PAGES

IED – ANTROPOLOGIA CULTURALE – ANNO ACCADEMICO 2015-2016 (parte I – fine)

IED – ANTROPOLOGIA CULTURALE – ANNO ACCADEMICO 2015-2016. 

(Documento scolastico a circolazione interna, non redazionato.)

Antropologia culturale 2015-16 (parte I – fine) (versione PDF)

(Fine prima parte.)

 

(SEGUE)

………….

Ritorniamo al tema principale.

Abbiamo detto che fu difficile, per la cultura europea accettare che molti suoi comportamenti potessero apparire incongrui, barbari, strani o immorali a un osservatore di un’altra società.

Ma ancora più difficile fu ammettere di poter essere considerati come dei  primitivi.

 

Gli indù, come è risaputo, considerano ancora oggi barbara l’abitudine della cultura Occidentale di macellare i bovini, soprattutto le vacche.

 

Per molte donne in Africa o nel sud-est asiatico, dove i neonati vivono in braccio della madre e comunque insieme agl’altri bambini, è reputata crudele la nostra abitudine di lasciare soli i neonati dopo averli rinchiusi in gabbie o box e/o affidati a estranei o a istituzioni pubbliche.

 

Gli esempi sono interminabili, ma il tema sotteso è quello del relativismo culturale.

08

Il concetto di relativismo culturale, che abbiamo già usato in più di un’occasione, può assumere in base alle circostanze, valenze e significati diversi.

Anzitutto esprime la convinzione che i valori, le norme, i bisogni e i comportamenti possono essere giudicati solo all’interno del contesto sociale e culturale in cui sono inseriti.

 

Da ciò ne consegue, da un lato, la non-legittimità di comparare tra di loro, soprattutto in termini valoriali, le culture. 

Dall’altro, il relativismo culturale mette in discussione l’idea di progresso e come questa idea è intesa dalla cultura Occidentale, vale a dire come un fattore di evoluzione.

 

Questi sono due motivi per i quali il relativismo culturale viene contestato da alcune scuole sociologiche tradizionali che si sforzano di individuare (pur nella contestualizzazione dei sistemi locali) la presenza di elementi culturali e strutturali simili o comparabili nella maggior parte delle società conosciute (in modo da confrontarli e giudicarli).

 

Va anche detto che il relativismo culturale si scontra anche con molte di quelle credenze religiose che fanno discendere l’uomo da un’unica divinità.

 

In ogni modo in un’ottica metodologica il relativismo culturale sostiene che l’osservatore deve studiare le azioni degli individui appartenenti a una data società riferendosi alle norme e alle motivazioni in vigore in quella società ignorando quelle della propria.

 

È una tesi che ha i suoi punti di forza soprattutto tra i teorici del funzionalismo, dell’interazionismo simbolico e della sociologia fenomenologica.


Una nota su l’interazionismo.

L’interazionismo rappresenta l’approccio teorico dominante negli studi della Scuola di Chicago e di George Herbert Mead (1863-1931), le cui considerazioni hanno rappresentato un punto di partenza per lo sviluppo della psicologia sociale statunitense. 

In particolare, l’espressione di interazionismo simbolico fu coniata da Herbert Blumer in un saggio del 1937 che si rifaceva ai lavori di Mead. 

 

Sono tre i principi chiave dell’interazionismo simbolico:

–  gli esseri umani agiscono nei confronti delle “cose” (oggetti fisici, esseri umani, istituzioni, idee…) in base al significato che essi attribuiscono ad esse. 

–  il significato attribuito a tali oggetti nasce dall’interazione tra gli individui e è quindi condiviso da questi (in questo contesto il loro significato è un prodotto sociale). 

– tali significati sono composti e ricomposti attraverso un processo interpretativo messo in atto dagli individui nell’affrontare le cose in cui si imbattono.   

 

Margaret Mead (1901-1978) su questo punto sosteneva che le interazioni fra individui e gruppi di individui non nascano da una serie di risposte a stimoli, ma dall’interpretazione dei significati simbolici attribuiti agli stimoli stessi.

Per la Mead l’individuo vive e opera in un mondo sociale.

 

In questo senso si possono comprendere le modalità con cui il singolo agisce solo se si considera il suo comportamento all’interno del gruppo sociale al quale appartiene, poiché le azioni del soggetto trascendono i confini del singolo e coinvolgono anche gli altri membri del gruppo. 


In sintesi il relativismo culturale sostiene che, preso atto del carattere universale della cultura e della specificità di ogni ambito culturale, ogni società è unica e diversa da tutte le altre, mentre i costumi hanno sempre nel loro contesto specifico, una ragione e una giustificazione.

 

Come abbiamo già sottolineato, questa teoria divenne molto popolare in campo antropologico, grazie a Margaret Mead, un’allieva di Boas, il cui studio su l’adolescenza nelle Samoa Occidentali, un gruppo di isole nel Pacifico, può essere considerato esemplare dell’utilizzo di argomentazioni di carattere relativistico come strumento di critica della società occidentale.

 

Dalla teoria del relativismo culturale sono derivate numerose tesi che sostengono il rispetto delle diverse culture e dei valori in esse professati.

 

Tali tesi asseriscono l’opportunità di un riesame degli atteggiamenti nei confronti dei cosiddetti paesi del Terzo e del Quarto Mondo e in genere dei paesi ex-coloniali.

 

Soprattutto si raccomanda un maggior senso critico negli interventi e si stigmatizza la tendenza coloniale e post-coloniale a imporre, in modo più o meno esplicito, un sistema culturale – che spesso ne maschera anche uno religioso e ne sottende uno ideologico – mediante l’intervento umanitario, gli aiuti per lo sviluppo economico e/o la cooperazione internazionale. 

 

Il relativismo culturale, in sostanza, difende la convinzione per la quale ogni cultura ha, di per se, un valore incommensurabile, indipendentemente da qualche valenza teorica o pratica.

 

Secondo il relativismo culturale i gruppi etnici dispongono in genere di culture autonome e tutte hanno importanza in quanto tali.  Il ruolo dell’antropologia viene di conseguenza ristretta all’analisi e alla conoscenza profonda di tali espressioni culturali, mentre ogni valutazione di valore viene messa al bando come un’espressione di etnocentrismo. 

 

Vediamo ora il tema del relativismo culturale partendo da questa paradossale domanda:

Il frigorifero induce all’egoismo sociale? 

 

Nelle etnie dove non ci sono mezzi di refrigerazione la spartizione della selvaggina fresca è, per tradizione, una soluzione più ragionevole della conservazione di una scorta di carne avariata.

 

Tale sistema di spartizione garantisce implicitamente la certezza della “previdenza sociale” tra gli individui, perché non sempre la caccia è fortunata e se si è spartito il proprio bottino con gl’altri, gl’altri faranno la stessa cosa con noi in futuro.

 

Questa condizione assicura anche ai troppo giovani, ai troppo anziani, agli ammalati e agli impediti, di poter attingere a un fondo comune di cibo grazie anche al contributo della raccolta di frutti, semi e piante che completa la caccia.

 

Va da se, la comunanza delle provviste rappresenta una soluzione a una precisa situazione condizionata dall’ambiente naturale e non costituisce necessariamente la soluzione universale e pratica ai problemi della società.

 

In breve, il relativismo culturale è una teoria importante se siamo capaci di non farci sedurre dai preconcetti e se siamo capaci di non farci prendere la mano da uno spirito troppo romantico.

 

Vediamo adesso il tema di come intendere la cultura in sé.  .

 

In generale per le persone la cultura è il risultato di anni di studio, di giornate passate nei musei o nei teatri, d’impegno nella ricerca scientifica, ma la definizione antropologica è un’altra.

 

Essa pone l’attenzione soprattutto sugli stili di vita di una società considerata nel suo insieme, senza fare distinzioni e senza privilegiare certi aspetti di essa rispetto a altri.

 

Così, se nel linguaggio comune si è colti se si suona Bach al pianoforte o se si conosce la filosofia greca, per gli antropologi anche il modo di lavare i piatti, farsi il nodo della cravatta o guidare un automobile è un modo di fare cultura che si colloca allo stesso livello di suonare un pianoforte Steinway.

 

Ma quello che più conta è la conclusione implicita che se ne può e se ne deve trarre.

Vale a dire, per le scienze sociali non esistono assolutamente individui o società senza cultura.    

Ogni società. per quanto semplice e indipendentemente dall’epoca possiede una cultura così come ogni essere umano nella misura in cui è partecipe di una società.

 

Ciò che una persona fa o pensa dipende dalla sua storia sociale, ma non è un modello culturale.

 

Affinché un’idea o un’azione siano culturali – o meglio, siano considerati un fatto culturale – devono essere condivise da un gruppo più o meno grande d’individui.

 

In questo senso, parlare delle usanze diffuse tra gli individui che appartengono a una società significa occuparsi di una cultura.

 

Se invece queste usanze sono circoscritte a un gruppo all’interno della società è più corretto parlare di subculture.

­­­­­­­­­­­­­­­­­

Ha scritto Ralph Linton (1893-1953), un antropologo americano: Mentre gli etnologi hanno sempre avuto l’abitudine di descrivere comunità e nazionalità come se fossero le unità primarie portatrici di cultura, la cultura totale di una società è in genere un aggregato di subculture.

09

Ognuna delle subculture differisce per qualche aspetto da tutte le altre, e la cultura totale consiste nella somma delle sue subculture, più certi elementi che sono il risultato dell’interazione di queste.

 

Va anche detto che per molto tempo lo studio delle subculture è stata associato allo studio della marginalità, della devianza, di ciò che una volta si definiva patologia sociale o disadattamento.

 

A questo proposito ricordiamo che la criminalità, il vagabondaggio o il nomadismo urbano, l’alcolismo rappresentarono la materia di inchiesta e di osservazione negli studi che la Scuola di Chicago pubblicò negli anni venti e nel decennio successivo.

 

Esistono però altri campi che non sono né devianti né marginali, nel senso convenzionale corrente, che a buon diritto possono essere esaminati come sottoinsiemi culturali. 

 

Per fare un esempio è il caso delle culture giovanili, della cultura operaia, delle comunità migrate o migranti e di altri ambiti o livelli di espressione e di socialità non istituzionale.

 

In questo senso si potrebbe dire che la subculturalità e la subalternità oltre a essere un carattere strutturale correlato alla gerarchia e all’appartenenza, si presentano come segni di identità sociale e fonti di valori antagonistici.

 

È lungo questa frontiera interna al corpo sociale e al suo spazio culturale, che nella seconda metà del Novecento hanno preso forma aree di identità segregata e oppositiva fondate più sulla contestazione dei valori istituiti che sulla loro denuncia politica.

 

I movimenti underground, le comuni, una certa versione nichilista della cultura proletaria possono essere ricordati e considerati come esempi di formazioni subculturali suscettibili di mutarsi in controcultura oppure, a seconda della loro capacità di essere assorbite e riconvertite nel consumo di massa, in espressioni di un ideale di way of life.

 

Va anche osservato che in una società complessa la proliferazione delle subculture è talmente complessa e rapida da farle apparire capaci di variazioni illimitate.

 

Nello stesso tempo, però, il successo di una sottocultura rivela forme di regolarità, se non di uniformità, che si possono imputare a strategie commerciali, alle opportunità tecnologiche della distribuzione e alle esigenze dei linguaggi mediatici.
Come abbiamo già notato, le identità subculturali si muovono in una sorta di instabilità irrisolta fra l’auto-riconoscimento senza contaminazioni e la dipendenza rispetto al mercato, diventando un  oggetto riproducibile in repliche consumabili.

 

Per esempio, i bikers (che vivono nella passione per le grandi motociclette, come le Harley Davidson), gli appassionati della danza di strada, i punk, i gruppi afro o rasta possono essere considerati un modello per sé e in questo senso riservato a quanti lo adottano e lo professano nel loro proprio costume, ma per un altro verso possono essere usati come moduli o ingredienti di cui chiunque può appropriarsi combinando a piacere uno stile con l’altro, desocializzandoli e sottraendo loro gli elementi che ne impacciano la trasferibilità.

Il paradigma della rete, oggi, è particolarmente funzionale a definire lo spazio ideale della trasmissione di cultura nella post-modernità.

 

La rete, infatti, configura sistemi relazionali non gerarchici e multicentrici. 

 

Comunicare per mezzo delle reti, mediante i sistemi informatici, appare un muoversi in una dimensione di completa libertà aggregativa e questo fatto fornisce già di per sé una base efficace di definizione di una subcultura.

 

Le denominazioni oggi usuali (come il popolo di Internet, le autostrade elettroniche, i gruppi di discussione e così via) rinviano a una realtà etnografica atipica e importante.

