IED – ANTROPOLOGIA CULTURALE – ANNO ACCADEMICO 2015-2016.
(Documento scolastico a circolazione interna, non redazionato.)
Antropologia culturale 2015-16 (parte II) (versione PDF)
SECONDA PARTE.
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Il paesaggio, l’ambiente abitato.
Il paesaggio non fa ombra perché non è materiale,
è un frutto del mondo delle sensazioni.
La creazione del paesaggio richiedeva una lacerazione rispetto
al sentimento unitario della natura universale.
Georg Simmel.
Qualunque discorso sulla natura del paesaggio, in antropologia culturale, non può non partire dal saggio di Georg Simmel (1858-1918) sulla Filosofia del paesaggio (1913).
Il perché lo dobbiamo al grande sviluppo della filosofia dell’estetica dopo Immanuel Kant, di cui Simmel è stato uno dei protagonisti.
Georg Simmel (1858-1918) è stato un filosofo e un sociologo tedesco.
Ha analizzato gli eventi storici e culturali sia per come sono compresi e vissuti nella vita corrente, sia per come le loro figure sociali vengano costruite dall’interazione tra individui.
Oggi è considerato uno dei padri “fondatori” della sociologia moderna con Durkheim e Weber, anche se non è mai stato un caposcuola per la particolarità dei suoi punti di visti e la libertà del suo pensiero.
Le sue riflessioni sono state apprezzate con il tempo, tanto che può essere considerato uno degli autori di riferimento della Scuola di Chicago.
La sua influenza si scorge anche nella psicologia sociale di George Herbert Mead.
C’è poi da considerare la questione della centralità che il paesaggio ha acquisito nella cultura occidentale e l’importanza che esso ha assunto per lo sviluppo della nostra sensibilità estetica ambientale.
Questa centralità è una conseguenza del fatto che siamo passati da una società industriale a una società post-industriale nella quale ampi spazi di territorio che erano stati depauperati e abbandonati, assecondando la logica dello sviluppo industriale, si sono di nuovo resi disponibili per una riqualificazione.
Va infine considerato l’importante incremento del nomadismo culturale dovuto al turismo e ai nuovi stili di vita abitativi più o meno improntati alla mobilità.
Da tempo sappiamo che la percentuale di popolazione che vive nei centri urbani sta per superare, e in molte parti del mondo occidentale lo ha già fatto, quella residente nelle campagne.
Un fatto di grande rilevanza, perché il paesaggio moderno è soprattutto un’invenzione culturale degli inurbati e delle politiche di territorio, politiche che hanno favorito una nuova forma di polis che ha dato vita a una disseminazione degli insediamenti abitativi tale da rendere difficile fissare un confine netto tra queste due realtà.
La grandezza dei centri urbani non si calcola più solo sul numero dei residenti registrati all’anagrafe, ma sul flusso di quelli che ogni giorno usano la città e i suoi servizi pubblici o privati.
Ecco qualche esempio.
Per l’anagrafe Roma ha, oggi (2015), due milioni e novecentomila abitanti.
Milano, un milione e trecentocinquantamila.
Dal punto di vista dei flussi, invece, Milano ha sei milioni e settecentocinquanta mila abitanti, Roma quattro milioni e trecentocinquantamila abitanti.
Tra le capitali europee la prima è Londra – che si trova al ventiquattresimo posto nella classifica mondiale – la terza è Milano – che si trova al sessantunesimo posto – Roma è settima, ma scende al centottesimo posto. .
Sono dati del Population Data.net.
Sul piano della sensibilità la rivalutazione del paesaggio (nella cultura occidentale) passa anche attraverso una nuova interpretazione dello spazio antropizzato, che si accompagna a un rifiuto sempre più convinto della storica contrapposizione tra natura e artificio.
A rigore di termini un’altra cosa è la distinzione tra naturale e artificiale.
Se in passato non era difficile distinguere l’oggetto naturale da quello artificiale, nelle produzioni post-industriali, in particolare quelle frutto del biodigitale, non è più possibile coglierne visivamente la differenza.
Come è infatti possibile distinguere il mais, l’insetto, l’animale geneticamente modificato dai corrispondenti biotipi naturali?
Soprattutto, con che strumenti valutarli dal punto di vista dei rischi per il vivente?
Una curiosità. Artificio e natura è il titolo di un fortunato libro di Gillo Dorfles.
La prima edizione risale agli anni ’70 del secolo scorso, un edizione aggiornata alla luce anche del web è uscita nel 2003.
Tra le definizioni correnti di paesaggio quella che lo indica come una forma di natura percepita attraverso la cultura è la più diffusa, ma questo implica che per vedere un paesaggio ci vuole una riflessione consapevole, che non può limitarsi a considerarlo un semplice dato sensibile.
In altri termini, per vedere un paesaggio dobbiamo possederne un’idea a livello estetico, storico e ambientale o, più semplicemente, una coscienza.
Prima di proseguire va tenuto presente che il fenomeno paesaggistico è l’oggetto di riflessione di molte discipline ognuna delle quali lo impiega in una propria accezione, come è il caso della geografia, dell’ecologia, dell’estetica, dell’architettura e non da ultimo dell’antropologia.
Si deve anche costatare che nella tradizione culturale europea il concetto di paesaggio è nato e ha preso forma soprattutto come un concetto estetico.
La stessa storia della parola lo spiega.
Per cominciare si può notare come nelle lingue germaniche l’etimologia del termine è diversa da quelle neolatine.
Nelle prime la parola che significa paesaggio deriva da Land (terra, da cui Landschaft).
Di contro in francese, italiano e spagnolo la radice rinvia a paese, da cui paysage, paesaggio, paysaje.
Ancora, a differenza delle lingue germaniche, nelle lingue neolatine i termini che rimandono a paesaggio sono tutti neologismi che appaiono tra la fine del Quattrocento e la prima metà del Cinquecento, nati soprattutto per indicare non il paesaggio reale, ma la sua rappresentazione pittorica, vale a dire, il paesaggio dipinto.
Prima di procedere vediamo un’espressione che spesso si lega alla nozione di paesaggio, quella di panorama.
Questo termine deriva dal greco pan (che qui vuol dire tutto) e dal verbo greco io vedo.
Si riferisce, in genere, a un’ampia veduta di una certa area, per esempio, la veduta di una valle, di un ghiacciaio o di un lago, di una città da una posizione elevata.
C’è però un’altra accezione dell’espressione panorama, conosciuta anche come ciclorama, cosmorama o kosmorama.
Era uno tipo di intrattenimento molto popolare in Europa tra il XVIII e il XIX secolo.
Consisteva in una stanza circolare, con le pareti coperte da un disegno di una veduta a trecento sessanta gradi, che ricreava l’illusione di un paesaggio che circondava lo spettatore.
Il primo panorama fu costruito a Londra nel 1792 dal pittore Robert Barker che coniò anche la parola panorama.
Consisteva in una veduta della città di Londra realizzata in maniera tanto precisa e dettagliata che gli spettatori vi potevano individuare la strada se non addirittura l’edificio in cui abitavano.
Si calcola che tra il 1793 e il 1863 furono costruiti ben centoventisei panorama, spesso con altre denominazioni come diorama, moving panoramas, dissolving views, eccetera.
Alcune di queste vedute avevano effetti tridimensionali, altre, grazie all’uso di luci speciali, simulavano il passaggio dalla notte al giorno, altre ancora ruotavano o avevano dettagli in movimento.
Oltre a soggetti naturalistici, tra cui terre lontane e esotiche, monumenti e palazzi vari, erano molto popolari anche le ricostruzioni di battaglie (terrestri e navali), di disastri (come i terremoti o i maremoti) e di vedute fantastiche (con mostri immaginari).
I panorama sono ritenuti tra quelle forme di spettacolo di massa che precedettero l’invenzione del cinema.
Nella filosofia dei new–media i panorama hanno anticipato quello che oggi viene detto il piacere dello schermo, vale a dire, il fascino della rappresentazione.
Torniamo in argomento.
Per l’antropologia culturale il paesaggio, di per sé, è la particolare fisionomia di un luogo determinata dalle sue caratteristiche fisiche, antropiche, biologiche ed etniche.
In questo senso il paesaggio è di fatto legato alla sensibilità dall’osservatore e al modo con il quale viene percepito, interpretato e vissuto.
Per comprenderne il paradigma conviene partire dalla Convenzione Europea sul paesaggio che ha introdotto in Europa nuove modalità per la considerazione e la gestione della dimensione paesaggistica del territorio.
Questo approccio si caratterizza per aver attribuito al paesaggio la qualità di concetto giuridico, cioè di qualcosa che è possibile definire in modo autonomo, in pratica, di un patrimonio che può essere definito e deve essere tutelato.
Perché si è arrivati a questo riconoscimento?
