Eritrea, Nigeria, Senegal, Guinea), dove viene consigliata come sistema ritenuto utile a mantenere intatta l’illibatezza della donna.

In Somalia, una donna non infibulata viene considerata impura, pertanto, non riesce a trovare marito e rischia l’allontanamento dalla comunità.

La scrittrice Ayaan Hirsi Ali, somala naturalizzata olandese, è una delle principali attiviste contro le mutilazioni femminili, nonché testimone di come questa pratica sia tipica della società somala: ella stessa fu infibulata all’età di cinque anni assieme alla sorella di quattro.

Nel Cristianesimo, le mutilazioni, anche quelle auto-inflitte, sono considerate un peccato contro la santità del corpo e sono quindi proibite.

Ma – come l’Islam – essendo l’infibulazione legata a culture antropologiche tribali precedenti la cristianizzazione, tale pratica si è conservata, soprattutto tra i copti (ortodossi e cattolici) del Corno d’Africa, in Eritrea e in Etiopia.

Secondo dati recenti di alcuni osservatori internazionali nel mondo circa 150milioni  di donne hanno subito una qualche mutilazione sessuale.
Queste mutilazioni si praticano ancora in circa 20 paesi africani e 4 asiatici (Yemen, Oman, Indonesia e Malesia).  Si calcola che ogni giorno 6000 ragazze di età compresa tra i sei e i dodici anni subiscono mutilazioni genitali e che in Egitto, per fare un solo caso, l’80 per cento delle ragazze sono infibulate, anche se di recente questa pratica è stata messa fuori legge.
Con l’infibulazione e l’escissione – cioè con la rimozione della clitoride – le donne non possono più provare piacere sessuale. A che scopo si fa tutto questo? 
Di fatto non esistono a questo proposito precetti difendibili, l’unico scopo ammesso è di tutelare quella stupida cosa che si chiama l’onore dei padri e dei mariti togliendo alle donne un motivo legittimo per essere libere nelle loro scelte sessuali.   
La domanda appare semplice:  Dobbiamo imporre la nostra morale, così come abbiamo imposto un po’ dappertutto nel mondo i nostri stili di vita o, dobbiamo rispettare le tradizioni locali che molte culture si tramandano da decine di secoli?  E’ giusto o ingiusto mutilare delle bambinette e perché? Se i genitori di queste ragazze vivono in Italia sono liberi di mutilare le loro figlie o devono sottostare alle nostre leggi e alla nostra cultura, che di recente ha deciso di punire questa pratica?  (L’Italia di recente ha detto “no” ed è stata varata una legge che punisce ogni forma di mutilazione sessuale.) 
In questo contesto la questione del velo femminile è analoga anche se è infinitamente meno drammatica, ma forse proprio per questo più complessa sul piano dell’affermazione dei principi sulla libertà della persona.  

 

Ci sono poi le sociologie minori, del turismo, del tempo libero, dell’abbigliamento e della moda.  Così come ci sono sociologie nate da pochissimo, come quelle legate all’impatto ambientale delle biotecnologie o al formarsi di nuclei di realtà virtuali.

Possiamo fermarci qui, non senza aver ricordato la sociologia economica, quella della ricerca scientifica, la sociologia della comunicazione, alla quale dedicheremo metà di questo corso e, per finire la sociologia dei gruppi, che oggi sta diventando sempre più importante, sia per lo studio del mercato dei beni di largo consumo, sia per lo studio delle mode, delle opinioni, o delle élite, che condizionano le abitudini legate al tempo libero e al loisir.

C’è infine un ultimo punto, non certo minore, da considerare prima di lasciare questa sezione sulla nascita di questa disciplina.

Per la sociologia non tutti i problemi reali sono anche problemi veri e viceversa.
Un problema, per un sociologo, è reale se si può tradurre in termini tali da risultare verificabile sperimentalmente.  Se può essere considerato un fatto…a prescindere dalla sua veridicità.

Per esempio, la sociologia può studiare le apparizioni degli UFO tra la gente, a prescindere dalla considerazione che gli oggetti volanti non-identificati siano navi spaziali aliene, esperimenti scientifici segreti o allucinazioni collettive.
Di contro, esistono problemi reali che per la sociologia sono insolubili perché non sono traducibili in termini funzionali.  Non lo sono perché spesso ci sono delle volontà politiche che non vogliono affrontarli a causa delle conseguenze che potrebbero comportare o, più semplicemente, perché anche la sociologia è stata ed è ancora succube di volontà politiche forti.
Negli stati del Sud degli Stati Uniti, prima della guerra di secessione, i neri o, meglio i “negri” venivano quasi sempre tenuti alla catena mentre lavoravano nelle piantagioni di cotone.  Perché?  Perché alcuni cattedratici di alcune università del Sud avevano riscontrato in questi neri una propensione alla fuga dal lavoro e dalla fatica.  In altri termini, a differenza dei bianchi, non amavano lavorare, non avevano principi morali ed erano portati all’ozio, ai vizi, al bere e al fare l’amore. 

Questa propensione alla fuga era stata classificata come una vera è propria patologia del comportamento a cui era stato dato il nome di dromomania o nevrosi da vagabondaggio, che colpiva i bianchi schizofrenici e tutti i neri, come malattia propria del carattere delle persone di colore.