 

L’antropologia che la studia sta riadattando da anni i suoi termini metodologici perché il terreno dell’inchiesta tende a spostarsi dallo spazio fisico del contatto diretto fra persone allo spazio immateriale della comunicazione per segnali che simulano la persona e le danno una nuova esistenza sostitutiva.


Torniamo al tema generale e sintetizziamo.

 

Le caratteristiche che definiscono la cultura nell’ambito dell’antropologia culturale sono principalmente tre:

 

– La cultura è appresa e non è riducibile alla dimensione biologica dell’uomo. Ad esempio il colore della pelle non è un tratto culturale bensì una caratteristica genetica.

 

– La cultura rappresenta la totalità dell’ambiente sociale e dell’habitat fisico (oggi anche digitale) opera dell’uomo.

 

– La cultura è condivisa all’interno di un gruppo o di una società e essa è distribuita in maniera omogenea all’interno di tale gruppo o società.

 

Va anche osservato che affinché un’azione o un tratto siano definiti “culturali” occorre che siano condivisi da un gruppo.

 

Ciò non vuol dire che un fenomeno culturale debba essere obbligatoriamente condiviso dalla totalità degli individui, anzi, se non si vuol cadere nel totalitarismo è necessario lasciare spazio per la normale dialettica individuale.

Un esempio.

Nella nostra società è un tratto culturale che gli individui adulti vivano separati dai genitori, ma non tutti lo fanno se non ne hanno il desiderio o i mezzi.

 

Ricordiamo che non tutti i fenomeni che accomunano i membri di una popolazione sono di ordine culturale, affinché un comportamento possa essere definito culturale deve essere appreso e condiviso.

 

Nutrirsi è una necessità umana, quindi non è un fenomeno culturale, lo sono invece le modalità di quest’atto che vengono apprese fin dall’infanzia e che variano notevolmente da cultura a cultura.

 

Va anche rilevato come gli uomini oppongono ancora una forte resistenza a cancellare quel rigido confine che hanno tracciato fin dall’antichità tra l’umano e l’animale.

 

Un confine che l’etologia ha da molti anni definito grossolano sotto molti punti di vista, a cominciare dalla capacità animale di esprimere sia emozioni primarie, come la paura o l’ira, che complesse come la compassione e l’empatia.

Oggi sappiamo che gli animali possono avere modelli di condotta sociale molto evoluti, ma scarsi tratti culturali, se si fa eccezione per alcune specie, come le scimmie antropomorfe. 

 

Diciamo che i meccanismi dell’apprendimento e dell’imitazione/emulazione sono essenziali solo alla specie umana, nel senso che la quasi totalità di essi sono forgiati culturalmente e non ereditati geneticamente.

 

Le scimmie antropomorfe, in genere, hanno una buona varietà di comportamenti consolidati e basilari appresi.

Molti di questi comportamenti derivano dalle cure materne, altri, più contingenti e mutevoli, derivano da come e dove sono cresciute.

 

Per esempio, gli scimpanzé nelle stazioni di primatologia spesso si abituano a chiedere caramelle o gelati con una certa consapevolezza di quello che fanno e del modo con cui lo fanno.

 

In linea generale la durata dell’infanzia di un animale sembra essere proporzionata al grado di dipendenza della sua sopravvivenza dai comportamenti appresi.

 

In questo senso l’infanzia dell’uomo appare, rispetto a quella degl’altri mammiferi, prolungata. 


L’espressione di infanzia prolungata, la dobbiamo ad un antropologo ungherese, al tempo stesso uno dei più brillanti allievi di Freud, Géza Róheim (1891-1953). 

 

Per questo antropologo la cultura può essere considerata l’esito di un ritardo, di un rallentamento o di un freno del processo di crescita o di prolungamento della situazione infantile.

 

Come sappiamo la durata della gestazione è un elemento che rivela la complessità dell’organismo e della sua organizzazione biologica. 

 

Per esempio, la gravidanza delle scimmie antropomorfe è di diversi mesi più lunga di quella della donna, che deve alla postura verticale la riduzione del passaggio pelvico e quindi la necessità di un parto anticipato.    

 

Il cucciolo dell’uomo è di fatto impotente per almeno una dozzina d’anni dal momento della sua nascita e spesso socialmente incapace fin oltre la pubertà, come dimostrano gli studi sulla famiglia.

 

Possiamo dire che il carattere dell’incompletezza dell’uomo al momento della nascita è quello più pronunciato tra i mammiferi.

 Cosa se ne deduce? 

Che nella storia dell’uomo l’ontogenesi ha un peso maggiore rispetto a tutti gli altri mammiferi, ma ci dice anche che la parte di quello che si acquisisce per trasmissione culturale è assolutamente più rilevante di tutto ciò che possiamo definire innato. 

 

L’ontogenesi è l’insieme dei processi mediante i quali si compie lo sviluppo biologico di un organismo vivente (dall’embrione allo stadio adulto. 

Dipende sia dal genoma che caratterizza l’organismo sia dall’ambiente nel quale il processo si svolge. 

 

Tale processo di sviluppo, per mezzo dell’informazione codificata nel patrimonio genetico (che presenta caratteristiche peculiari che differenziano ciascun essere vivente dall’altro), porta alla formazione di un individuo.

 

L’ontogenesi è spesso messa in relazione con la filogenesi, ovvero l’evoluzione propria della specie a cui appartiene il singolo organismo. 

 

Si dice spesso che “l’ontogenesi ricapitola la filogenesi”, questo perché negli animali superiori, l’ontogenesi riproduce, soprattutto nel periodo pre-natale, perinatale e nelle prime fasi della crescita, la filogenesi, come accade, per alcuni versi, nello sviluppo dell’essere umano.


Cosa è stato l’uomo?

È stato un animale feroce, oggi è cattivo.

 

Per centinaia di migliaia di anni si è nutrito di erbaggi, bacche e frutti, poi ha scoperto i vantaggi nutrizionali della dieta carnea e ha cominciato a contendere ai piccoli carnivori le carogne avanzate dai grandi mammiferi vertebrati.

 

Non ha denti robusti, né artigli.

Ci vede.  Ma non bene.  Non possiede una visione notturna.

Ci sente poco.  Non ha un odorato sviluppato.

 

Non ha neanche una muscolatura adatta alla predazione.

Non ha una capacità di corsa.

 

Con l’orina lasciava segnali che nessuna altra specie animale prendeva sul serio.

 

Viveva in piccoli gruppi.  Soffriva e soffre il freddo e il caldo eccessivi.  Aveva e ha bisogno di un ricovero notturno.

 

Facile alla paura è sempre stato costretto a ricorrere a una produzione simbolica per tenere sotto controllo i suoi fantasmi.

I più compensati, con l’evoluzione, divennero sciamani ed anche se le loro allucinazioni si scontravano con il reale impararono a tenerlo a bada, sviluppando una capacità immaginaria notevole.

 

Non conosciamo ancora le modalità evolutive di questo animale ad ominide, ma possiamo arguire che si verificarono due trasformazioni importanti nella struttura della sua vita di gruppo.

 

Da una parte, l’acquisizione del cibo diventò progressivamente un compito collettivo, dall’altra, questa acquisizione cominciò ad essere differenziata sulla base del sesso. 

 

La prima affermazione è una conseguenza della condizione di oggettiva inferiorità in cui si trovava l’individuo isolato che non aveva le capacità di performance dei predatori.

 

Qui, va da sé, non si tratta solo di strategie per migliorare la predazione, perché la caccia collettiva comporta molti elementi.

Implica, per cominciare, un sistema di comunicazione gestuale e orale che sia in grado di coordinare l’azione. 

 

In sub ordine, il rispetto di una gerarchia e l’obbedienza ad un leader, fatto che possiamo considerare naturale presso i primati.

 

Infine, c’è da apprezzare il formarsi di una distinzione tra il bisogno e la sua soddisfazione.

 

Vale a dire, di un catalogo di tattiche di caccia in relazione delle scelte che si operano, ma tutte fondate essenzialmente sulla voce e il pollice contrapposto alle altre dita, che consente alla mano di diventare assassina.

 

La differenziazione sessuale legata alla caccia è più controversa.

 

Certamente, sul piano funzionale, la disparità dei ruoli è più recente e, per certi versi, è uno stratagemma sociale attraverso la quale si strutturano il comando e le forme di potere.

 

Discende essenzialmente dall’infanzia protratta del cucciolo degli ominidi che obbliga la madre ad accudirlo per tempi molto lunghi.

07

Possiamo anche osservare che la caccia richiede, oltre all’attenzione, la vigilanza e la pazienza nel corso degli appostamenti.

Soprattutto richiede, è una condizione essenziale, l’elaborazione di codici vocali che devono essere condivisi, pena la compromissione del risultato.  

 

Da qui anche un altro aspetto dell’evoluzione umana, la specializzazione tra l’uomo cacciatore e la donna raccoglitrice e, in primis, l’organizzazione vocale degli scambi tra i gruppi perché il controllo del territorio, la savana, pericolosa quanto ricca di risorse, presupponeva delle azioni coordinate.

 

Esplorazione del territorio, mappatura dei luoghi, densità di rischio, concentrazione delle opportunità alimentari, socializzazione delle mappe, tutte operazioni che esigono una sincronia delle menti attraverso la voce. 

 

Diciamo, in estrema sintesi, che un buon controllo del territorio presupponeva per questo ominide una comunicazione sistematica che solo la voce gli consentiva.

 

La voce è unica e non ha niente a che vedere con il muggire dei bovidi, o il bramire delle alci, non è il blaterare dei cammelli, il belare degli ovini, il grugnire dei cinghiali, il barrire degli elefanti o il frinire delle cicale.

 

La voce ha consentito un salto di qualità nella connessione delle menti ed ha aperto il lungo cammino verso lo sviluppo del linguaggio verbale.

 

Il linguaggio, come frutto della voce, compare solo al termine di un processo evolutivo importante, l’abbassamento della laringe – che i nostri cugini scimpanzé e il resto della famiglia hanno ancora posizionato in alto nella gola – per dare spazio alla faringe.

 

La faringe – questa cassa di risonanza che consente una produzione di suoni ampia e diversificata – appare già progredita in resti fossili risalenti a circa un milione e mezzo di anni fa nell’Homo Erectus e risulta completata circa quattrocento mila anni fa con l’Homo Sapiens arcaico.

 

Un tale processo evolutivo della voce, che si stima durato circa due milioni di anni, ha consolidato il cosiddetto vantaggio pratico-operativo. 

 

Un vantaggio che ha generato una comunicazione sistematica, che portò da una comunicazione episodica e puntuale a una comunicazione allargata e ricca di potenzialità. 

***

Da questo stato di cose se ne deduce che un ruolo determinante nella vita degli uomini deriva dall’esperienza, perché con l’esperienza è possibile assecondare, contrastare, dirottare, modificare ciò che abbiamo ereditato biologicamente e culturalmente.

 

Da questi particolari caratteri della specie umana la psico-analisi ne evince che l’età adulta non è separabile dall’infanzia protratta, ma ne costituisce l’esito.

 

La nostra infanzia, insomma, può essere “superata”, ma non può essere “separata” da quel insieme di circostanze che chiamiamo vita.

Va da sé che anche le istituzioni sociali e culturali –che sono un prodotto dell’uomo – risultano in qualche modo condizionate dall’infanzia protratta.

 

L’infanzia protratta, tra l’altro, costringe il soggetto adulto a conservare certe attitudini infantili.

Lo si vede bene dove questa conservazione è più attiva, di fronte alle forme di pericolo, di fronte alle forme alimentari, di fronte ai processi emotivi.

 In questo senso, il pericolo, come il ricordo del cibo, infantilizza il comportamento adulto rivitalizzando l’angoscia.

In pratica, il pericolo, favorisce l’emergere di un comportamento che si può definire nevrotico.


Riprendiamo il tema principale.

Come abbiamo sottolineato parlando di cultura e dei comportamenti appresi e condivisi un grande aiuto agl’uomini arriva loro dalla lingua naturale e dal linguaggio simbolico.

 

Tutte le etnie o le popolazioni conosciute – a prescindere dal tipo di società – hanno un sistema complesso di comunicazione simbolica (detta linguaggio) e le proprietà simboliche del linguaggio hanno implicazioni fondamentali per la trasmissione della cultura, soprattutto della sua complessità. 

 

Ogni cultura poi ha le sue variabili individuali.

 

Possono essere molto ampie, ma devono restare circoscritte entro limiti accettati socialmente.

 

È il paradosso dei pantaloni da uomo nella nostra cultura, se fa molto caldo gli uomini possono togliersi la giacca e aprire qualche bottone della camicia, ma non togliersi i pantaloni. 