Perché è stato individuato come uno degli elementi chiave per il benessere individuale e sociale, con la conseguenza che la sua salvaguardia, gestione e progettazione, comporta diritti, doveri e responsabilità individuali e politiche.
Da ciò è poi derivato un diritto al paesaggio sempre più sentito e difeso a livello di opinione pubblica.
In termini fenomenologici possiamo dire che il paesaggio configura la forma di un luogo, creata dall’azione cosciente e sistematica della comunità umana che ne ha preso possesso, sia in modo intensivo (come sono gli insediamenti urbani) che estensivo (come sono gli insediamenti agricoli o a basso tasso abitativo).
Insediamenti che interagiscono in profondità con l’ambiente e che concorrono a far emergere e a definire i segni della cultura che lo abita.
Sotto un altro punto di vista, l’espressione di paesaggio non costituisce più l’equivalente di un insieme armonico di bellezze naturali o storico-artistiche, ma rappresenta una delle componenti dell’ecosistema, specificatamente, la componente etico-culturale.
In questo modo – abbandonata l’antica equazione: bellezze naturali uguale paesaggio – l’accento si è spostato, dalla dimensione meramente estetica del territorio, al più complesso concetto di bene ambientale.
Pensato in questo modo il paesaggio si è progressivamente trasformato in un patrimonio (dunque, in un valore) che va riconosciuto, apprezzato e tutelato giuridicamente e economicamente.
Oggi quasi tutte le legislazioni dei paesi occidentali riconoscono al paesaggio la condizione di bene ambientale e culturale, ovvero di portatore di una sua specifica identità che riflette la sensibilità estetica di chi lo abita.
In ultima analisi si configura come un prodotto sociale che non rappresenta solo un bene statico, ma un più articolato patrimonio dinamico la cui valorizzazione è sempre più in relazione con l’azione dell’uomo.
Riassumendo.
La percezione del paesaggio è il frutto di un’interazione tra:
– la soggettività umana.
– i caratteri oggettivi dell’ambiente (antropici e/o naturali).
– i mediatori socio-culturali legati al senso di identità che una cultura riconosce in un dato momento a un determinato tipo di ambiente.
Ne consegue che il paesaggio di per sé non coincide più con l’immagine statica di un luogo, perché l’azione dei mediatori socio-culturali e della soggettività umana gli hanno attribuito la capacità di produrre senso.
Tutto ciò implica che un paesaggio racchiude nella sua rappresentazione sia la realtà materiale che l’apparenza di questa realtà.
Insieme – queste due realtà – consentono la sua estetizzazione e la sua story–telling.
In questo senso si può dire che il paesaggio va oggi considerato una forma di linguaggio o, meglio, non esiste un paesaggio senza una sua rappresentazione visuale-narrativa, attraverso la quale la cultura manifesta le proprie aspirazioni e partecipa al processo di scambio tra l’uomo, la natura e i congegni di mediazione tra queste due realtà.
Ha osservato qualche tempo fa Giuliana Andreotti (docente di architettura del paesaggio) in, Paesaggi culturali. Teoria e casi di studio (1996):
Il paesaggio non è soltanto qualcosa da costruire o tutelare, ma prima ancora qualcosa da riconoscere, percepire, ascoltare e descrivere.
Il paesaggio è (dunque) l’ipostasi (cioè, la sostanza o, se si preferisce, la vera essenza) della storia di un territorio.
In sintesi il paesaggio è un elemento sostanziale e illuminante della qualità della vita, dell’estetica e dell’architettura di un luogo, a tal punto che il progresso, la decadenza, la carestia, l’abbondanza, gli effetti della guerra o quelli della pace, la sua dimensione narratologica o mitologica sono inscritti nel suo profilo espressivo e sono interpretabili culturalmente.
Tutto questo non deve però farci dimenticare che questo concetto di paesaggio è un concetto moderno che corre parallelo alla logica delle forma di capitale.
Che la sua evoluzione è strettamente correlata con l’evoluzione del significato che la cultura assegna alla natura e all’economia dei beni immateriali.
Nei limiti della nostra analisi perché una società sia considerata paesaggistica deve soddisfare ai seguenti criteri:
– esistenza e uso del paesaggio in quanto paesaggio.
– esistenza di una letteratura sui paesaggi e sulla loro morfologia o, in sub ordine, sulle loro qualità estetiche.
– esistenza di rappresentazioni pittoriche di paesaggi (terrestri e marini).
– esistenza di parchi e giardini.
Questi criteri sono tracciati sulla falsariga di quelli che propose qualche anno fa il geografo francese Augustin Berque.
Oggi sono ritenuti in buona parte superati perché non possono essere generalizzati.
In linea generale si ritiene che ogni cultura abbia il diritto a elaborare i propri criteri di riconoscimento di una realtà paesaggistica a partire dalla propria sensibilità verso l’ambiente.
In ogni modo e in base ai criteri di Berque la prima società paesaggistica di una certa importanza fu la Cina, a partire dal quarto secolo dell’era comune.
In Europa bisognerà aspettare il sedicesimo secolo per trovare tutti questi elementi sufficientemente diffusi.
Una curiosità letteraria.
Gli studiosi fanno risalire la prima descrizione di un paesaggio a Francesco Petrarca (1304-1374).
Viene dedotta dal testo della sua famosa lettera sull’ascesa del monte Ventoso, in Provenza, oggi definito dall’Unesco una riserva di biosfera, soprattutto per la sua geologia e la sua flora.
Ascesa al Monte Ventoso. È una lettera scritta da Francesco Petrarca in latino, raccolta nelle Familiares (IV, 1). Narra l’ascesa del Mont Ventoux compiuta dal poeta e dal fratello Gherardo tra il 24 e il 26 aprile 1336. Per quanto rechi in calce l’indicazione Malaucena, 26 aprile 1336, molti studiosi hanno dimostrato come la composizione (o almeno una possibile rielaborazione) sia da posticipare al 1352 o al 1353. Il documento è indirizzato all’amico Dionigi di Borgo San Sepolcro, frate agostiniano e teologo che aveva regalato al Petrarca una copia delle Confessioni di Sant’Agostino, un’opera che influenzò molto il poeta e che nella lettera viene citata quando Francesco, giunto in vetta, ne legge un passaggio.
In tutti i casi, essendo il paesaggio un processo evolutivo e non un’entità immutabile nel tempo, il suo studio deve partire dal passato, ma deve soprattutto proiettarsi nel futuro o, almeno, in quello che le tendenze attuali suggeriscono che esso sia.
Va anche osservato che nell’ambito della narratologia paesaggistica, la geografia umana tende a privilegiare gli aspetti culturali, simbolici e emotivi.
Il paesaggio è l’esito di uno sguardo sul territorio che lo sguardo storicizza.
Le ricerche geografiche degli ultimi decenni del Ventesimo secolo hanno messo in luce l’impossibilità di definire in modo univoco il paesaggio, va tenuta presente per valutare il lavoro della Commissione Europea che lo ha analizzato, studiato è riassunto in un unico documento.
La Convenzione Europea del Paesaggio è un documento adottato dal Comitato dei Ministri della Cultura e dell’Ambiente del Consiglio d’Europa, riunitosi a Firenze nel luglio del 2000.
Questa convenzione è stata firmata dai ventisette Stati della Comunità Europea e ratificata da dieci, tra cui l’Italia nel 2006.
Oltre a concordare su una definizione di paesaggio la convenzione ha poi disposto i provvedimenti in tema di riconoscimento e tutela, che gli stati membri si impegnano ad applicare.
In questi provvedimenti sono definiti le politiche, gli obiettivi, la salvaguardia e la gestione relativi al patrimonio paesaggistico.
Patrimonio di cui è riconosciuta un’importanza culturale, ambientale, sociale, storica quale parte del patrimonio europeo e elemento fondamentale per garantire la qualità della vita delle popolazioni.
Come è facile costatare in questa definizione emerge la natura antropica del paesaggio, ovvero l’importanza ricoperta dal ruolo dell’azione umana.
Questo ruolo è descritto come l’aspetto formale, estetico e percettivo dell’ambiente e del territorio.
La Convenzione prevede, inoltre, la salvaguardia di tutti i paesaggi, indipendentemente da canoni prestabiliti di bellezza e/o originalità, e include espressamente:
“ …i paesaggi terrestri, le acque interne e marine, così come i paesaggi che possono essere considerati eccezionali, sia i paesaggi della vita quotidiana, sia i paesaggi degradati.” (Art. DUE).
Il concetto di paesaggio degradato è quello più interessante per l’antropologia culturale, sia per la complessità che per la varietà e, in prospettiva, per la sua futura gestione riabilitativa.
Si pensi solo agli habitat compromessi dall’uomo, con le guerre, le attività estrattive, la deforestazione, la costruzione delle infrastrutture di trasporto, l’inquinamento del suolo e dell’atmosfera, eccetera.
In sede scientifica è invece opportuno riconoscere la specificità di ogni approccio teorico, per metterne in luce la diversità, come prova la stessa storia dell’arte.
Possiamo dire che a partire dall’ultimo secolo della lunga stagione dell’arte bizantina (si è sviluppata in Europa tra il quarto secolo e il quindicesimo secolo) i pittori e gli artisti riservarono, in modo più o meno deliberato, una parte delle loro opere alla descrizione dello spazio e del paesaggio in cui si svolgeva la rappresentazione.
Tra di esse, a solo titolo di esempio, si può segnalare il magnifico affresco dell’Allegoria e Effetti del Buono e del Cattivo Governo (1338) di Ambrogio Lorenzetti (1290-1348).
In Italia, poi, le tecniche di rappresentazione pittorica cambiarono con l’arrivo dell’influenza della miniatura francese e della pittura fiamminga.
Nel senso che gli scorci paesistici divennero sempre più curati, in modo da evidenziare i soggetti in primo piano e rendere la composizione più monumentale, con il ricorso a scorci suggestivi e di ampio respiro.
La nascita del paesaggio, come genere autonomo, risale invece alla seconda metà del Quattrocento, tra i protagonisti di questa svolta vanno segnalati soprattutto Leonardo da Vinci (1452-1519) e Albrecht Dürer (1471-1528).
Non va però dimenticato come anche nei dipinti di Piero della Francesca (1412-1492) si riscontrano scorci ed inserti di paesaggio che fanno da sfondo (spesso psicologico) per la rappresentazione della figura umana collocata in primo piano.
È soprattutto con la Vergine delle rocce e la Gioconda di Leonardo da Vinci che il paesaggio fa un ulteriore passo in avanti nella pittura.
Entra nella sua scena figurativa non solo con la sua unicità naturale, ma anche la sua resa atmosferica, vale a dire l’aria diventa una cosa pittorica che si frappone tra i soggetti in primo piano e lo sfondo caricandolo di suggestioni.
Poi, nel 1508, Giorgione (1477-1510) dipingerà uno delle tele più belle della storia della pittura italiana, La tempesta.
Oggi è ritenuta la prima rappresentazione matura di un paesaggio che è al tempo stesso immaginato e reale, un’allegoria, per la presenza concomitante della natura, di un uomo (un soldato), di una donna con bambino, (espressione della fecondità e della vita che si rinnova), di una città (sullo sfondo) e della maestà della storia (rappresentata da alcuni resti archeologici).
Va anche detto che tra il Quattrocento e il Cinquecento, nella cosiddetta area fiamminga dell’Europa settentrionale, operarono molti specialisti della pittura di paesaggio, spesso con piccoli quadri di genere, destinati alla decorazione delle case borghesi, un’assoluta rivoluzione.
Nelle zone di lingua tedesca, dove la Riforma protestante aveva allontanato la popolazione dalla cultura cattolica romana e dalle sue immagini religiose, operarono i grandi interpreti del paesaggio nordico, come Dürer, i cui acquerelli di paesaggi alpini rivelano un profondo rapporto emotivo tra la figura dell’uomo, la sua opera e la natura.
A questi acquarelli si possono affiancare gli affreschi classicisti del bergamasco Polidoro da Caravaggio (un allievo di Raffaello) in S. Silvestro al Quirinale a Roma (1525).
Oltre al particolare interesse della pittura veneta per il paesaggio (Giovanni Bellini e Giorgione), è nel Seicento che questo diventò un genere autonomo, con l’affermazione del paesaggio ideale immaginato da artisti come Claude Lorrain, Annibale Carracci, il Domenichino, Nicolas Poussin.
Sempre nel Seicento si affermò nelle Fiandre anche uno stile realista, che rappresentò con grande verosimiglianza la terra e il mare olandesi.
Nel Settecento, poi, in tutta l’Europa il paesaggismo divenne una moda aristocratica che fece da contraltare alla pittura libertina. Soprattutto in Gran Bretagna, dove operarono schiere di artisti, tra i quali i più celebri e celebrati sono John Constable e William Turner.
E’ importante notare che l’interesse per la pittura di paesaggio andò di pari passo con l’affermazione dell’estetica nella filosofica moderna, che aveva scoperto e teorizzava il cosiddetto sentimento del sublime.
L’estetica è un capitolo della filosofia che si occupa della conoscenza del bello naturale, artistico e scientifico. Di riflesso delle forme del giudizio morale e spirituale.
Il filosofo tedesco Alexander Gottlieb Baumgarten pubblicò nel 1750 un saggio intitolato Aesthetica, usando un termine da lui coniato nel 1735 con le Meditazioni filosofiche su argomenti concernenti la poesia.
La parola aesthetica ha origine dalla parola greca che significa “sensazione”, e da un verbo che significa “percepire attraverso la mediazione del senso”. In origine l’estetica non era una parte a sé stante della filosofia, ma un aspetto della conoscenza che riguarda i sensi e le sensazioni.
Nel corso dell’Ottocento si ricercò nel paesaggio vissuto soprattutto un significato e un legame con la propria cultura.
Nei paesi di lingua tedesca, i maggiori artisti si dedicarono quasi esclusivamente a dipingere la natura, questa scelta ebbe anche un significato politico (inverato dal Romanticismo tedesco), poiché era orientata (polemicamente) contro il classicismo accademico francese.
In ogni modo, a partire dalla metà dell’800, in Francia, i pittori di paesaggio diffusero la pratica della pittura all’aria aperta (en plein air), da cui si svilupperà l’impressionismo.
Sono i pittori della Scuola di Barbizon.
Grazie anche alla disponibilità dei colori in tubetto e all’invenzione inglese dei pennelli piatti, muniti di una corona metallica, uscirono dagli atelier e affrontarono la natura dal vivo, con le sue mutevoli luci e atmosfere.
Soprattutto il pennello piatto (che si ottiene schiacciando la corona metallica a uno tondo) fu una piccola/grande rivoluzione che permise all’impressionismo di inventare uno stile costituito da pennellate larghe e strisciate, impossibili con i pennelli rotondi con la corona in pelle, com’erano stati costruiti fino a allora.
Uno stile che ebbe la sua apoteosi tecnica con Paul Cézanne.
A questo proposito occorre ricordare il celebre ciclo di circa trenta dipinti composto tra il 1892 e 1894 da Claude Monet.
Monet dipinse la facciata della cattedrale di Rouen nei diversi orari della giornata e dell’anno (diverse luci, diversi colori, diverse stagioni rappresentate), sottolineando e lavorando sulle differenze cromatiche. In questo modo il soggetto di questi dipinti, la cattedrale, divenne tanto importante quanto la luce stessa.
La luce, come gli artisti sanno bene, è difficile da catturare se non altro perché è in continuo mutamento.
Ma l’abilità impressionistica di Monet vince queste difficoltà, l’intreccio dei colori e l’uso brillante delle texture gli servirono a creare una serie di immagini cangianti di luce e colore, facendone dei capolavori.
Dopo l’impressionismo, come racconta la piccola storia, le ricerche degli artisti d’avanguardia misero in crisi i generi pittorici. Il paesaggismo fu superato dall’attenzione al linguaggio, ossia al modo in cui il soggetto è rappresentato.
O, come diceva Marcel Duchamp, il suo superamento è un effetto della crisi della pittura retinica…o della sua bulimia.
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Vediamo adesso il paesaggio in una prospettiva più fenomenologica.
Come abbiamo già ricordato molti studiosi si sono occupati della forma di paesaggio, tra i primi spicca il lavoro di Georg Simmel.
Nel saggio Philosophie der Landschaft, scritto da Simmel tra il 1912 e 1913, l’idea di paesaggio è anzitutto presentata distinguendola accuratamente da quella di natura.
Il paesaggio, scrive Simmel, non può essere considerato natura.
Natura è “l’infinita connessione delle cose, l’ininterrotta nascita e distruzione delle forme, l’unità fluttuante dell’accadere che si esprime nella continuità temporale e spaziale.”, è “un’unità priva di contorni” che nel suo senso più profondo ignora l’individualità, in quanto non ha parti.
Natura è quel infinito e indifferenziato fluire, segnato dall’idea di continuità e dell’assenza di profili definiti e precisi, cioè dall’assenza di forme.
Paesaggio invece è una delimitazione del tutto, finita e dinamica della natura.
“La natura. che nel proprio essere e nel proprio senso più profondo ignora l’individualità, viene trasformata nella individualità del paesaggio dallo sguardo dell’uomo, che divide e configura in unità distinte ciò che ha diviso”.
Dunque il paesaggio si staglia all’interno dell’infinità della natura come un organismo o un’opera d’arte, come un mondo a parte strutturato intorno a un significato.