Così, di recente è nata una sorta di reazione culturale (frutto della globalizzazione): si è diffusa la moda dei pantaloni corti che li rende ridicoli, ma rispettosi di ciò che in qualche modo è giudicato da tutti come appropriato al caldo. 

Naturalmente con il tempo anche questo senso del ridicolo sarà riassorbito se questa moda persisterà. 

 

Diciamo che il principale limite alla variabilità del comportamento individuale è rappresentato dalla cultura stessa.

Il primo a aver studiato il carattere impositivo della cultura e il suo potere di coercizione è stato Émile Durkheim (1858-1917) che possiamo definire come il fondatore della sociologia moderna.

_

In genere non ci rendiamo conto delle imposizioni culturali perché ci conformiamo a esse facilmente, o per abitudine o perché le riteniamo logiche.

 

In antropologia gli standard che stabiliscono ciò che è accettabile si chiamano norme sociali.

In questo contesto norma è sinonimo di regola. 


Nella teoria di Émile Durkheim i fatti sociali costituiscono l’oggetto della ricerca sociologica. 

 

È considerato fatto sociale “qualsiasi maniera di fare, fissata o meno, suscettibile di esercitare sull’individuo una costrizione esteriore o, anche, un modo di fare, che è generale di una data società pur possedendo una esistenza propria, indipendente dalle sue manifestazioni individuali”. 

(Le Regole del metodo Sociologico, 1895)

 

Prima di proseguire vediamo come vanno intesi i concetti di normalità e di regolarità.

 

Per normalità dal punto di vista del comportamento s’intende o un comportamento ideale cui è auspicabile si rapportino i comportamenti concreti o, più spesso, il comportamento che si osserva con maggior frequenza in un gruppo davanti a una data situazione.  

 

Conseguentemente viene definito anormale il comportamento che non si uniforma all’ideale, ovvero il comportamento che non si uniforma a quello tenuto da una maggioranza statisticamente individuabile. 

 

Per regolarità, sempre dal punto di vista del comportamento, s’intende o il comportamento che si uniforma a delle regole, o il comportamento che si ripete uniformemente e prevedibilmente nel tempo.

 

Di conseguenza viene definito irregolare il comportamento che trasgredisce a delle regole, ovvero il comportamento che mantiene un andamento incostante e imprevedibile. 

Come è facile intuire il richiamo alle regole è più evidente nel primo caso, molto meno nel secondo.


 

Ritorniamo alle norme.

 

Le norme sociali possono essere dirette o indirette.

 

Quelle dirette sono quelle condivise  in modo ovvio.

Non s’infila la propria forchetta nel piatto del commensale che sta nel tavolo vicino a noi nel ristorante.  Non si mettono le dita nel naso, soprattutto se siamo a tavola o davanti a un estraneo.   

 

Quelle indirette sono meno ovvie, ma non per questo meno efficaci.


Di fatto la norma sociale è una regola esplicita o implicita che riguarda il comportamento dei membri di una società.

Oggetto di studio di molte discipline le norme sociali prescrivono come devono comportarsi gli individui e i gruppi sociali in determinate situazioni.

 

Nella società troviamo solitamente due tipi di norme.

 

Le norme costitutive hanno la funzione di costituire (cioè generare) una pratica che prima della loro formulazione non esisteva.

Rientrano tra queste ad esempio le regole dei giochi.

 

Le norme regolative si limitano a regolamentare delle pratiche già esistenti.

In questo tipo rientra la grande maggioranza delle norme, dai precetti religiosi alle leggi dello Stato.


Spostiamo ora la nostra attenzione verso un paradosso costituito dai modelli culturali ideali

 

Ogni società possiede una serie di valori e norme che stabiliscono come un individuo debba comportarsi o reagire emotivamente di fronte alle situazioni della vita.

 

Essi vengono continuamente riconfermati dalla cultura anche se non sempre gli individui si comportano in modo da rispettare gli standard che professano.

 

Se però osserviamo la società in cui viviamo costateremo che alcuni dei nostri modelli ideali non trovano riscontro nei comportamenti effettivi perché sono considerati superati o perché si fondono su abitudini oramai desuete. 

 

In altri casi i modelli ideali non si traducono mai in applicazioni concrete e restano al livello di semplice aspirazione.

 

Per comprendere la differenza tra la cultura ideale e la cultura reale può bastare pensare alla convinzione idealistica che tutti siamo uguali di fronte alla legge, oppure che tutti abbiamo le stesse possibilità di riuscire nella vita a prescindere dal reddito familiare o dall’importanza del proprio nome.

 

Una parentesi.

 C’è un piccolo modello culturale legato al comportamento di cui non ci rendiamo mai conto e che ricordiamo per l’importanza che ha per il corso di studi che frequentate.

 

È rappresentato dalla distanza interpersonale nella conversazione. 

 

È un comportamento che segue regole culturali inconsce, regole che diventano palesi quando si interagisce con persone che ne hanno di diverse.

 

Generalmente siamo imbarazzati se qualcuno si avvicina troppo a noi, (diciamo se viola il nostro self), allo stesso tempo siamo convinti che sia poco affidabile se mantiene troppo le distanze.


Prima di procedere spendiamo due parole sull’espressione di self, espressione con la quale nella lingua inglese si identifica l’identità dell’individuo nelle relazioni face to face

 

È un concetto molto usato anche in psicologia e in psicanalisi, da cui è stato mediato. 

È stato studiato in modo particolare da Didier Anzieu (1923-1999) un protagonista della psicoanalisi francese che scrisse qualche tempo fa un libro divenuto un classico sui confini del self, intitolato, Le moipeau (1985) (L’io-pelle)  

 

Perché è importante la nozione di self

Prima di tutto perché gioca un ruolo decisivo nel rapporto che noi abbiamo con il nostro corpo e il corpo degli altri. 

Non solo, perché il self caratterizza anche il modo con cui noi percepiamo la sostanza corporale con la quale siamo fatti e che non si limita a un po’ d’acqua, lipidi, aminoacidi, eccetera. 

 

La nostra esperienza della vita quotidiana ci dice che la percezione della nostra sostanza corporale cambia di contenuto davanti ai nostri occhi quando supera i limiti del self

In questo modo il self si è rivelato un concetto molto importante per studiare il gusto e il disgusto e il modo di percepire la prossimità con gli altri. 

 

Facciamo qualche esempio.

Noi non abbiamo disgusto della saliva che si trova nella nostra bocca, ma se la raccogliamo in un bicchiere molto difficilmente riusciremo a rimetterla in bocca e  inghiottirla. 

Perché? 

Perché quando le nostre secrezioni superano il limite del nostro iopelle ci diventano estranee, e simmetricamente, quelle degli altri ci provocano disgusto più si avvicinano a noi. 

 

É come se le vivessimo in modo intrusivo, è come se dovessimo difenderci da esse. 

 

La stessa cosa si può dire per il sangue, a noi non da fastidio succhiare il nostro sangue, che esce da un dito che ci siamo feriti affettando del pane, ma se questo sangue lo raccogliamo con una garza, difficilmente avremmo poi il coraggio di succhiarla. 

 

Di contro, il self diventa tollerante con le relazioni di vicinanza derivate da un’attrazione emotiva. 

 

Nelle relazioni intime il self diventa spesso un acceleratore dell’intimità, come nel caso della saliva del bambino che non è ripugnante agli occhi della madre, così come non lo sono le secrezioni dei nostri partner sessuali, ma che, attenzione, tornano ad esserlo se l’intimità viene spezzata da una separazione o da un litigio. 

 

Con il self, tra l’altro si possono spiegare anche molti dei meccanismi del feticismo, che trasformano la distanza e la familiarità degli oggetti che appartengono al soggetto amato.

 

In questo senso l’intimità come la tenerezza contaminano positivamente gli oggetti avvicinandoli a noi, facendoli diventare familiari, esattamente come il disgusto li allontana. 

 

L’identità soggettiva s’intreccia con un altro grande tema che abbiamo accennato, quello della contaminazione e serve a completare il paradigma della prossemica, intesa come quel capitolo della semiologia che studia il significato del comportamento umano (gesti, posizioni, distanze posture) dal punto di vista dei processi comunicativi. 

 

La prossemica è una disciplina che studia lo spazio e le distanze all’interno di una comunicazione sia verbale che non verbale. 

Li studia al fine di gestirli. 

 

Questo spazio può essere reale o immaginario, soggettivo o oggettivo, mentre le distanze possono essere fisiche, psicologiche, sociali, funzionali, culturali.

 05

Il termine fu coniato nel 1963 dall’antropologo americano Edward T. Hall ( 1914-2009) che lo usò nel suo libro La dimensione nascosta.  (La traduzione italiana è del 1968.)

Hall è stato per molti versi uno dei protagonisti degli studi culturali.

 

In breve Edward Hall notò che la distanza tra le persone è sempre correlata alla distanza fisica.

Partendo da questa osservazione definì quattro zone interpersonali. 

– La distanza intima che resta confinata entro i cinquanta centimetri. 

– La distanza personale compresa tra i cinquanta centimetri e il metro e trenta.  È la distanza che sviluppa l’interazione tra gli amici.

– La distanza sociale per la comunicazione tra conoscenti che va da un metro e mezzo ai tre metri e mezzo.  

– La distanza pubblica che si estende oltre i tre quattro metri e è quella delle pubbliche relazioni. 

Naturalmente non sono misure tassative, ma dipendono da molti fattori culturali, sociali ambientali. 

È ovvio che la distanza alla quale ci sentiamo a nostro agio cambia a seconda se siamo italiani, svedesi o giapponesi.  

 

Qualche curiosità. 

Gl’arabi tendono a stare molto vicini, quasi gomito a gomito. 

 

Gli orientali si sentono più a loro agio se sono oltre l’estensione del braccio. 

 

In India il sistema delle caste ha un complicato codice delle distanze che va fino all’intoccabilità.  In ogni modo i paria devono stare ad almeno trentanove metri dai bramini.  Anche il sesso determina la posizione. 

Gli uomini tendono a stare uno di fianco all’altro, le donne una di fronte all’altra. 

 

Quando gli europei salgono in un ascensore collettivo si dispongono appoggiandosi alle pareti, gli americani, invece, si mettono uno accanto all’altro con il viso rivolto alla porta. 


Ritorniamo alla nostra analisi del concetto di cultura.

 

La cultura, come abbiamo più volte osservato, è il risultato di un adattamento, ciò nonostante ci sono modelli culturali che – se in determinati contesti o momenti sono portati all’eccesso – possono ridurre la possibilità di sopravvivenza di una data società.

 

Molte etnie, tra cui alcune comunità della Nuova Guinea, considerano le donne impure e limitano il più possibile ogni contatto con esse.

 

Supponiamo che gli uomini di una di queste comunità decida di troncare qualunque contatto con esse.

Questa tribù è destinata a sparire nel giro di qualche generazione.

È un paradosso, ma ci serve per riflettere su un’altra cosa, le usanze che riducono le possibilità di sopravvivenza di una comunità, come in questo caso, o di una etnia, tendono anch’esse a scomparire

 

Di fatto, o le persone che vi rimangono fedeli si estinguono, portando con sé le usanze stesse, o queste persone vengono sostituite, permettendo alla popolazione di sopravvivere.

 

Qual è la morale?

 

Che le usanze non adattative – come sono in questo caso quelle che riducono le speranze di sopravvivenza – sono destinate a affievolirsi e poi a scomparire. 

 

I costumi di una società che invece favoriscono la sopravvivenza e il successo riproduttivo sono detti adattativi e hanno più possibilità di persistere e di rafforzarsi.  

 

Diciamo allora che quando si indagano le ragioni per cui una società possiede determinate usanze, in realtà, si sta valutando l’adattatività di queste alle particolari condizioni ambientali di quella società.

 

In questo senso, molti comportamenti culturali che possono apparire incomprensibili ai nostri occhi (alle nostre abitudini) si spiegano facilmente come la risposta di una società a determinate condizioni ambientali. 

 

Per noi occidentali sono sorprendenti alcuni tabù sessuali post partum caratteristici di alcune società che vietano alla donna ogni rapporto sessuale prima che il bambino abbia raggiunto un età compresa tra venti e trenta mesi.

 

Ma, nelle regioni tropicali questi tabù rappresentano una strategia che permette alla popolazione di adattarsi all’habitat

 

Se questi tabù non esistessero e la madre avesse un altro figlio, essa non potrebbe continuare né a allattare, né a accudire al primo figlio il quale, così trascurato, molto probabilmente soccomberebbe al kwashiorkor.

 

L’osservanza di questo tabù, dunque, offre ai neonati una maggiore probabilità di sopravvivenza. 