La natura in questo senso costituisce il presupposto del paesaggio, lo sfondo che ne disegna il contesto metafisico e che, di conseguenza, conferisce al paesaggio quell’elemento spirituale che esso ha in comune con l’opera d’arte.
Per Simmel la particolare forma di unità rappresentata dal paesaggio presuppone una vera e propria lacerazione (Losreissen) storica (avvenuta nella modernità) del sentimento unitario della natura universale.
Si tratta di una rottura, di una scissione (Spaltung) che avviene a livello del vissuto dell’uomo, e non solo di una delimitazione spaziale, di un orizzonte fisico che il paesaggio (per definizione) presuppone.
L’idea di fondo di Simmel (molto positiva e laica) è che il paesaggio nella modernità nasce quando si avvertono come limitanti i legami originari con la natura, quando le relazioni con essa diventano un freno per la formazione della personalità individuale.
Solo in conseguenza di questo disagio si da la possibilità e l’esigenza di godere della natura nella sua forma individuale di paesaggio.
In un certo senso è per questo che la storia del bello naturale racconta che si ama sempre la natura che si è perduta.
Al contrario, è proprio la stretta relazione dell’uomo dell’antichità con la natura che impedisce (all’interno della cultura classica) che si formi l’idea di paesaggio, di cui manca anche la parola.
Bella, nel mondo antico, è la natura nel suo insieme, intesa come un cosmo ordinato, retto da leggi geometriche conoscibili, da simmetrie ed equilibri razionali, entro i quali l’individuo si riconosce e si riflette come parte.
Diciamo che il paesaggio per Simmel ha l’impronta della natura, ma al tempo stesso, è più che natura, è un costrutto culturale che la trascende senza rinnegarla.
In questo modo il paesaggio (di per se) non è nulla di fisico, niente di dato e di oggettivo.
Ciò che esiste è solo la natura nei suoi infiniti elementi non unificati, che divengono degli interi (delle Gestalt) se lo sguardo dell’uomo ne inventa l’elemento spirituale e lo rende reale.
Per questo non possiamo toccare un paesaggio, o camminarci attraverso, dice Simmel, è una forma astratta (spirituale), è l’esito dell’attribuzione di un significato, vive solo in relazione con l’uomo e diventa tale solo in esso.
Se ogni paesaggio è frutto della proiezione di schemi e di modelli artistici che negano la sua esistenza oggettiva, allora non esiste nessuna regola assoluta che ci consenta di distinguere un paesaggio da un non paesaggio, se non in chiave ideologica o storica.
Paradossalmente non è l’arte a imitare la natura, ma la natura a imitare l’arte, non ci sono nella cultura occidentale dei criteri oggettivi che sanciscano o escludano il valore estetico delle diverse parti della natura.
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Il Patrimonio Culturale Immateriale.
In passato, sia in antropologia culturale che nell’ambito delle grandi organizzazioni transnazionali come l’UNESCO si distinguevano, per consuetudine, due generi di patrimonio, quello culturale e quello naturale.
Da circa un paio di decenni a questa parte questa distinzione è stata rivista e trasformata.
E’ prevalsa la tendenza a definire il patrimonio culturale nel suo significato più ampio, come ciò che comprende sia le risorse materiali (dette tangibili) che quelle immateriali.
In questo modo si può definire come patrimonio materiale un monumento, un insieme di artefatti o di edifici, un sito, il cui valore è storico, estetico, archeologico, scientifico, etnologico, antropologico o tutte queste cose insieme.
Così definito il patrimonio materiale comprende, per fare qualche esempio, un luogo come Angkor Wat, in Cambogia, (con il suo complesso di templi), il carcere di Città del Capo, in Sud Africa (dove fu rinchiuso Nelson Mandela per ventisei anni), l’antico sito precolombiano di Piramidi di Teotihuacan vicino a Città del Messico, la miniera di sale di Wieliczka non lontana da Cracovia.
Il patrimonio naturale, di contro, è definito come l’insieme dei tratti geologici, biologici, fisici di rilevante importanza.
Esso comprende gli habitat botanici o le specie animali minacciati, le aree significative dal punto di vista scientifico o estetico – come abbiamo visto sono i paesaggi – o che debbono essere tutelate o conservate.
In questo modo il patrimonio naturale include luoghi come il Mar Rosso, il parco del monte Kenia, il Gran Canyon, l’area della grande Amazzonia nel Brasile centrale.
Come abbiamo accennato nella Convenzione del 1972 dell’UNESCO sui patrimoni culturali si prendevano in considerazione unicamente i beni materiali.
In seguito gl’antropologi e gli etnologi richiamarono l’attenzione anche sugli aspetti intangibili della cultura, allo scopo di promuovere la ricchezza delle diversità culturali in qualsiasi forma e espressione.
In questa direzione nel 1989 fu stilata una raccomandazione per la salvaguardia della cultura tradizionale e del folclore.
A proposito dell’antropologia culturale italiana e soprattutto del folclore – come espressione delle tradizioni contadine e popolari – vale la pena di ricordare ciò che scrive nei Quaderni del carcere Antonio Gramsci(1904-1937).
Egli è stato il primo a ridiscutere la concezione del folclore appiattita sulla ricerca del pittoresco per considerarlo, invece, come un indice della mentalità dei popoli e delle loro divisioni in classi capace di portare alla luce una nuova concezione della rappresentatività.
In altri termini, con Gramsci l’unicità, la diversità, la pluralità delle identità cominciarono a essere considerate come ciò che definiscono l’umanità e ne disegnano la specifica rappresentatività.
Questa raccomandazione del 1989 afferma testualmente:
Come fonte di scambio, di innovazione e creatività, la diversità culturale è necessaria per l’uomo quanto la biodiversità per la natura, per questo dovrebbe essere riconosciuta e affermata per il bene delle generazioni presenti e future.
Nell’ottobre del 2003 a Parigi fu poi stilata la Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale.
All’articolo due questa Convenzione definisce il patrimonio culturale immateriale come la prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how – come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti, e gli spazi culturali associati agli stessi – che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale.
Ma come si esprime il patrimonio culturale immateriale?
Sono stati elaborati cinque punti.
– attraverso le tradizioni e le espressioni orali, compreso il linguaggio in quanto veicolo del patrimonio culturale immateriale. In Africa un proverbio afferma che quando muore un vecchio un’intera biblioteca sparisce.
– attraverso le arti dello spettacolo.
– attraverso le consuetudini sociali, gli eventi rituali e festivi.
– attraverso le cognizioni e le prassi relative alla natura dell’universo.
– attraverso l’artigianato tradizionale.
In estrema sintesi si può affermare che, al pari del patrimonio materiale, il patrimonio immateriale è cultura.
Al pari di quello naturale, è un insieme vivente paragonabile a un organismo.
Per comprenderci possiamo dire che intorno a noi vive e pulsa in ogni momento una rete di storie, di saperi, di tradizioni e usanze che contribuiscono alla costruzione della nostra visione del mondo e della nostra identità.
In una prospettiva pratico-descrittiva ciò che compone un patrimonio immateriale deve essere:
1 – Riconosciuto come facente parte del patrimonio culturale per una comunità o per un gruppo di individui.
2 – Deve essere trasmesso da generazione a generazione.
3 – Deve essere creato e ricreato in continuazione da una comunità o da un gruppo d’individui interagendo con l’ambiente e la loro storia.
4 – Deve generare un sentimento di identità e di continuità.
5 – Non deve essere in contrasto con i diritti dell’uomo così come sono stati elaborati dagli organismi internazionali e non deve essere offensivo con i sentimenti delle persone.
Questi punti sono importanti perché delineano il sentimento d’identità non solo come un bene etnologico, ma sociale, culturale e politico da proteggere.
A questo proposito si deve distinguere, all’interno del concetto di patrimonio immateriale, il concetto di intangibile.
Di fatto, molta produzione immateriale è intangibile perché è tutelata dal diritto d’autore e essa ha dei supporti che la diffondono, come sono un CD o un film.
Ma sono un bene intangibile, per fare un esempio importante oggi, i saperi artigianali.
La Regione Lombardia, a questo proposito, ha varato una legge che a partire dalla definizione dell’UNESCO prevede la costituzione dell’AESS, cioè, dell’archivio di etnografia e storia sociale diviso in cinque sezioni: Il registro dell’oralità, il registro delle arti e dello spettacolo, il registro delle ritualità, il registro dei saperi della natura, il registro dei saperi tecnici.
Per l’AESS il patrimonio immateriale comprende in modo esplicito:
– I proverbi, le leggende, le canzoni epiche, le poesie, le preghiere, le canzoni popolari, i balli, il teatro.
– Tutte le forme tradizionali dello spettacolo di piazza, della pantomima, dei cantastorie.
– I riti di culto, i riti di passaggio, i rituali di nascita, di cerimonie nuziali e funerale, i giuramenti di fedeltà, i sistemi legislativi tradizionali, i giochi e gli sport tradizionali, le tradizioni culinarie, i sistemi curativi e la farmacopea, la magia, le cosmogonie, eccetera.
A livello nazionale esiste invece l’Istituto centrale per la “demo.etno.antropologia” (IDEA).
L’IDEA è stato istituito nel novembre del 2007 e i suoi compiti istituzionali sono prevalentemente di tutela, studio, valorizzazione e promozione del patrimonio etnografico italiano.
L’IDEA ha una propria autonomia scientifica e di ricerca ma è inserito nell’amministrazione del Ministero per i beni e le attività culturali.
Sono parte integrante dell’istituto: Il Museo nazionale delle arti e tradizioni popolari. L’archivio di antropologia visiva. L’archivio fotografico. L’archivio sonoro. La biblioteca. Il gabinetto delle stampe.
Dobbiamo notare, en passant, che le discussioni sul folclore, i patrimoni immateriali, i rituali, le usanze, eccetera hanno favorito l’introduzione nel discorso dell’antropologia culturale di due neologismi oggi molto popolari.
Quello di First People invece di Terzo Mondo e quello di Les Arts Premiers invece di Arte primitiva.
Quest’ultima espressione è impiegata soprattutto per indicare la produzione artistica delle società senza scrittura e in genere per le culture non occidentali, come l’arte Maya, l’arte della civiltà precolombiana (degli Olmechi), l’arte africana tradizionale, l’arte Inuit, l’arte del Oceania e degli aborigeni australiani, le arti asiatiche tradizionali, l’arte amerinda.
L’espressione di arte primitiva è invece caduto in disuso perché troppo legato all’ideologia colonialista, ma anche il concetto di arts premiers è controverso perché fa pensare che l’arte occidentale sia un arte compiuta o evoluta.
Molto usate sono anche altre espressioni, come arte tribale, etnografica, tradizionale o arcaica.
Sul piano meramente teorico il concetto di patrimonio culturale immateriale è stato molto dibattuto in antropologia perché è un concetto che nella pratica si rivela enigmatico e scivoloso.
Molti, per esempio, affermano che è il frutto di un ossessione patrimoniale della società contemporanea, altri ne sottolineano gli aspetti politici e emotivi che in qualche modo mascherano le insufficienze scientifiche.
Gli etnologi hanno anche parlato di una fissazione per la museificazione dei processi culturali che in molti casi si è risolta in una invenzione o in una esagerazione delle tradizioni di tipo spettacolare.
In questo modo, tra l’altro, non si salvaguarda la cultura, ma le sue rappresentazioni.
C’è anche, tra gli studiosi non occidentali, chi ha denunciato il rischio di una gerarchia globalizzata dei valori, espressione di una economia morale ideologicamente appiattita sul neoliberismo.
Economia che – in modo implicito – è interessata a costruire certi elenchi di beni immateriali piuttosto che altri, scegliendo in base alle convenienze turistiche, mercantili e patrimoniali.
Queste obiezioni – che possono e in molti casi devono essere condivise – hanno riaperto le discussioni sul concetto e la definizione di cultura, che sembravano sopite dopo la seconda guerra mondiale, discussioni che si sono allargate anche alla definizione di società e di comunità.
Sulla scia di queste problematiche sta avanzando un nuovo punto di vista, quello dei diritti culturali e delle relative rivendicazioni che in qualche modo vengono a completare il capitolo degli studi coloniali nell’ambito dei cultural studies.
Un’ultima osservazione estremamente attuale, la difesa dei patrimoni culturali, materiali e immateriali, non deve assolutamente scontrarsi con le diversità migranti né cercare di sussumerle ma, di contro, deve favorire il loro diritto alla differenza.
In questo senso è interessante il fatto che negli Stati Uniti i segni di appartenenza a una comunità sono spesso esibiti con orgoglio e protetti, perché se è vero, come scriveva John Dewey, che la democrazie costituzionale è una community of communities, manifestare i segni visibili di appartenenza definisce la modernità e garantisce la democrazia.
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COSTRUIRE E ABITARE.
Molti autori e molte scuole di antropologia hanno sottolineato come la cultura dell’abitare plasmi la nostra visione del mondo (Claude Levi-Strauss, Pierre Bourdieu, il filosofo Ivan Illich, lo storico e gesuita Michel De Certeau).
In questa prospettiva non solo il mondo può essere percepito attraverso l’esperienza abitativa, ma questo mondo viene addirittura strutturato e arricchito di significato secondo la propria peculiare visione della “domesticità”.
È una delle ragioni per cui da tempo l’antropologia contemporanea non si limita più a studiare l’abitare e il costruire, ma partecipa in maniera determinante all’elaborazione di nuove esperienze urbane che mirano, da una parte, a attivare una collaborazione partecipativa tra abitanti e tecnici nella gestione delle forme urbane, dall’altra, alla costruzione/riqualificazione del territorio e della città.
In pratica, un nuovo modo di essere sul campo!
Va però aggiunto che queste forme innovative non sempre vengono attivate dalle politiche sociali dei governi, anzi, in molti casi sono addirittura disattese con le ragioni le più diverse.
Basti pensare all’esecuzione di sgomberi e sfratti di spazi e luoghi pubblici occupati e/o auto-gestiti da movimenti sociali, gruppi antagonisti, homeless.
C’è ancora oggi un diffuso buldozzing state of mind, come lo definì a suo tempo lo storico e filosofo delle tecnologie, l’americano Lewis Mumford (1895-1990) che caratterizza l’azione delle istituzioni nei confronti di quartieri spontanei o considerati clandestini.
Ciò osservato, c’è oggi nella cultura europea una nuova prospettiva dell’abitare – che nel corso della seconda metà del ‘900 parte da Martin Heidegger e arriva fino a Tim Ingold, un antropologo inglese, (in italiano è stato tradotto di Ingold, Ecologia della cultura, 2004).
Una prospettiva che considera i processi di costruzione subordinati alla facoltà umana di produrre e vivere la spazialità (Henri Lefebvre) e che propone di pensare l’autocostruzione come luogo auto-e-antropopoietico di governance del territorio.
Il concetto di antropopoiesi identifica sia i vari processi di auto-costruzione dell’individuo sociale, che i vari stadi di costruzione del patrimonio culturale di ogni gruppo umano.
L’antropopoiesi ha trovato un ampio spazio nell’antropologia contemporanea di matrice francese e italiana.
Il quadro teorico che le fa da sfondo è l’idea dell’uomo come essere in formazione, come essere dal comportamento non predeterminato dal patrimonio genetico.
Questo perché,come abbiamo già visto parlando dell’infanzia protratta, l’essere umano si realizza solo con l’acquisizione della cultura.
L’antropopoiesi in questa ottica appare sia come un’ antropogenesi, sia come una maturazione dell’uomo in quanto essere sociale.
In quest’ottica possiamo dire che l’abitare oggi, nel suo significato più ampio, non si limita più all’oggetto-casa, né si esaurisce nell’analisi della “vita corrente” che l’attraversa, ma è un processo che ha a che fare con l’esperienza quotidiana delle persone.
In questo senso, nell’esperienza dell’abitare incontriamo non solo lo spazio della casa, ma anche quello più ampio, aperto e relazionale dei paesaggi urbani, dei quartieri sottoposti a una continua trasformazione, degli spazi sempre più connotati da differenti culture e modelli abitativi, luoghi come route invece che terreni per le root.
A parte ciò, appartiene alle abitudini giovanili (soprattutto nei paesi caldi) abitare un insieme di spazi esterni prossimi all’abitazione (il cortile, il giardino, la piazza, la strada) così come per chi vive la città una pluralità di “spazi di vita collettiva” variamente ubicati e diffusi (il supermercato, i mezzi di trasporto pubblici, i parchi metropolitani, la rete (più o meno discontinua) di luoghi, condivisa da una comunità di pratiche come sono quelle sportive, culturali, politiche).
Già Lewis Mumford aveva messo in evidenza come le città non sono più solo semplici contenitori capaci di garantire nel tempo la coerenza e la continuità della cultura urbana, ma rappresentano il luogo della mescolanza, della mobilità, degli incontri, delle sfide.
Possiamo anche dire che nella modernità il melting pot è il tratto costitutivo che rende le città i nuovi luoghi “socializzati” in cui vivere.
A parte ciò, come insegna la storia sociale, lo straniero, il rifugiato, lo schiavo, persino l’invasore hanno sempre svolto un ruolo cruciale nell’evoluzione delle forme urbane.
Basta riflettere sull’elementare circostanza che lo straniero che viene in pace introduce cibi, idiomi, lingue, suoni, colori, forme, significati…notizie.
Una nota su Heidegger.
Costruire, abitare, pensare, è il titolo di una conferenza che Martin Heidegger, uno dei più discussi filosofi del secolo scorso, tenne nel 1951, in occasione di un ciclo di colloqui sul tema: Uomo e spazio organizzato dalla città di Darmstadt.