 

In sostanza, il prolungato tabù sessuale post partum può risultare una strategia o un’usanza adattativa in certi paesi tropicali, mentre potrebbe non essere altrettanto vantaggiosa in altre zone dove questa sindrome è assente e dove i costumi sessuali matrimoniali impongono la consumazione dell’atto.


La sindrome medica nota a livello internazionale come kwashiorkor, in Italia è più conosciuta come marasma infantile, è un tipo di malnutrizione che si ritiene comunemente causata da un insufficiente apporto di proteine, molto diffusa nell’Africa sub sahariana. Colpisce soprattutto i bambini in età compresa tra uno e quattro anni e compare spesso con la fine precoce dell’allattamento. 

Dopo lo svezzamento la dieta che rimpiazza il latte materno in molte zone del mondo è scarsa, ma può anche essere ricca di fibra alimentare e di carboidrati e essere deficiente di proteine, di ferro, acido folico, iodio, selenio e vitamina “C”, cioè di nutrienti con capacità antiossidanti. 

Il nome deriva da una delle lingue africane della costa del Ghana e significa “uno che è stato fottuto fisicamente”. 

Nota bene.  La prossima volta che in televisione vedrete dei bambini africani ricordatevi che se hanno un addome gonfio noto come pancia a pentola e una decolorazione rossiccia dei capelli essi molto probabilmente sono affetti dal kwashiorkor


Questo tabù ci rivela, in sub ordine, un’altra cosa, la mancanza di metodi per il controllo delle nascite…e tra le pieghe, un’indifferenza per i diritti delle donne a una giusta sessualità.

 

Cosa succederebbe, invece, se le donne occidentali osservassero un prolungato tabù sessuale post partum?

 

Va da se, è una domanda retorica perché – come abbiamo più volte sottolineato – le usanze di una cultura non possono facilmente venir trasferite a un’altra.

 

In ogni modo, una simile pratica tra le coppie occidentali influirebbe su molti aspetti della nostra cultura, come quello per il quale l’attività sessuale è ritenuta fondamentale per un matrimonio felice il cui secondo fine è porre rimedio alla concupiscenza .

 

Di più, con una simile usanza, la nostra società cambierebbe radicalmente e ciò anche in considerazione del fatto che la nostra cultura è fortemente integrata e coesa nella relazione tra uomini e donne.   

 

Che cosa significa?

Che gli elementi o i tratti che la costituiscono non rappresentano un semplice assortimento casuale di usanze, ma piuttosto si adattano e sono coerenti gli uni rispetto agli altri. 

 

Questo ci mostra come una delle ragioni per cui una cultura tende a essere integrata dipende anche dalla necessità di essere adattativa

 

O, in altri termini, una cultura tende a essere integrata quando gli atteggiamenti, i valori, gli ideali e le regole del comportamento sono immagazzinati nella mente di ciascuno. 

 

***************************************************************

Una nota su la cultura visiva e l’antropologia visuale.

 

Se consideriamo la definizione semiologica di Clifford Geertz (1975) si può intendere e definire la cultura come la rete dei significati condivisa dai membri di una società.

 

Clifford James Geertz (1926-2006) è stato un antropologo americano fautore di un’antropologia riflessiva che trae spunto da alcuni temi di ermeneutica riferibili a Paul Ricoeurs

 

Tali significati (o, temi culturali) vengono espressi attraverso dei codici comunicativi fondati su differenti modalità sensoriali e sulle loro combinazioni.

 

In quest’ottica il visivo è una delle dimensioni nella quale le culture trovano una loro espressione. 

Ogni cultura, infatti, è da subito visibile in un catalogo di segni inscritti sul corpo e sul paesaggio culturale.

 

I gesti, l’abbigliamento, gli ornamenti, le pitture, le deformazioni e le mutilazioni sacrificali, il tatuaggio, la cinesica, la prossemica, i riti, il teatro, costituiscono degli importanti veicoli visuali dell’espressione culturale.

 

Analogamente, il paesaggio viene organizzato e vissuto in modo da trasmettere determinati temi, attraverso la forma e la decorazione delle abitazioni, dei centri abitati, dei luoghi rituali, degli oggetti e degli utensili.

 

La natura stessa viene sistematicamente trasformata secondo forme che offrono una rappresentazione visiva della cultura che li ha prodotti.

In quest’ottica il paradigma dell’antropologia visuale è costituito dall’analisi delle manifestazioni visibili delle culture prese nel loro insieme. 

 

Molti autori si sono occupati di questo tema sotto diversi profili, tra gli altri, Maurice Merleau Ponty e Rudolf Arnheim.

 

In particolare, il paleontologo André LeroiGourhan (1911-1986) ha dedicato una parte del suo libro, Le geste et la parole (1964-65), ai comportamenti estetici e all’idea che essi precedano, nella storia dell’evoluzione umana, i comportamenti linguistici caratterizzandone una lunga fase.

 

Va anche notato che le espressioni visive non sono mai perfettamente riconducibili, né riducibili, alla dimensione verbale.

 

Esse mantengono sempre una loro ricchezza e allo stesso tempo un’indeterminatezza semantica che solo le forme di rappresentazione a loro volta basate sui linguaggi visivi possono riprodurre.

 

Un’antropologia visuale, dunque, non può che utilizzare i linguaggi non verbali, o non unicamente verbali, per rendere conto dei suoi oggetti di studio.

 

In quest’ambito si sono elaborate una serie di metodologie e di sistemi di rappresentazione fondati sulle tecniche di registrazione audiovisiva (fotografia, film, video, multimedia).

Tali tecniche possono essere utilizzate nelle varie fasi della ricerca antropologica, dalla raccolta alla presentazione dei dati, alla loro divulgazione nella didattica o presso un pubblico più ampio.

 

Le origini dell’antropologia visuale vengono fatte risalire alle origini stesse della fotografia e del cinema.

Fin dalla prima metà dell’Ottocento era infatti possibile reperire fotografie di argomento antropologico, mentre a partire dalla fine del secolo si cominciarono a produrre film etnografici.

 

Tra le prime fotografie considerate di argomento antropologico vanno ricordate quelle raccolte da Charles Robert Darwin (1809-1882) per il suo studio dell’espressione delle emozioni.

La collezione comprendente circa trecento fotografie, conservate presso i Darwin Archives a Cambridge, che Darwin aveva fatto scattare con l’intento di dimostrare la continuità tra la specie umana e i primati.

 

In Italia, nella seconda metà dell’Ottocento, il fisiologo Paolo Mantegazza (1831-1910), un divulgatore italiano delle teorie di Darwin, si fece promotore della fotografia etnografica, spingendo tra l’altro alcuni esploratori italiani, tra i quali lo zoologo Enrico Giglioli (1845-1909) e l’etnologo Lamberto Loria (1855-1913), a raccogliere le testimonianze fotografiche dei loro viaggi.

 

Le prime riprese cinematografiche di argomento antropologico sembrano addirittura aver anticipato di qualche mese la proiezione pubblica dei fratelli Lumière.

Si tratta di alcune sequenze realizzate da Félix-Louis Regnault (1863-1938), un fisiologo interessato allo studio del movimento umano.  In rete si può vedere il suo Chrono-Photographic shots del 1895.

 

Pochi anni più tardi le tecniche cinematografiche vennero impiegate nel corso della prima spedizione etnografica extraeuropea. Nel 1898-99 un gruppo di studiosi dell’università di Cambridge si recò infatti nello Stretto di Torres per svolgervi una serie di ricerche, corredate dalla raccolta di materiali visivi.

 

Fu Alfred Cort Haddon (1855-1940), biologo e organizzatore della Torres Straits Expedition, a prendersi l’incarico delle riprese che realizzò a dispetto delle difficoltà poste dalla tecnologia di allora.

In seguito, Haddon si fece promotore della diffusione delle tecniche fotografiche e cinematografiche nella ricerca antropologica, consigliandone l’uso a Baldwin Spencer (1860-1929) e a Francis James Gillen (1855-1912), che integrarono le loro importanti monografie sugli aborigeni australiani con moltissime fotografie.

Spencer realizzò inoltre alcune ore di riprese cinematografiche di danze e rituali aborigeni, registrando il sonoro su rulli di cera.

 

Questi primi tentativi di utilizzare documenti visivi si inquadrano nella fase positivistica dell’antropologia ottocentesca che si considerava una scienza naturale e propendeva per l’utilizzo di un metodo d’indagine di tipo scientifico.

 

In quest’ambito la passione per le nuove tecnologie portava a vedere nella fotografia e nel cinema delle tecniche utili a convalidare l’oggettività delle affermazioni antropologiche.

Le fotografie e le riprese cinematografiche erano infatti considerate documenti neutrali della realtà in quanto prodotte da un occhio meccanico.

In altri termini non si considerava importante l’’operazione di ristrutturazione della realtà effettuata, più o meno consapevolmente, da chiunque scatti una fotografia o realizzi una ripresa cinematografica, rendendo ogni documento visivo una sorta di testo soggettivo, un’interpretazione della realtà osservata.

Per gli antropologi vittoriani la fotografia e la ripresa cinematografica avevano inoltre il significato di raccogliere una documentazione relativa alla vita delle popolazioni esotiche, adatta a essere conservata nei musei etnografici, che allora erano considerati una sorta di laboratorio dove poter studiare in vitro le culture primitive.

 

La spedizione allo Stretto di Torres, come altre famose spedizioni antropologiche che vennero organizzate negli anni successivi, per esempio quella Dakar-Gibuti organizzata dal’etnologo Marcel Griaule (1898-1956), allievo di Marcel Mauss e titolare della prima cattedra di etnologia alla Sorbonne di Parigi, per conto del Museé de l’Homme di Parigi negli anni Trenta del Novecento aveva l’obiettivo di raccogliere specimen etnografici per i musei secondo il modello delle scienze naturali.

Possiamo dire che in questa fase della storia dell’antropologia, le fotografie e le riprese cinematografiche assunsero il significato di documenti tangibili da utilizzarsi come prove delle teorie antropologiche.

 

Per quanto connessa al clima positivistico dell’antropologia di fine Ottocento, tale impostazione è ancora presente nelle prospettive che considerano l’etnografia e la cinematografia etnografica discipline scientifiche oggettive, come emerge dalle riflessioni prodotte tra gli anni Sessanta e Settanta dall’Institut für den wissenschaftlichen Film di Göttingen.

 

In seguito, sarà lo sviluppo da parte di Bronisław Malinowski (1884-1942) della ricerca sul campo e dell’applicazione estensiva del metodo dell’osservazione partecipante, reso possibile dall’acquisizione da parte del ricercatore di opportune competenze linguistiche, a modificare profondamente la natura della ricerca antropologica.

 

La distanza tra osservatore e osservato e la parallela oggettivazione del primitivo verrà così abbandonata per un approccio mirato invece ad avvicinarsi il più possibile alla vita dei nativi.  Malinowski riassume questa innovazione teorica fondamentale nell’obiettivo di “afferrare il punto di vista dell’indigeno, il suo rapporto con la vita, di rendersi conto della sua visione del suo mondo” (1922).

 

La metafora ottica, qui utilizzata, non è del tutto casuale: esiste infatti, nell’etnografia di Malinowski, un interesse per ciò che egli definiva gli imponderabilia della vita reale, ovvero quei tratti imprevedibili della quotidianità e del vissuto, che in quanto tali sfuggono all’analisi e alla riflessione, ma possono invece essere resi in forma di descrizione, di immagine letteraria o anche di riproduzione fotografica.

 

Il tema degli imponderabilia ritorna nell’opera di altri due importanti protagonsti: Gregory Bateson (1904-1980) e Margaret Mead (1901-1978).

La prima monografia di Bateson, Naven (1936)  (Naven è un rituale di travestimento delle popolazioni Iatmul della Nuova Guinea), prende avvio da una riflessione relativa alla difficoltà incontrata dagli scienziati sociali nell’indagare quegli aspetti della vita che, invece, gli artisti colgono in maniera vivida seppur impressionistica.

Per Bateson tali aspetti riguardano in modo particolare il retroterra emotivo di una cultura, il suo ethos.

 

La difficoltà a registrare la dimensione emotiva nell’analisi culturale indusse Bateson e Mead a sperimentare un metodo d’indagine fondato sull’utilizzo sistematico della fotografia, di cui l’esempio più compiuto è costituito dall’opera Balinese character (1942), che analizza l’ethos balinese attraverso la giustapposizione e l’analisi di circa mille fotografie.

Con analoghi intenti Bateson e Mead realizzarono poi una serie di film documentari (complessivamente denominata Character formation in different cultures) che prendevano comparativamente in considerazione le determinazioni culturali di alcuni tratti psicologici.

 

L’approccio positivistico che vedeva nei film e nelle fotografie meri documenti per l’analisi antropologica lasciò posto a prospettive più complesse che riconoscevano la natura testuale dei prodotti visivi e le istanze degli autori in essi contenute.