La seconda guerra mondiale aveva distrutto interi quartieri di molte città, gli sfollati erano dappertutto e la crisi degli alloggi era solo un aspetto della crisi dell’intera Germania.
Heidegger in conclusione del suo intervento sostenne, sorprendendo chi lo stava ascoltando, che la vera crisi degli alloggi dipendeva dal fatto che non abbiamo ancora imparato a abitare. Abitare veramente e autenticamente.
Avere un’abitazione, in sostanza, non significa automaticamente saper abitare. E prima ancora: che cosa significa abitare?
Vediamo alcune sue considerazioni tratte dal testo di questa conferenza che si trova nel volume Saggi e discorsi (1976).
Per cominciare occorre comprendere – egli scrive – che, a differenza di ciò che succede nel mondo animale, giungiamo all’abitare solo attraverso il costruire.
Non per caso, il costruire ha nell’abitare il suo fine.
Tuttavia non tutte le costruzioni sono delle abitazioni.
Un ponte e un aeroporto, uno stadio e una centrale elettrica sono costruzioni, ma non abitazioni, così come una stazione, un’autostrada, una diga, un mercato coperto.
Ciò nonostante, anche questi tipi di costruzioni rientrano nell’ambito del nostro abitare.
Un ambito che va oltre l’uso che facciamo di queste costruzioni.
Queste costruzioni (sempre più numerose nella modernità) albergano (nel senso di ospitano) l’uomo.
O, meglio, egli le abita e tuttavia non abita in esse se, per abitare in un posto, intendiamo avervi il proprio alloggio.
D’altra parte le costruzioni che non sono abitazioni rimangono pur sempre anch’esse determinate in riferimento all’abitare, nella misura in cui sono al servizio dell’abitare dell’uomo.
L’abitare (in sostanza) è il fine che sta alla base di ogni costruire.
Va anche rilevato che l’abitare e il costruire stanno tra loro nella relazione del fine al mezzo.
Ma finché vediamo la cosa entro i limiti di questa prospettiva, scrive Heiddeger, assumiamo l’abitare e il costruire come due attività separate.
Di fatto il costruire non è soltanto un mezzo e uno strumento per l’abitare, il costruire è già in se stesso un abitare.
Ma chi ce lo dice?
Chi ci dà una misura con cui possiamo misurare l’essenza dell’abitare e del costruire?
La parola, che ci parla dell’essenza delle cose e fa parte del linguaggio.
(Noi abitiamo il linguaggio!)
Che cosa significa dunque costruire?
L’antica parola tedesca per bauen (costruire) è buan, significa abitare, ma vuol dire anche, rimanere, trattenersi.
Il significato autentico del verbo bauen (costruire) è andato perduto.
Se tuttavia ascoltiamo ciò che il linguaggio ci dice con la parola bauen (costruire) apprendiamo tre cose:
– 1. Il costruire è propriamente abitare.
– 2. L’abitare è il modo in cui gli uomini stanno nel mondo.
3. Il costruire come abitare si dispiega nel costruire che coltiva, che fa crescere.
Conclude Heidegger: Non è che noi abitiamo perché abbiamo costruito. Ma costruiamo e abbiamo costruito perché abitiamo.
L’abitare ci appare in tutta la sua ampiezza quando pensiamo che nell’abitare risiede l’essere dell’uomo, inteso come il soggiornare dei mortali sulla terra.
Ricapitolando.
L’essenza o il fine del costruire è il far abitare. Ma solo se abbiamo la capacità di abitare, possiamo costruire.
In questo modo costruire e pensare sono sempre, secondo il loro modo di porsi, indispensabili per l’abitare.
Entrambi sono però anche insufficienti all’abitare almeno fino a che attendono separatamente alle proprie attività, senza dialogare l’un l’altro.
Alla domanda, che cos’è l’architettura?
Auguste Perret (1874-1954), un architetto francese, belga di origine, precursore nell’uso del cemento armato e maestro di le Corbusier, di cui ricordiamo il progetto di ricostruzione del centro di Le Havre, distrutto come buona parte della città dai bombardamenti della seconda guerra mondiale e dichiarato dall’UNESCO come un esempio eccezionale di urbanistica del dopoguerra (è inserito dal 2005 tra i patrimoni dell’umanità), rispose:
L’architettura è l’arte di organizzare lo spazio.
Frank Lloyd Wright (1867-1959), uno dei maestri del movimento moderno, sosteneva che solo nella parusia della modernità, cioè, nel disvelarsi dell’essenza del moderno, l’architettura può diventare ciò che ha sognato di essere: un’idea che s’invera nello spazio abitativo.
Tuttavia, se consideriamo l’idea di spazio per abitare, nella storia dell’architettura, questa idea non è mai stata, almeno fino alla modernità, un argomento di riflessione.
Marco Vitruvio Pollone, architetto e scrittore romano, vissuto nell’ultimo secolo prima dell’era comune, ha esaminato con acume quelli che sono i fondamenti dell’architettura, vale a dire, la disposizione, la simmetria, l’impianto e l’orientamento degli edifici, ma non dice nulla sulla natura dello spazio.
Lo stesso Andrea Palladio (1508-1580) il grande architetto veneto, che lo ripensa e lo ridisegna in chiave rinascimentale, non ne parla se non in modo marginale.
Perché?
Perché, di fatto, a partire da Vitruvio e fino al Rinascimento lo spazio è un dato immediato della conoscenza sul quale appare superfluo soffermarsi.
Sono stati i filosofi della modernità a aprire una riflessione su ciò che rappresenta lo spazio per l’uomo, tra loro ricordiamo in particolare Arthur Schopenhauer (1778-1860), Martin Heidegger (1889-1986), di cui abbiamo visto il suo modo di porre la questione dell’abitare e, soprattutto, Walter Benjamin (1892-1940).
Per Schopenhauer, il maestro del pessimismo, lo spazio è l’idea stessa che contiene l’architettura come una manipolazione della materia.
Nella sua visione del mondo, l’architettura va pensata come una sorta di volontà di potenza che vince la pesantezza della materia.
Una volontà che ha nei muri, nelle architravi e nelle colonne la sua grammatica estetica.
Va aggiunto che per questo filosofo era la musica a celebrare l’essenza in sé dei fenomeni e dunque a rappresentare il mondo, in questo senso arrivò a immaginare l’architettura come una forma di musica congelata.
Una parentesi sulla metropoli.
La metropoli, negli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento, fu considerata dal pensiero sociale tedesco un modello in miniatura della civilizzazione occidentale.
Essa ha significato per Georg Simmel, Siegfried Kracauer, Walter Benjamin una formazione sociale dove la modernità si è manifestata in una maniera evidente e rivoluzionaria e dove meglio questa modernità si è espressa da un punto di vista sociologico.
È storia di ieri, Parigi, Berlino, Vienna, Londra e le altre metropoli europee subirono, a partire dalla metà dell’Ottocento, una serie di mutamenti tecnologici e culturali che andranno a costituire gli elementi fondativi del movimento moderno.
In altri termini, conobbero importanti mutazioni del paesaggio urbano, come l’avvento dei grandi boulevards e la diffusione delle strutture architettoniche in ferro e vetro (che caratterizzano la fisionomia dei passages, dei grandi magazzini e delle stazioni ferroviarie).
Metropoli che sono state la culla dei grandi mutamenti nel campo dell’estetica, della cultura e del costume, grazie alla diffusione della moda, della pubblicità e della stampa quotidiana, così come dei mutamenti nella percezione dello spazio e del tempo, una conseguenza delle innovazioni tecniche come la ferrovia, l’illuminazione artificiale, la radio, il telefono, la fotografia, il cinema.
In questo contesto Georg Simmel (1858-1918), Walter Benjamin (1892-1940) e Sigfried Kracauer (1889-1966) hanno contribuito – ognuno a loro modo – a interpretare e elaborare questa nuova forma di cultura metropolitana.
La metropoli, come forma sociale generale della modernità (per usare una definizione di Hans Jonas (1903-1993) il grande filosofo tedesco naturalizzato americano), ha un’importanza fondamentale nella loro opera e nella loro biografia.
Perciò, comprendere l’esperienza della metropoli, secondo questi autori, è particolarmente significativo dal punto di vista della storia del pensiero sociale.
Simmel da un lato, Benjamin e Kracauer dall’altro, appartengono a due generazioni successive di pensatori e critici della cultura, che si formano e operano nell’aurea del Novecento, quello che è stato definito (da Eric Hobsbawm) come il secolo breve.
I loro punti di vista sulla metropoli, intesa come la forma sociale tipica della modernità, rappresentano un momento significativo della coscienza del moderno, coscienza che ha vissuto il mito dell’individualità e, successivamente, si è infranta nella cultura di massa e nella colonizzazione della vita corrente, come ha notato il filosofo italiano Remo Bodei.