 

L’opera di Jean Rouch (1917-2004), che è a ragione considerato uno dei protagonisti dell’antropologia visuale, può essere letta alla luce di questo mutamento di paradigma.

Etnologo, Rouch si dedicò alla regia cinematografica inventando uno stile personale, basato sull’esplicitazione del punto di vista dell’osservatore.

 

La presenza esplicita e percepibile dello sguardo che osserva consentiva a Rouch di trasformare l’etnografia da osservazione neutrale e scientifica dei fatti sociali a un dialogo a più voci tra l’etnografo e i suoi informatori.

03


Les Maïtre FousRouch realizza Les Maïtres fous, un importante documento filmico sui rituali di possessione Hauka, presso i popoli Songhai dell’Africa occidentale – rituali praticati a Accra dagli stessi emigranti di cui Rouch si era in precedenza occupato come filmmaker.  Sono divinità nuove, giunte dal mondo ancestrale in pieno periodo coloniale e è proprio di quest’ultimo che rappresentano, nel commento dello stesso Rouch, il catalizzatore e il rimedio. Il recupero della tradizione attraverso il rito di possessione e la trance è qui funzionale alla ricostruzione identitaria e religiosa, sentita come una necessità per reagire all’esperienza coloniale.  Lo schema dei riti di passaggio di Arnold Van Gennep è in questo filmato riprodotto perfettamente da Rouch nelle sue tre fasi principali.

 All’arrivo degli spiriti, che prendono possesso degli astanti, si definiscono i ruoli dei protagonisti della performance.  Gli esponenti dello stato maggiore dell’impero britannico, la moglie del dottore, la locomotiva e il camionista. Lentamente tutti i protagonisti, uno dopo l’altro, entrano nello stato alterato della trance e a questo punto mettono in scena una tavola rotonda dello stato maggiore inglese per decidere il da farsi. Un cane viene sacrificato, cucinato, smembrato e divorato dai protagonisti mentre diversi oggetti simbolici vengono offerti in sacrificio all’altarino del governatore.  Tra danze, canti, marce e discussioni che si svolgono in questo stato allucinato, la giornata trascorre fino a sera.  Solo a questo punto il primo spirito hauka decide di lasciare il corpo del suo posseduto, seguito dagli altri, così il gruppo rientra tranquillamente in città.  La mattina seguente, alla luce del sole, Rouch riprende la sequenza filmica con i suoi amici al lavoro, sorridenti e affaccendati, cui sovrappone i flashback con le immagini più forti e violente della sera prima.  I signori folli sono dunque gli Hauka, gli spiriti incarnati nei loro posseduti songhai, ma anche gli ufficiali dell’esercito inglese che agiscono in modo incomprensibile e violento. 

Anche dopo l’indipendenza, gli hauka continueranno a comparire nei rituali di possessione songhai, la loro funzione politica di resistenza al regime coloniale ormai esaurita si trasfonde nella dimensione più ampia di espressione ed emancipazione dai sentimenti più contrastanti e distruttivi, propria degli stati alterati di trance.


Tale innovazione costituì una fonte di stimolo per la cinematografia francese degli anni Sessanta, quando l’idea di un Cinéma vérité si diffuse tra alcuni autori della Nouvelle vague.

 

Fu soprattutto negli ambienti anglosassoni e statunitensi che l’antropologia visuale si sviluppò nel corso dell’ultimo trentennio del Novecento.

 

Gli atti della sezione visiva del IX International congress of anthropological and ethnological sciences, svoltosi a Chicago nel 1973, offrono un ampio spaccato del dibattito di quel periodo

I temi emergenti sono molteplici a partire dal momento in cui si è riconosciuto che gli oggetti della ricerca antropologica scaturiscono da un processo di enucleazione e costruzione di temi e problemi che coinvolge anche i membri delle popolazioni native, le possibilità di utilizzo dei mezzi visivi si sono espanse in direzioni diverse.

Il cineasta e antropologo australiano David McDougall ha sviluppato una tale prospettiva giungendo a teorizzare la possibilità di un cinema transculturale, che attraverso la condivisione della dimensione visiva possa superare, almeno in parte, le barriere che dividono le diverse culture.

 

Un’importante linea di sviluppo, a questo proposito, riguarda il sostegno alla realizzazione autonoma o la coproduzione di film e progetti visivi nativi.

 

Dopo i primi esperimenti condotti da Sol Worth e John Adair all’inizio degli anni Settanta del Novecento con un gruppo di Navajos, sono stati avviati vari progetti di trasferimento di tecnologie visive alle stesse comunità indigene, in modo da cercare di ottenere ciò che Malinowski auspicava, e cioè una rappresentazione della loro visione del mondo attraverso i loro stessi occhi.

 

Tra tali progetti va ricordato il film The Kayapo, out of the forest, realizzato nel 1987 da Terence Turner e Peter Connors per la serie Disappearing world.  In esso un gruppo di Indios della foresta amazzonica si impadronisce della tecnologia video per utilizzarla nella lotta contro la deforestazione.

 

 

TRE. COMUNICARE.

Comunicare, scambiarsi informazioni è un fatto che appartiene

alla natura.  Tener conto delle informazioni che ci vengono date è un fatto culturale. 

Johann Wolfgang Goethe.

 

C’è un mistero nella nostra condizione umana che non sappiamo spiegarci, né ricordare.

È quel momento della nostra infanzia in cui ci siamo resi conto per la prima volta che le parole hanno un significato.

Qui, l’espressione “nostra infanzia” vale sia in senso ontogenetico, cioè per la nostra storia di uomini, che filogenetico, per la nostra specie.

 

Questo momento ha avuto per la nostra condizione di umani un’importanza capitale perché significa non solo che abbiamo acquisito la lingua natale, ma che abbiamo sviluppato la possibilità di comprendere la produzione simbolica che da un senso alla cultura in cui viviamo.


Capitale culturale e capitale simbolico.

L’antropologia invita a riconoscere nella cultura una forma di capitale, che come ogni specie di capitale è distribuito in modo diseguale. 

In questo senso – come ha sottolineato Pierre Bourdieu – ogni proprietà individuale e collettiva può rappresentare una forma di capitale dal momento in cui funziona come un fattore distintivo. 

 

Per esempio, il colore della pelle o la religione sono forme di capitale, delle risorse cui, secondo la configurazione sociale, è riconosciuto più o meno un valore

 

Il valore di queste proprietà (o di questo capitale) dipende dalla storia e dallo stato del mercato in cui gli individui si trovano a competere. 

Quindi non è la proprietà in sé che funziona come un capitale, ma il modo in cui è socialmente percepita.

 

La dimensione del simbolico nel linguaggio è di fatto questo: il senso e il valore che le cose assumono per i soggetti.  

 

Ne consegue che la lotta intorno al simbolico (intorno alla rappresentazione della realtà) è fondamentale, anche nei conflitti apparentemente materiali.

Facciamo un esempio. 

Perché l’economia ci appaia importante, perché la Borsa Valori funzioni, bisogna che qualcuno creda nei titoli quotati in borsa, che qualcuno investa in essi. 

 

In altri termini, l’economico e il simbolico sono di fatto sempre intrecciati tra di loro e non c’è un solo fenomeno della vita che sia solo materiale. 

 

In questo contesto occorre distinguere il capitale culturaleoggettivato” –  come sono in particolare i titoli di studio – e il capitaleincorporato”, cioè il patrimonio culturale mentale, che non è ristretto solo ai saperi, ma anche agli schemi cognitivi, più o meno sofisticati, acquisiti nel corso dell’esistenza, e i loro modi di acquisizione. 

 

Nascere e crescere in un ambiente colto, per esempio, costituisce un vantaggio sociale decisivo, in quanto permette una precoce familiarità con la cultura dominante.

 

Si può dire che nelle società complesse e differenziate il volume del capitale culturale è un dato particolarmente importante, perché è ciò che consente di distinguere nella classe dominante due aspetti,  quello del potere economico e quello degli intellettuali, generalmente più ricchi di capitale culturale

In questo contesto il simbolico rappresenta tutto quello che ha a che fare con il ruolo del soggetto nella costruzione e nel funzionamento della realtà. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che i rapporti umani sono sempre, al tempo stesso, rapporti di forza e rapporti di senso.  Entrambi sono necessari per spiegare la realtà. 

 

Va aggiunto che ogni proprietà sociale nel momento in cui le è riconosciuto un valore è fonte di capitale simbolico

 

Una nota.

Possiamo definire Bourdieu uno strutturalista critico.

Di fatto egli condivide le tesi dello strutturalismo secondo cui nel mondo sociale vi sono strutture indipendenti dalla coscienza dell’individuo e dal suo volere, strutture che delimitano in modo specifico il comportamento dell’attore sociale.

 

Per Bourdieu gli individui possono costruire dei fenomeni sociali tramite il loro pensare e il loro agire, ma tale costruzione avviene sempre all’interno di una struttura che non può essere totalmente controllata. 

 

Per spiegare il rapporto che vincola l’individuo alla struttura, Bourdieu ha creato questa analogia: come la grammatica condiziona, ma non determina il nostro linguaggio, così la struttura condiziona, ma non determina il nostro agire. 

 

Per Bourdieu gli attori sociali non sono però automi che si conformano ai ruoli che la società impone.  Al contrario, essi godono di una certa libertà nell’agire, sono creativi e imprevedibili, e fanno uso di quel “senso pratico” grazie al quale possono adeguarsi alle situazioni più disparate.

 

Bourdieu nelle sue ricerche si concentra in modo particolare sui “principi generativi” coi quali gli individui costruiscono fenomeni sociali e culturali.

 

Egli è convinto, sulla scia di Karl Marx, che ciascuno di noi si muova all’interno di una certa ideologia a seconda della classe di appartenenza.

 

Bourdieu in particolare distingue tra quattro diversi tipi di capitale:

a – Capitale economico (denaro, mezzi di produzione)

b – Capitale sociale (reti sociali)

c – Capitale culturale (lingue, gusto, way of life, ecc)

d – Capitale simbolico (simboli di legittimazione).

 

Questi quattro tipi di capitale sono convertibili l’uno nell’altro, nel senso che chi ha la cultura (capitale culturale) può tradurla in denaro (capitale economico), e così via.

 

Sulla base di questa distinzione della forma di capitale, Bourdieu può distinguere diverse classi sociali.

Infatti, la distinzione marxiana tra borghesi (dominatori) e proletari (dominati), che nel tempo in cui fu pensata era sicuramente efficacie, oggi è del tutto inadeguata per comprendere una situazione sociale che si è fatta più complessa e dinamica.

 

La classe che sta più in alto, dice Bourdieu, è quella che ha tutti e quattro i tipi di capitale in misura maggiore: ma ciò non vuol dire che le classi siano gerarchiche e fisse come in Marx.

 

Le tre classi principali (classe alta, classe media, classe bassa) si dividono a loro volta in tre livelli interni: così, all’interno della classe alta, vi sarà un “gruppo” (milieu) alto, uno medio e uno basso; e così nelle altre due classi (la media e la bassa).

 

In particolare, per quel che riguarda la classe sociale alta, il gruppo alto è quello della borghesia con grande capitale economico; quello medio è quello dei professionisti e quello basso è quello degli intellettuali e degli artisti.

 

Alla luce di questa suddivisione, le classi tendono a sfumare le une nelle altre e a perdere quella rigidità con cui si configuravano nel marxismo tradizionale: così, il gruppo alto della classe alta può trovarsi a condividere interessi del gruppo alto della classe media.

 

Detto altrimenti, ci si trova in una situazione in cui si hanno comunità di interessi che prescindono dalle diversità di classe: di conseguenza, la stessa “lotta di classe”, che agli occhi di Marx si configurava come semplice scontro tra dominati e dominanti, diventa più complessa e meno definita nei suoi contorni.

 

Bourdieu insiste molto sul momento culturale: chi fa parte di una classe ha una certa visione del mondo, condivide certi costumi.

 

È ciò che chiama habitus, categoria nella quale rientrano, in definitiva, tutte le cose condivise in una certa classe (comportamenti, gusti, idee, giudizi).

 

Il concetto di habitus può essere definito come “un sistema di schemi percettivi, di pensiero e di azione acquisiti in maniera duratura e generati da condizioni oggettive, ma che tendono a persistere anche dopo il mutamento di queste condizioni”.

L’habitus, in quanto sistema di schemi, genera azioni coerenti relativamente al gruppo o alla classe di appartenenza.  L’habitus non è dunque né universale, né specifico a un individuo.

 

Secondo Bourdieu è l’elemento centrale della riproduzione sociale e culturale in quanto è capace di generare comportamenti regolari e attesi, che condizionano la vita sociale degli individui in relazione alla loro classe di appartenenza.

 

In questo senso l’habitus “non è un destino”, è piuttosto l’“inconscio collettivo” di una classe sociale.

Rispetto a Marx, la vera novità risiede nel fatto che la classe sociale non dipende soltanto dall’economia, ma anche dalla cultura, dall’estetica e dalla morale: a tal punto che gli stessi conflitti di gusto sono conflitti di classe.

 

In particolare, per Bourdieu, ci sono due diversi gusti: il “lusso” e la “estetica popolare”.

Il primo appartiene alla classe superiore e astrae dal momento economico; il secondo appartiene alla classe inferiore e ha a che fare con necessità materiali.


Torniamo in argomento.

Si può affermare che la comunicazione, verbale e non, è alla base delle società umane o, in generale, di ogni specie vivente.

Questa comunicazione è indispensabile sia alla creazione delle società umane che alle specie animali, è funzionale al loro mantenimento, ne determina i cambiamenti e ne segna profondamente l’identità.

Non è un caso che nella lingua latina communicare significa condividere, spartire ciò che è in comune, mettere insieme.

Per estensione possiamo dire che tutti i sistemi linguistici, per restare all’uomo, sono costituiti da simboli pubblicamente accettati attraverso i quali comunichiamo e condividiamo le nostre esperienze.

 

Va però rilevato che le parole non comunicano tutto ciò che sappiamo di una situazione e che la nostra capacità di comunicazione non è limitata al linguaggio.

01

Possiamo dire che ogni fatto, ogni pausa, ogni movimento che avviene all’interno di sistemi che hanno la caratteristica di essere vivi e sociali è anche allo stesso tempo un messaggio, questo comporta che il silenzio stesso è un processo comunicativo.   

 

In sostanza a un organismo o a una persona è impossibile non comunicare.

 

Qualcosa di analogo lo dicono anche la sociologia del linguaggio, la psicoanalisi e la musica d’avanguardia.

In antropologia, poi, il silenzio non solo ha un significato suo proprio, ma questo è addirittura più ampio e in genere possiede una natura interpretativa.

 

Per esempio, in India non si parla in pubblico, se non con molta riluttanza, della sessualità.

Ne consegue che l’antropologo o, il sessuologo, che studiano i costumi sessuali degli indiani, soprattutto nelle zone rurali, devono saper leggere il loro silenzio.

Non è una cosa di poco conto.

Questo silenzio, infatti, è stato e è ancora un ostacolo ai medici e ai ginecologi per combattere e ridurre la diffusione di molte infezioni di origine sessuale tra cui il virus dell’Hiv.

Agli antropologi di spiegarne le conseguenze sul piano sociale.

In India, come in Africa e altre parti del mondo, l’infezione da Hiv è ancora oggi epidemica.


L’espressione è il modo in cui si manifestano esteriormente, attraverso gli atteggiamenti del volto, i gesti e il movimento dell’intero corpo, le emozioni, gli stati d’animo e anche i tratti della personalità.

 

L’espressione rappresenta quindi una componente fondamentale della comunicazione umana che, volontariamente o involontariamente, rende espliciti anche altri aspetti importanti della persona.

 

Non per caso la ricerca sistematica delle analogie fra le forme di espressione della personalità costituisce un metodo di comprensione e di studio molto importante in semeiotica come in psicologia.

L’interazione interpersonale.  Il rapporto interattivo fra due persone può esprimersi attraverso la sincronia della parola e del movimento.

In genere nella comunicazione con gli altri è coinvolto tutto il corpo e i modelli generati con la parola corrispondono ai movimenti che si producono contestualmente.

Il corpo, tra l’altro, tende a coordinarsi non soltanto con i propri movimenti, ma anche con le espressioni verbali dell’interlocutore.

Persino quando la comunicazione verbale si deteriora e il fluire del discorso si interrompe, il livello di coordinazione interpersonale continua inalterato.

È stato verificato come in una coppia di individui interagenti ciascuno adatti il proprio comportamento per mantenere una certa sincronia con l’altro.

 

Muoversi insieme rappresenta un segno di comprensione interpersonale e l’esistenza di sentimenti positivi reciproci.

In questo senso l’espressione è movimento e il movimento è espressione.  In

sieme rappresentano degli efficaci mezzi di comunicazione.

 

C’è anche da osservare che non si tratta di un processo strutturato come un linguaggio.

Nel movimento e nell’espressione, infatti, non sembrano esservi strutture accessibili, direttamente capaci di determinate impressioni.

La comprensione dell’espressione si manifesta come un’elaborazione di basso profilo e rappresenta un processo che si svolge al di fuori della sfera della coscienza.

 

Lasciare affiorare le proprie intenzioni, del resto, non rappresenta sempre un vantaggio, perché aumenta le possibilità, per chi riceve i segnali, di utilizzarli negativamente.

 

D’altro lato, i segnali intenzionalmente ingannevoli o le bugie possono essere percepiti quasi esclusivamente sulla base di modifiche nella configurazione del movimento.

 

È stato dimostrato, per fare un esempio, come i sorrisi falsi abbiano una differente configurazione rispetto a quelli autentici e tendano a verificarsi in maniera asimmetrica.


Riprendiamo il discorso.

Va detto che la comunicazione non-verbale compare in tutte le culture conosciute.

In sostanza si può affermare che tutti gl’uomini comprendano le espressioni del volto pressappoco nello stesso modo.

 

Oltre ai test effettuati sul campo con l’uso di fotografie, abbiamo anche una prova indiretta che ci viene dall’arte.

 

Il volto rappresentato sulle tele, scolpito nel marmo o realizzato con una maschera sembra, in modo più o meno evidente, evocare sentimenti simili in molte culture diverse.

Abbiamo usato l’espressione “sembra” (o “appare”) perché la comunicazione non verbale è anche culturalmente variabile.

 

Variabile sia nel significato che assume, che nel tempo.

Molti gesti del corpo o delle mani possono risultare contradditori.

 

È noto che in alcune culture un movimento della testa in su e in giù significa “si”, in altre significa “no”.

In buona sostanza detto ciò la lingua parlata è ancora oggi il principale veicolo di trasmissione della cultura perché permette di condividere e tramandare la nostra complessa articolazione di atteggiamenti, credenze e modelli di comportamento, ma va osservato che la comunicazione visuale che si sta diffondendo velocemente grazie al digitale forse un giorno prenderà il posto della lingua parlata.

Quando?

In via teorica il giorno in cui, come è avvenuto con la scrittura, avrà sviluppato una propria ermeneutica, cioè, una vera e propria scienza dell’interpretazione…sia pure specialistica o di classe.

 

I sistemi di comunicazione non sono però un’esclusiva degl’esseri umani.

Molte specie animali hanno modi vari e complessi per comunicare, per esempio, con i suoni, l’odore o il movimento del corpo.

Ricordiamo che uno dei grandi dibattiti accademici del Novecento ha riguardato il modo in cui i primati comunicano.

In pratica si riteneva che solo la comunicazione umana fosse simbolica.

Oggi sappiamo che anche alcuni richiami delle scimmie antropomorfe (in particolare dei bonobo) nelle foreste possono essere considerati simbolici.

 

Ma che cosa significa che una comunicazione ha dei contenuti simbolici?

Prima di tutto che la comunicazione produce un significato anche in assenza di un referente, cioè di un elemento del mondo reale o di un concetto a cui un’espressione linguistica fa riferimento. 

 

In secondo luogo il significato è arbitrario, chi riceve la comunicazione non può coglierne il significato basandosi esclusivamente sui suoni né può conoscere per certo quel significato per via intuitiva. 

 

C’è però una differenza che possiamo ritenere significativa tra le vocalizzazioni umane e quelle dei primati.

I sistemi vocali dei primati sono chiusi.

Questo vuol dire che i differenti richiami non si combinano tra di loro per produrre nuovi significati o si combinano in modo primitivo.

Le lingue umane, al contrario, sono sistemi più o meno aperti e retti da complesse regole su come i diversi suoni possono essere combinati per produrre dei significati.

 

Un altro tratto che in qualche modo è peculiare al genere umano è l’abilità a comunicare intorno agli eventi passati e a quelli futuri.

Il che equivarrebbe a dire, per esclusione, che gli animali vivono in un eterno presente.

 

Di recente, però, si è costatato che i bonobo lasciano quelli che sembrano messaggi agli altri bonobo per indicare loro una pista, spezzando la vegetazione dove il sentiero si biforca e puntando le pianticelle rotte nella direzione da seguire.

 

Chiudiamo questa parentesi con un aneddoto.

Abbiamo detto che le scimmie antropomorfe possiedono la capacità di simboleggiare, cioè la capacità di riferirsi a qualcosa con un’etichetta arbitraria.

Il gorilla Koko, per esempio, un gorilla femmina nato nello zoo di San Francisco nel 1971, che conosceva più di mille segni dell’American Sign Language e riusciva a capire circa duemila parole dell’inglese parlato, era capace di estendere il segno di cannuccia per bere anche ai tubi di plastica, alle sigarette e alle antenne delle automobili.

 

Washoe, una scimpanzé femmina nata in Africa nel 1965 e catturata per essere addestrata per il programma spaziale americano – che in quegl’anni era agli esordi – aveva appresso dall’alfabeto dei segni il modo per dire sporco riferito alle feci.

Ma con grande sorpresa del primatologo Roger Fouts, uno dei suoi addestratori, Washoe imparò a insultarlo, quando era contrariata, associando il segno di sporco al nome Roger.

 

Nota.  Abbiamo accennato all’ASL – American Sign Language – da qualche tempo a questa parte nell’America del Nord è sempre più appreso come seconda lingua che serve come lingua universale.

******

 

Non sappiamo con precisione da quando l’uomo fa uso della lingua parlata. 

La data di trecentomila anni fa è attendibile, ma è solo da centomila anni che l’anatomia della bocca e della gola è identica a quella dell’uomo moderno.

 

Da un punto di vista antropologico la domanda più importante è:

Come ha fatto la selezione naturale a favorire il carattere aperto del linguaggio? 

 

Noi sappiamo che, sostanzialmente, tutte le lingue umane sono aperte.

Vale a dire, le articolazioni linguistiche vengono combinate in vari modi per produrre significati diversi.

 

In principio possiamo ipotizzare l’esistenza di un sistema basato sul richiamo che è presto evoluto verso un sistema basato su piccole unità sonore da collegare tra di loro secondo differenti combinazioni, in modo da formare enunciati significanti.

 

Noam Chomsky, filosofo americano e professore di linguistica al MIT (Massachusetts Institute of Technology) –  molto amato dagli studenti americani per le sue posizioni anarchiche e riconosciuto come l’ideatore della cosiddetta teoria della grammatica generativo-trasformazionale – sostiene che nel cervello esiste un dispositivo di acquisizione della lingua che nell’uomo è innato o, comunque, frutto di un lungo processo evolutivo, così come sono innati negli animali i sistemi di richiamo.

In pratica, tale dispositivo sarebbe diventato parte della nostra eredità biologica con l’evoluzione della parte frontale del cervello.

 

È una tesi che va completata con l’osservazione che lo sviluppo del linguaggio non è stato condizionato solo da fattori biologici.

Se così non fosse ci sarebbe una radice comune a tutte le lingue.

Al contrario gli studi sul campo hanno individuato più di quattromila lingue diverse, tra di loro incomprensibili. 

Più di duemila di esse si parlavano fino a pochi anni fa, molte delle quali da popolazioni che non possedevano una scrittura.

 

A questo proposito ricordiamo che per comprendere l’origine del linguaggio alcuni antropologi hanno provato a studiare le lingue delle società prive di scrittura, ma non hanno concluso nulla di definitivo, perché si è scoperto che queste lingue non sono né più semplici, né meno evolute di quelle che caratterizzano il mondo occidentale.

È come dire, per altri versi, che la presenza di tecnologie complesse non è un indice di una corrispondente complessità dei linguaggi.

Per semplificare: la lingua degli aborigeni australiani non è in grado di dare un nome ai sofisticati artefatti degli inglesi che hanno invaso la loro terra, l’Australia, ma ha le potenzialità per farlo.

 

Basterebbe considerare la proliferazione dei manufatti e degli artefatti nel cosiddetto terzo e quarto mondo.

Per artefatto qui intendiamo un’opera che deriva da un processo trasformativo intenzionale da parte dell’uomo.

 

In sostanza ogni cultura ha e può gestire un’estensione del vocabolario necessario alla popolazione che parla la lingua corrispondente e questa lingua si evolve in risposta ai cambiamenti culturali.

Il vocabolario, in questo senso, è l’inventario degli elementi che ogni cultura categorizza per dare un senso al mondo in cui vive.