Vediamo in particolare Walter Benjamin e i Passages.
Benjamin ha dedicato quattordici anni della sua vita alla sua opera (rimasta incompiuta) sui Passages di Parigi (1926-1940), la città che per lui incarnava l’emblema della modernità.
Questo studio costituisce –nonostante tutto – una storia originaria della modernità così come questa si rappresentava negli eventi e nella cultura della capitale francese fra l’ascesa del re borghese Luigi Filippo al tramonto della repubblica con l’impero di Luigi Bonaparte.
La poesia di Charles Baudelaire, le prime architetture in ferro e vetro a scopi commerciali, la moda e la cultura urbana, l’arte della caricatura, i massacri urbanistici a opera del prefetto Haussmann, la storia delle sette e dei movimenti sociali, questi ed altri erano i reperti della cultura che per Benjamin rappresentavano i sogni e gli ideali del secolo borghese, un secolo destinato alla disillusione e al declino.
Se si comprende questo contesto, appare evidente che Benjamin intendeva rappresentare il veloce transito sulla scena storica della Zivilisation borghese delle sue forme primordiali, infantili, destinate a mutare completamente con l’affermarsi del capitalismo monopolistico e del regime bonapartista.
È questa un’epoca di soglia (per usare un’espressione dello stesso Benjamin, presa dal surrealismo), tra forme di vita che ancora appaiono pre-industriali e l’affermarsi della società del consumo di massa, con la conseguente pervasività della forma di merce in tutti gli ambiti di vita corrente.
In questo contesto Benjamin ha ricercato i fenomeni originari politici e culturali di quell’assetto sociale che andrà incontro al drammatico declino nel Novecento, con l’instaurarsi dei regimi reazionari di massa.
Fenomeni originari, immagini dialettiche, diciamo che questi sono i concetti fondamentali della nuova forma di storiografia culturale che Benjamin intendeva elaborare, con lo scopo di “allarmare” la società europea novecentesca prima della sua catastrofe finale, che avverrà con la seconda guerra mondiale.
Da un punto di vista più didascalico osserviamo questo.
Nel Novecento l’architettura – come spazio abitato – è stato interpretato soprattutto da due teorie, quella funzionalista e quella semiotica.
Il funzionalismo era concepito in un rapporto diretto con i bisogni degli individui e scaturiva da una realtà pensata in modo empirico e oggettivo.
Ma, in linea generale, è proprio così stretto il rapporto tra bisogni e tecnica?
A rileggere la storia del costruire le cose non sembrano stare così.
Per fare un esempio di scuola, oggi sappiamo che la funzione di sostegno e di controspinta dei contrafforti delle cattedrali gotiche è in larga parte una grande illusione.
Perché allora venivano progettati e costruiti?
Perché con l’avvento del gotico era cambiata la percezione di quella volontà di assoluto che stava trasformando il mondo medioevale.
La nascita ufficiale dello stile gotico viene identificata in architettura, con la costruzione del coro dell’Abbazia di Saint-Denis a Parigi, consacrata nel 1144.
Dall’Ile-de-France le novità si diffusero poi, con modi e tempi diversi, un po’ dappertutto in Europa diversificandosi ed adattandosi ad un grande numero di committenze e scopi diversi.
Per venire più verso il nostro tempo.
Se proviamo a considerare l’inadeguatezza delle case giapponesi al clima dell’arcipelago, costateremmo che in questa cultura è la concezione dello spazio più di quanto lo sia quello del clima a determinare la forma delle abitazioni, facendo apparire ai nostri occhi queste abitazioni inadeguate alle variazioni climatiche.
Se poi dobbiamo trovare un debito funzionale che i giapponesi hanno con la natura del loro habitat, lo troviamo nella carta sismica del territorio.
Sul piano dei simboli.
Se sono i bisogni che determinano la forma delle costruzioni allora diventa paradossale l’idea caritatevole di molte religioni di pensare una casa per gli dei, considerato che essi non devono né alloggiare, né abitare.
Allo stesso modo si può affermare che le piramidi egiziane e i palazzi dei re persiani non rispondono affatto a dei bisogni reali.
Questo fatto tuttavia non è in contraddizione con il principio che tutto ciò che l’uomo realizza ha un senso, anche se questo senso per ragioni storiche o culturali ci risulta spesso incomprensibile.
Riconoscere lo spazio come la causa prima della forma di architettura c’indirizza, invece, nel campo della semiotica.
In altri termini possiamo pensare a una semiotica dei luoghi con l’aiuto di certi criteri come sono, la chiusura, l’accessibilità, la gerarchia, la scala, l’orientamento, la densità o l’evanescenza, i motivi geometrici, la stabilità, eccetera.
Naturalmente l’architettura non è un linguaggio vero e proprio, ciò non toglie che si possa parlare in senso lato di un linguaggio dell’architettura perché essa è strutturata come un linguaggio.
In una cornice antropologica la nozione di spazio in architettura si può intendere in due modi.
Nel senso che esso rappresenta l’argomento discriminante che permette di differenziare le culture, le epoche, gli stili.
Oppure – nella prospettiva della vita corrente – lo spazio è ciò che può favorire gli effetti di costrizione, di liberazione, di incitamento, d’inibizione, di adattamento, di sottomissione alle forme del potere.
Basti pensare all’effetto di riverenza che incute l’architettura pubblica (regale, militare o religiosa) e come questo effetto sia sempre stato, indifferentemente rispetto agli stili e alle epoche, deliberatamente perseguito.
Sono pulsioni che lo spazio favorisce e che possono spingere soprattutto verso la fobia degli spazi chiusi o aperti con i loro risvolti psicologici e sociali.
Per venire all’idea di casa (nella cultura occidentale) la prima cosa da notare è che la casa antica, greco-romana in particolare, e la casa moderna si organizzano su principi inversi.
Per noi moderni (e urbanizzati) la casa è un’esperienza centrifuga, fatta di stanze che si aprono con porte e finestre che danno sull’esterno.
La casa antica invece è centripeta. Le stanze guardano verso l’interno e non hanno aperture verso l’esterno, si affacciano di regola verso una corte interna a peristili – cioè, con un giro ininterrotto di colonne – che servono al passaggio coperto.
Allo stesso modo se l’architettura delle chiese è simile a quella delle sale dei palazzi regali – alla lettera, delle basiliche – e non a quella dei templi pagani è perché in esse domina un’altra concezione dello spazio.
Basilica significa la “casa del re”.
I templi pagani, greci e romani, non erano destinati affatto a essere dei luoghi di riunione, di ecclesia, alla lettera di assemblea del popolo, cioè, all’incontro.
In essi potevano entrare solo gli dei, i sacerdoti, le vestali, i religiosi.
Al contrario, fin dal primo momento l’adunata dei fedeli (l’ecclesia) è stato lo scopo delle basiliche, cioè dei luoghi di culto cristiani.
Diciamo che lo spazio architettonico a seconda delle culture, dei luoghi e dei tempi storici ha privilegiato sia il pieno (come nel caso dei templi greco-romani o indiani) che il vuoto (come nel gotico o nei templi giapponesi e in genere in molte costruzioni dell’Estremo Oriente).
A questo proposito, Jun Itami (1937-2011) un architetto giapponese molto famoso in tutto il Sud-Est asiatico, amava ripetere che l’arte e l’architettura devono “attraversare” il niente per poter esistere e per sorprenderci. Va da se, qui è importante intenderci su che cos’è il niente.
Se lo consideriamo in sede antropologica la nozione di progetto in architettura, è sostanzialmente una rappresentazione astratta che ha la funzione di installarsi – per usare un verbo heideggeriano – in una realtà concreta e “multistrato”, di ordine economica, fisica, culturale e, non da ultimo, sociologica e politica.
Questo comporta che ci siano degli spazi che culturalmente favoriscono il progetto, altri che lo inibiscono.
Scrisse Walter Gropius, quando era alla direzione del Bauhaus a Weimar:
Le relazioni spaziali, le proporzioni e i colori controllano le funzioni psicologiche vitali e reali dell’uomo.
Da parte sua Maurice Merleau–Ponty nella Fenomenologia della percezione (1945) osserva che i viventi, con la loro semplice presenza, danno allo spazio un senso che il mondo di per se non ha.
Tradotto in un linguaggio più semplice significa che esistere vuol dire occupare uno spazio (abitarlo), determinandolo con l’esistenza, le forme del vissuto, le condizioni dell’esserci. Significa occuparlo con il corpo, gli oggetti, l’azione, le emozioni, le cognizioni.
In una prospettiva fenomenologica ne consegue che lo spazio geometrico e lo spazio fisico si modellano e dipendono dal modo con cui il soggetto si muove nell’ambiente.