Il vocabolario, vale a dire il complesso delle parole e delle locuzioni (sono gli enunciati grammaticali) di una lingua è detto anche lessico.

 

Il lessico di un individuo si distingue tra:

– un lessico passivo, costituito dal bagaglio lessicale che viene compreso tramite il senso, ma non utilizzato attivamente.

– un lessico attivo o, più precisamente, un lessico produttivo.

È il lessico che viene utilizzato mentre si parla, le sue possibilità di impiego sono così conosciute che vi si possono formare frasi sensibilmente comprensibili.

 

In genere basta un lessico ristretto, dalle quattrocento alle ottocento parole, per far fronte alle esigenze comunicative.

Per comprendere messaggi più complessi o leggere le comunicazioni standard, come sono i libri e i giornali, sono invece necessarie dalle quattromila alle cinquemila parole.

06


Prima di proseguire riassumiamo alcuni punti generali sul tema delle scritture.

 

La scrittura è stata sotto molti punti di vista una delle invenzioni più sorprendenti dell’uomo.

Essa ha consentito di poter trasmettere nello spazio e nel tempo conoscenze che difficilmente la memoria umana avrebbe potuto acquisire facilmente e velocemente.

 

Attualmente tutti i metodi di scrittura che esistono possono essere divisi in due grandi famiglie, quelle fonetiche (come è il nostro alfabeto) e quelle ideogrammatiche (di cui quella cinese ne è un esempio attuale).

 

I due metodi hanno vantaggi e svantaggi.

Ricordiamo che la scrittura fonetica deriva da quella ideogrammatica, ma non significa che essa ne rappresenti un’ evoluzione.  

 

Vediamo qualche caratteristica dei due sistemi.

Punti forti:

Semplicità. La scrittura fonetica è semplice da usare, in genere presenta da venti a cinquanta simboli con i quali è possibile creare qualsiasi suono che costituisce il proprio linguaggio e in modo abbastanza facile, come dimostra il suo apprendimento da parte dei bambini.

 

Velocità.  La grafia dei simboli fonetici è semplice, questo porta a una velocità maggiore rispetto a quelli ideogrammatici nello scrivere ogni singolo simbolo.

Attenzione, stiamo parlando della velocità di scrittura del singolo simbolo e non della scrittura di una parola, perché in questo caso dipende da parola a parola.

 

Leggibilità.  E’ possibile leggere con la scrittura fonetica anche una parola che non si è mai sentita, dato che i simboli identificano il suono e non la parola stessa.

 

Carenze:

Da come è scritta una parola non se ne può dedurre il significato.

Così, mentre la lettura risulta in qualche modo immediata non si può dire altrettanto della comprensione.

La visione di insieme non rende chiaro di cosa un testo stia parlando.

Se non si legge interamente non è possibile sapere di cosa esso tratti, ciò rende lenta la ricerca al suo interno.

 

Appiattimento della lingua.  Parole scritte allo stesso modo tendono ad assumere lo stesso significato nonostante non lo abbiano.

E’ vero che la scrittura dipende dalla lingua ma a volte è anche vero il contrario.

 

Di contro, molte cose che risultano come vantaggi del sistema fonetico sono svantaggi per quello ideogrammatico e viceversa.

Vantaggi:

Espressività. Grazie ad esse è possibile esprimere diverse ( e spesso personali) sfumature di parole simili utilizzando simboli diversi.

È una caratteristica tipica della scrittura giapponese, ma è presente anche in altri tipi di scrittura ideogrammatica.

 

Velocità di consultazione. Avere un simbolo che rappresenta un idea o un oggetto permette di individuare un argomento in una pagina scritta anche solo guardandola.

Svantaggi:

 

Complessità. La scrittura cinese presenta attorno agli ottantamila simboli, un individuo di cultura media ne conosce attorno ai tremila.

Per la scrittura giapponese il numero dei simboli non è di tanto differente, anche se il governo ha cercato di limitarli a circa duemila.

 

Necessità di precisione nella scrittura. Un ideogramma se è mal disegnato può assumere un significato diverso da quello voluto, quindi bisogna conoscerne bene i tratti che lo compongono per evitare di fare errori.

 

In termini antropologici la conclusione è che sia la scrittura ideogrammatica che quella fonetica presentano caratteristiche che le rendono entrambe uniche e funzionali. 

 

Per concludere segnaliamo una differenza significativa.

La scrittura ideogrammatica ha un’espressività che in parte manca alla scrittura fonetica.   

Quando si parla è naturale agire sull’espressività abbassando o alzando la voce, modificando il tono, i tratti facciali e agitando le mani.

Nella scrittura è difficile agire sull’espressività e è per questo che le scritture ideogrammatiche pongono una grande attenzione a rendere espressivi e unici gli ideogrammi.

Di contro, c’è da osservare che la semplicità della scrittura fonetica facilita la diffusione dell’istruzione.


È importante considerare il fatto che una lingua non è solo un insieme di suoni, è soprattutto un sistema organizzato di simboli, che esprimono pensieri e sentimenti del gruppo che la parla. 

L’inventario linguistico del nostro pianeta è molto vario e diversificato. 

 

Basti questo dato, il quattro per cento della popolazione parla circa il sessanta per cento delle lingue del mondo. 

 

Queste isole linguistiche sono perlopiù situate nelle regioni tropicali.

Non è casuale che siano le stesse isole che hanno un tasso di biodiversità maggiore.

A queste isole si contrappongono delle macro-regioni caratterizzate da una bassa intensità di stock linguistici.

 

In ogni modo il parlare è così congeniale alla specie umana che in molte culture il termine per indicare il parlare è proprio l’espressione di lingua, intesa come una parte importante dell’apparato fonatorio.

 

Le lingue non sono tutte antiche, da un punto di vista geo-storico alcune lingue si sono sviluppate anche di recente.

Sono quelle delle popolazioni che sono state oggetto di mire coloniali

 

Queste popolazioni – impiegate il più delle volte come schiavi o manodopera a basso costo – comunicavano con i loro “padroni” attraverso una sorta di versione pidgin – semplificata – della lingua degli oppressori.


Il pidgin è una lingua semplificata, nasce dal contatto tra una lingua straniera (specialmente una lingua europea coloniale) e una o più lingue indigene.  È usata nella comunicazione tra persone che non parlano ciascuno la lingua dell’altro (quando poi si estenda a un’intera comunità, può dare origine a una lingua creola).

 

Se sussistono le condizioni per cui un pidgin non si estingua o non resti eccessivamente limitato come numero dei parlanti, esso può assumere, nell’arco di poche generazioni, i connotati di lingua relativamente stabile, sviluppando una propria struttura sintattica. 

Questo fenomeno è definito di creolizzazione

 

Un pidgin, in genere,tende a evolvere in una lingua creola quando una generazione di genitori trasmette, in qualità di lingua madre, la conoscenza del pidgin ai propri figli.

In questo modo, le lingue creole possono subentrare al misto di lingue sin lì parlato, divenendo la prima lingua di una comunità.  La trasformazione dei pidgin in lingue creole è tuttavia piuttosto rara. 

 

All’inizio, la definizione di creolo fu applicata alle persone di origine europea nate nelle colonie, per distinguerle dagli immigrati di classe elevata nati in Europa. 

Da tempo si è diffusa tra i linguisti l’idea che le lingue creole non siano affatto inferiori alle altre e che le definizioni di lingue subordinate sia inappropriata.

Sarebbe come se considerassimo il francese un “latino degenerato” o un “dialetto spagnolo”. 

 

I linguisti oggi usano il termine lingua creola per qualsiasi lingua formata da lingue multiple senza restrizioni geografiche o implicazioni etniche. 

Le lingue pidgin, di solito, mancano di tasselli coesivi come sono le proposizioni e i verbi ausiliari.

Spesso nei film queste lingue vengono banalizzate con i verbi all’infinito.

 

Analizzando le lingue pidgin che si sono sviluppate dando origine alle cosiddette lingue creole è sembrato a alcuni antropologi di scorgere forti somiglianze grammaticali tra le lingue creole di tutto il mondo. 

Queste somiglianze sembrerebbero convalidare l’idea di una grammatica archetipa comune a tutti gl’uomini. 

Se così fosse, ma non è scientificamente dimostrato, le lingue creole potrebbero somigliare alle prime lingue umane. 

 

Perché ci siamo dilungati su questo tema?

Perché la lingua non è solo uno strumento per registrare la realtà, essa è molto di più, contribuisce a creare la realtà

Paradossalmente, chi possiede più lessemi possiede più realtà

(Ricordiamo a questo proposito una commedia di Dario Fo del 1969, L’operaio conosce 300 parole, il padrone 1000, per questo è lui il padrone).

 

In termini antropologici si può affermare, anche se sembra paradossale, che il mondo che  conosciamo come reale è anche una costruzione fondata sulle nostre usanze linguistiche.

 

Per questo molti antropologi ne deducono che sarebbero proprio le categorie linguistiche a determinare o almeno a orientare di fatto le rappresentazioni percettive e concettuali. 

In questo senso anche la schiavitù, che ha umiliato la condizione umana fino a un secolo fa circa, è – come il razzismo oggi – un effetto del linguaggio che identifica il colore della pelle con la condizione di uomini.

 

In sintesi, possiamo dire che abitiamo il mondo grazie a un linguaggio e, grazie a questo, interpretiamo e creiamo il mondo, perché il linguaggio vive tanto di aspetti formali quanto di aspetti performativi.

 

Prima di proseguire non possiamo non accennare a due lingue particolari.

L’esperanto e il grammelot.

L’esperanto è una lingua costruita a tavolino e sviluppata tra il 1872 e il 1887 dall’oftalmologo polacco di origini ebraiche Ludwik Lejzer Zamenhof.

È la più conosciuta e utilizzata tra le LAI.  Lingue ausiliarie internazionali.

 

Presentata nel Primo Libro (Unua Libro, 1887) come Lingvo Internacia (“lingua internazionale”), prese in seguito il nome esperanto (“colui che spera”, “sperante”) dallo pseudonimo di Doktoro Esperanto utilizzato dal suo creatore.

Scopo ideale di questa lingua era quello di far dialogare i popoli cercando di creare tra di essi comprensione e pace usando una seconda lingua, semplice e espressiva, appartenente all’umanità e non a un popolo.

Una lingua di pace che avrebbe potuto favorire il superamento delle incomprensioni.

In teoria un obiettivo secondario dell’esperanto sarebbe anche quello di proteggere gli idiomi “minori”, altrimenti condannati all’estinzione dalla forza delle lingue delle nazioni più forti.

Per questo e per altri motivi, l’esperanto è stato ed è spesso protagonista di dibattiti riguardanti la cosiddetta democrazia linguistica.


Il termine democrazia linguistica indica generalmente il diritto, proprio di ogni uomo, di parlare la propria lingua e vederla riconosciuta in ambito giuridico, oltre che avere la facoltà di trasmetterla ai propri figli e alle nuove generazioni. 

 

Inoltre, con l’espressione democrazia linguistica si sottolinea la volontà di comunicare a livello internazionale non con una lingua etnica (come attualmente può essere considerato l’inglese, generalmente adottato nei rapporti fra persone di culture diverse o che non parlano la stessa lingua), ma con una lingua neutrale, appartenente a tutta l’umanità, in modo che nessuna cultura o minoranza linguistica possa risentirsene o sentirsi svantaggiata. 


Le regole grammaticali dell’esperanto sono state scelte da quelle di varie lingue studiate da Zamenhof, affinché fossero semplici da imparare ma nel contempo potessero dare a questa lingua la stessa espressività di una lingua etnica.

Anche i vocaboli dell’esperanto derivano da idiomi preesistenti, alcuni (specie quelli introdotti di recente) da lingue non indoeuropee, come il giapponese.

Questi, tuttavia, tenendo conto anche della cultura e dell’epoca in cui è vissuto il suo ideatore, derivano in gran parte da latino, lingue romanze (in particolare italiano e francese), lingue germaniche (tedesco e inglese) e lingue slave (russo e polacco).

Vari studi hanno dimostrato che si tratta di una lingua semplice – che si può imparare anche da autodidatti e in età adulta – per via delle sue forme regolari.

Altri studi hanno dimostrano come i ragazzi che hanno studiato l’esperanto siano in grado di apprendere, crescendo, più facilmente un’altra lingua straniera.

 

Lo studio biennale dell’esperanto per i bambini o gli studenti delle scuole elementari, come propedeutico a una lingua straniera, viene detto metodo Paderborn.

Il nome deriva dalla città tedesca di Paderborn e dall’omonima università dove questo esperimento fu fatto per la prima volta.  Precisamente, da Helmar Frank, matematico e esperantista, dell’Istituto di Pedagogia Cibernetica.

 

Oggi l’esperanto appare come una lingua superata, ma di esso quello che conta è lo spirito e gli intenti che l’hanno animato e che in qualche modo molti gli riconobbero.

È in questo senso che a Milano una via porta il nome di Zamenhof, cosi come ci sono vie Zamenhof a Bologna, Modena, Vicenza e in altre città d’Italia.

 

Il grammelot o gramolot, la voce non è francese, ma d’origine imitativa.

Deriva molto probabilmente dal veneziano.

È di fatto uno strumento recitativo che assembla suoni, onomatopee, parole e foni privi di significato in un discorso.

02


In linguistica l’onomatopea è considerato un modo per arricchire le capacità espressive di una lingua mediante la creazione di elementi lessicali che vogliono suggerire acusticamente, con l’imitazione fonetica, l’oggetto o l’azione significata. 

Può consistere in un gruppo o in una successione di gruppi fonici (brrr, crac, bau bau,tic tac, din don dan), oppure in una serie di sillabe in unità grafica (patapum, tarattatà,chicchirichì), o anche in una successione di più complesse unità ritmiche, per esempio, interi versi, in questo caso costituiscono un accorgimento retorico comunemente detto armonia imitativa.


Gli attori di teatro e gli attori di circo utilizzavano e utilizzano il grammelot con il fine di farsi comprendere anche senza saper articolare frasi di senso compiuto in una lingua straniera, oppure per mettere in parodia parlate o personaggi stranieri.

Ciò che ne risulta è una recitazione fortemente espressiva e iperbolica.

 

Il linguaggio usato acquisisce inoltre un surplus di espressività musicale, in grado di comunicare emozioni e suggestioni.

Sembra che questo artificio recitativo sia stato utilizzato per primo dai giullari, dagli attori itineranti e dalle compagnie di comici della commedia dell’arte.

 

Questi professionisti dello spettacolo recitavano usando intrecci di lingue e dialetti diversi miste a parole inventate, affidando alla gestualità e alla mimica, quel tessuto connettivo che rendeva la comunicazione possibile a prescindere dalla lingua parlata dall’uditorio.

 

Un esempio di grammelot cinematografico è rappresentato dal monologo di Adenoid Hynkel nel film Il Grande Dittatore.

In tempi più recenti questo filone è stato recuperato da Dario Fo – non dimentichiamolo, premio Nobel per la letteratura, che lo ha valorizzato nuovamente, come ad esempio nell’opera Mistero buffo.

 

Ritorniamo per un attimo al linguaggio non verbale.

Nella nostra vita quotidiana utilizziamo spesso forme di linguaggio non-verbali, come strizzare l’occhio, gonfiare le guance, mimare con le dita della mano le forbici per dire a qualcuno di smetterla.

Va osservato che anche questo tipo di comunicazione è culturalmente caratterizzato.

Cioè, anche la gestualità è un “codice” da interpretare.

Per esempio, il gesto delle forbici, che in Occidente vuol dire tagliare o accorciare, in Giappone è considerato un invito a andare a mangiare qualcosa, visto che le dita mimano i chopstick.

 

Diciamo che il comportamento è nella sostanza un codice e di conseguenza è una forma di comunicazione.

Come ha teorizzato Erving Goffman la nostra vita è una forma di rappresentazione che corre su due piani paralleli.

Quello pubblico, che Goffman chiama frontstage dove l’attore – cioè, noi – mettiamo in scena il nostro io sociale, ciò che si vuole mostrare.

Poi c’è il backstage, dove l’attore torna a essere se stesso o s’illude di poterlo fare.

In breve la rappresentazione di noi stessi è un fatto culturale e rappresenta il frutto di una codificazione sociale.

La gestualità, la mimica, la lingua sono i pilastri di questo codice che spesso è un segno identitario, vale a dire un atteggiamento nel quale gli individui e i membri di un gruppo si riconoscono.

Nello specifico, il linguaggio del corpo è un aspetto importante della comunicazione non-verbale.

In quest’ambito si tende a interpretare, ai fini dell’interazione sociale, postura, gesti, movimenti,  espressioni e mimica che accompagnano o meno la parola, rendendo la comunicazione umana più esplicita e comunicativa.

 

Attraverso il linguaggio del corpo si può in molti casi arrivare a conoscere l’individuo nella sua interezza ed interiorità, sia che si usino o meno alcuni gesti o che si compiano determinati movimenti.

Come sappiamo a un attento osservatore la mimica, in generale, può rivelare i pensieri e le intuizioni altrui più delle parole.

 

In quest’ambito un linguaggio molto studiato è quello facciale.

Una delle prime ricerche su questo argomento è costituito dal saggio di Charles Darwin (1872) “The expression of the emotions” in Man and Animals.

Più vicino a noi un importante studioso di questo linguaggio è lo psicologo americano Paul Ekman, un pioniere nella ricerca sulle emozioni.

Nel suo libro I volti della Menzogna, ha elaborato tre elementi che consentono di leggere le emozioni del volto e capirle.  Sono:

L’asimmetria facciale.  Nelle espressioni facciali risultano coinvolte in modo asimmetrico le due metà del viso, ma normalmente se sono genuine su una metà l’espressione tende a essere più intensa che nell’altra.

Il tempo di durata.  Le espressioni veritiere durano pochi attimi (all’incirca 1/10 di secondo), mentre se vi è un’espressione tirata, che dura più di un secondo, questa probabilmente è una falsa emozione, eseguita volontariamente.

La collocazione nel discorso.  La mimica che accompagna le parole se è posticipata o anticipata non rispecchia quasi mai la reale espressione verbale.

 

In pratica, se una persona è arrabbiata e accompagna l’espressione di rabbia in diretta correlazione con le parole vuol dire che la persona è realmente arrabbiata.

 

Se, al contrario, i gesti di rabbia vengono dopo le parole se ne può dedurre che probabilmente la persona non è così in collera come vorrebbe far credere.


Il punto di partenza degli studi di Ekman sulle espressioni del viso sono state le ricerche dello psicologo americano Silvan Tomkins(1911-1991), autore di Emotion in the human face

 

Ekman ha dimostrato che, contrariamente alla convinzione di alcuni antropologi tra cui Margaret Mead, le espressioni facciali e le emozioni non sono determinate dalla cultura di un posto o dalle sue tradizioni, ma sono universali e uguali per tutto il mondo, ciò significa che sono di origine biologica

 

Nel 1972, studiando sul campo una tribù isolata dal mondo in Papua Nuova Guinea, registrò le espressioni di “base” universali: rabbia, disgusto, tristezza, gioia, paura, sorpresa.

 Poi, una ventina di anni dopo ampliò questa lista di emozioni aggiungendoci: divertimento, disprezzo, contentezza, imbarazzo, eccitazione, colpa, orgoglio, sollievo, soddisfazione, piacere sensoriale, vergogna

 

Ekman, con la collaborazione di Maureen O’Sullivan,docente di psicologia all’Università di San Francisco ha anche lavorato al Progetto Wizards nel corso del quale scoprì le microespressioni facciali. 

 

Queste microespressioni, com’è stato dimostrato, possono dare un contributo importante nel rivelare se una persona mente o meno.

 

Dopo aver testato quasi ventimila persone di tutti i ceti sociali arrivò a elaborare il Facial Action Coding System (FACS) per classificare ogni espressione del viso umano. 

 

Il suo lavoro sulla menzogna non è però limitato al viso, ma anche sull’osservazione del resto del corpo.  

Per questo nei suoi studi ha utilizzato anche la semiotica, la prossemica e la cinesica.

 

Attualmente le sue ricerche comprendono l’interpretazione delle radici della compassione, dell’altruismo, della serenità e dello spirito di collaborazione

Ekman ha lavorato anche intorno a un software di rilevamento delle emozioni chiamato Face Reader

La sua popolarità negli USA è così grande che i suoi esperimenti sono finiti in molte serie televisive. 


Il vocabolario del linguaggio del corpo è poi completato anche dai gesti.

 

Gesti che differiscono da cultura a cultura e gesti che cambiano con l’evolversi dell’età.

 

I gesti che variano da cultura a cultura sono quei gesti che col tempo sono diventati come una sorta di esperanto, anche se in alcune culture possono assumere un significato diverso.

 

Vediamo qualche esempio.

Il segno di “OK”, è diventato nel tempo okay, cioè l’equivalente di “tutto bene”, soprattutto nei paesi di lingua inglese.

In Europa e in Asia, però, ci sono alcune aree linguistiche in cui il segno “OK” assume il significato di “zero” o “niente”.

Questa espressione deriva infatti da un segnale che al termine di uno scontro armato serviva ai soldati per comunicare, a distanza, zero kills cioè’ “zero uccisioni” tra i nostri soldati.

In Giappone, poi, è un espressione gergale che vuol dire soldi.

 

Il pollice girato verso l’alto, in Australia, Inghilterra e Nuova Zelanda ha diversi significati, vuol dire: Va bene, è un segnale di autostop e è usato in senso ironico.  Di contro in Grecia è prevalentemente usato in senso dispregiativo.

 

Ci sono poi gesti che si modificano con l’evolversi dell’età dell’uomo.

È un buon esempio il gesto di un bambino che dice una bugia.

Egli tende a coprirsi la bocca con le mani.

Nell’adolescente il gesto cambia, la mano tocca appena con le dita la bocca.

Nell’adulto il gesto diventa più evoluto e raffinato la mano sfiora il naso.

 

In pratica il linguaggio del corpo ha una propria grammatica, va letto e interpretato rispettando tutta una sintassi composta da parole, frasi e punteggiatura.

Ogni movimento, in pratica, è come un lessema, assume un significato diverso a seconda dell’uso che se ne fa in una “frase” per cui, nell’analizzare un gesto va tenuto presente soprattutto il contesto in cui si esplica.

Sfregare le mani può avere un duplice significato.

Se il gesto è fatto in una giornata fredda significa che quella persona ha freddo.

Lo stesso gesto fatto da una persona mentre esprime un desiderio piacevole, risulta sinonimo di gioia, allegria, buon umore, soddisfazione.

 

Poi, oltre al contesto, bisogna tener presente anche lo spazio che il corpo occupa e con il quale comunica.

Ognuno di noi possiede un self, una percezione della propria identità soggettiva che dipende dalla cultura in cui si è cresciuti.

 

Per esempio, nella cultura orientale dove vi è un’alta densità di popolazione e gli spazi sono ristretti le distanze sono più ravvicinate, mentre molti occidentali, che vivono in ambienti aperti, amano mantenere le distanze.

 

Grossomodo nella cultura anglosassone abbiamo:

Un’area intima intesa come area che può essere occupata solo da persone con le quali si condivide un rapporto intimo (amici, genitori, amanti, ecc…).

Un’area personale intesa come la distanza che ci separa dagli altri (in un contesto quale può essere una riunione di lavoro, uscite, feste ecc…);

Un’area sociale ovvero la distanza fra noi e gli estranei.

Un’area pubblica cioè quella distanza che decidiamo di avere in un contesto pubblico.

Queste aree sono fondamentali per la moderna architettura d’interni e più in generale per il design. 

 

Nella cultura nord-americana, in particolare, lo studio del linguaggio del corpo è sempre stato molto popolare.

Interessanti, a questo proposito sono le osservazioni o le intuizioni di Ralph Waldo Emerson (1803-1882), un filosofo e scrittore americano, contenute nei saggi Manners (Maniere) del 1844 e Behavior (Contegno) del 1860.

 

Ricordiamo questo filosofo per due ragioni.  Perché fu molto amato dagli studenti americani degli anni’70 per le sue idee libertarie e perché ebbe in Nietzsche un suo grande lettore e estimatore. 

 

Nel secolo scorso lavorò sul linguaggio del corpo anche l’antropologo Ray Louis Birdwhistell (1918-1994).

A costui dobbiamo l’elaborazione della cinesica, una scienza che studia gli aspetti comunicativi appresi o eseguiti attraverso i movimenti del corpo.

Birdwhistell, rifacendosi alla linguistica descrittiva, sosteneva che tutti i movimenti del corpo hanno un senso (non essendo casuali), e che la grammatica di questo paralinguaggio si può analizzare analogamente al linguaggio verbale.

 

Ricordiamo poi Margaret Mead, e soprattutto Gregory Bateson, che portarono a termine molte ricerche sul linguaggio del corpo con l’esame di filmati che permettevano di portare alla luce aspetti poco evidenti dell’interazione sociale a livello non verbale.

 

Infine, un’osservazione da non sottovalutare, la lingua dei segni, utilizzata dai sordi o dai sordastri è una trascrizione della lingua parlata, dunque non è un modo di comunicazione non verbale, ma è un codice

 

(ANTROPOLOGIA CULTURALE – fine prima parte)