Per gli antropologi e i filosofi è interessante la circostanza che l’effetto che produce l’architettura sugli individui è da subito materiale, dunque immediatamente sensibile.
Mentre non lo è, se non in parte, nelle altre arti.
È come dire che i soffitti e le cupole hanno la funzione di rimpiazzare, anche simbolicamente, il cielo.
Che lo sguardo non è più confinato dalla foresta o dalle acque, ma che è la struttura degli edifici che lo educa a nuovi orizzonti e significati.
L’architettura, insomma, è per molti aspetti un’arte della totalità tanto che Vitruvio – che visse nell’ultimo secolo prima dell’era comune – la definì una disciplina enciclopedica.
Ma c’è dell’altro, l’architettura condivide con la musica la prerogativa di contenerci.
Di circondarci, ovvero, in chiave metaforica, di avvolgerci e di proteggerci.
In quest’ottica, se ciò che si costruisce ha delle motivazioni politiche, culturali, sociali e psicologiche, lo spazio architettonico diventa qualcosa di più di una semplice proiezione visuale della società.
Non per caso Dio, creatore e demiurgo, è definito dalle religioni un architetto, piuttosto che un un poeta, un musicista o un pittore.
La ragione forse sta nel desiderio degli uomini di illudersi che un’armonia visibile possa sorgere a partire dal niente o se vogliamo dal caos dando senso all’esistere e – più in là – una ragione al tempo di vita.
Del resto, in termini antropologici la padronanza dello spazio è ciò che sta all’origine del significato originario della parola architettura.
Non a caso il primo significato del verbo greco arkein è cominciare, il secondo è comandare.
Sul piano simbolico, colui che costruisce è colui che comanda.
Qui occorre sottolineare come progettare uno spazio è il contrario di concepire un’utopia.
L’utopia è sempre uno spazio o un’idea di spazio compiuto o, meglio, concluso, arrivato a conclusione, che s’impone per la sua perfezione (dunque, immutabile).
In questo senso si può dire che le utopie esprimono dello spazio la sua dimensione ideale e totalitaria.
Non è quindi solo un caso che tutte le utopie progettuali sono sempre tragicamente fallite, quando non si sono pervertite nel loro contrario, in trappole.
Di contro lo spazio dell’architettura, anche se di per se non è né geometrico, né fisico, né simbolico, è uno spazio di cui possiamo avere un’esperienza.
Lo spazio, del resto, è la sola grandezza matematica che può essere misurata direttamente.
Non per caso in passato è servita come simbolo di misura di altre grandezze come il tempo (che cammina sul quadrante dell’orologio) o la temperatura (che sale nella colonnina del termometro).
Gli spazi dell’architettura possono essere aperti o chiusi.
Nella tradizione culturale europea l’aprire viene prima del chiudere o, se si preferisce, il chiuso presuppone l’aperto.
È in questo senso che il filosofo francese Benoit Goetz ha scritto che lo spazio in generale non è niente altro che una grande apertura sul nulla.
Vedremo meglio in seguito Goetz che si è atto promotore di un nuovo dialogo tra filosofia e architettura.
In antropologia ci sono due teorie per concepire, da un punto di vista fenomenologico, lo spazio dell’abitare umano.
La prima attribuisce una funzione fondatrice (primaria) al muro, la seconda l’attribuisce al tetto.
Questo dualismo distingue di fatto gli edifici in due gruppi.
La casa occidentale deriva da un muro, la casa in Micronesia, una delle regioni dell’Oceania) è frutto di un tetto.
I castelli sono un muro, i templi in Giappone sono un tetto, eccetera.
Qual è la differenza?
Il muro rinvia a dei limiti oggettivi, a uno stare delimitato. Il tetto, invece, rimanda a una protezione con una forte componente psicologica.
A questo proposito va osservato come nella cultura occidentale avere o non avere una casa determina l’inclusione o l’esclusione sociale, tanto che noi chiamiamo chi vive ramingo, un senzatetto.
Ramingo alla lettera è colui che vaga di ramo in ramo, come gli uccelli.
Questo dualismo del muro contrapposto al tetto nasce nella preistoria.
Le caverne del neolitico rappresentano entrambi le cose dal punto di vista del bisogno di un ricovero.
La parte verso l’entrata può essere considerata un tetto, la parte in fondo – quella generalmente dipinta – era un muro.
Contrariamente a quello che in qualche modo è una logica costruttiva, da un punto di vista storico l’abitare nasce prima con il tetto (riparo), il muro verrà in seguito (protezione).
Sigfied Giedion (1888-1968) un famoso storico dell’architettura, svizzero, sosteneva a questo proposito, che l’origine dell’architettura coincide con la supremazia della verticalità, l’apparizione dell’angolo retto e la simmetria.
In realtà sotto il muro c’è la soglia o il limite, la linea che anticipa il volume, come si evince dal mito di fondazione di Roma, circa sette secoli prima dell’era comune.
Il 21 aprile del 753, prima dell’era comune, è il giorno della fondazione di Roma, secondo lo storico Marco Terenzio Varrone.
Per lo scrittore Onorato Servio, vissuto nel quinto secolo, Roma significherebbe la città del fiume, ma potrebbe derivare dal ficus ruminalis un tempo fiorente sulle rive del fiume Albula, poi detto Tevere, oppure dall’etrusco ruma che significa mammella, un riferimento alla lupa che allattò Romolo e Remo.
La cronaca del 21 aprile ci racconta che fu Romolo che tracciò il solco primordiale e stabilì il cosiddetto pomerium, la fascia perimetrale di terreno all’esterno del solco fino a realizzare un vero e proprio muro dalla base del colle Palatino.
I ritrovamenti archeologici hanno confermato l’anno in relazione agli insediamenti alle falde del Palatino, dove appunto è stato tracciato il solco della città quadrata.
In particolare, al di sotto di un muro, è venuto alla luce un fossato con tre vasi e due frammenti di fibule di bronzo, databili alla seconda metà dell’ottavo secolo prima delle’era comune, potrebbero essere stati collocati lì durante i riti connessi proprio con la costruzione del muro più antico.
In ogni modo non è impossibile immaginare dei tetti senza mura – li troviamo in Asia, nel Pacifico, le stessa tende berbere sono solo dei tetti – di contro un muro senza tetto non rappresenta un’abitazione.
Dal punto di vista delle metafore della sociabilità possiamo dire che chi costruì un muro all’origine dell’architettura era incline a pensare che il più grande nemico dell’uomo fosse l’uomo stesso.
Gaston Bachelard (1884-1962) un filosofo e un epistemologo francese, scrisse che “è contro gli avvenimenti del mondo che la casa sarà costruita e lo spazio messo al sicuro dall’azione del tempo.”
Bachelard aveva intuito che come molte opere della cultura, l’architettura, sul piano dell’immaginario, invera una conseguenza dell’espulsione dell’umanità dal paradiso terrestre.
Infatti, non è privo di un significato il fatto che Adamo, nel racconto biblico non avesse una casa.
Prima di proseguire apriamo una piccola parentesi di antro-psicologia.
Ci sono due contenenti che inverano i due limiti assoluti del simbolico.
Il ventre materno e il sepolcro.
Diciamo che c’è un percorso etimologico – messo in luce in particolare dalla psicologia junghiana – che va dal fondo delle caverne alla coppa.
Ce lo ricorda l’etimologia.
Kusthos in greco significa la cavità o il grembo.
Keuthos indica il seno della terra.
Kust in armeno e Kostha in sanscrito significano il basso ventre.
Sempre in sanscrito Kutos è la volta o la cantina, Kutis il cofanetto e infine Kuathos il bicchiere o il calice.
La cavità per definizione, come afferma la psicologia, rappresenta nell’immaginario simbolico una rappresentazione dell’organo femminile.
Del resto non è difficile costatare come ogni cavità è percepita – almeno a livello inconscio – come sessualmente determinata.
In altri termini è legittima la narrazione di un percorso metaforico che porta dal grembo alla coppa.
Lungo questo percorso uno dei primi e importanti punti è costituito dall’insieme caverna–casa nella duplice accezione di ambiente e contenente e, insieme, di riparo e granaio.
Ecco perché la produzione simbolica tende a rendere ambivalente la paura della caverna e del buio, capovolgendone il senso, metamorfolizzandola nel suo contrario, rendendola un antro delle meraviglie, un rifugio, un simbolo terreno del paradiso.
E è precisamente in questa chiave che la psicologia legge il celebre racconto persiano di Alì Babà e dei quaranta ladroni.
Questa ambivalenza – per l’analisi psicoanalitica di derivazione freudiana – è associata al trauma della nascita e all’idea del ventre materno come rifugio.
A parte questo, la grotta – nel folclore – appare spesso come una matrice universale, un simbolo dell’intimità, come lo sono l’uovo, la crisalide, il bozzolo o la tomba.
Non è dunque per caso che in molte religioni compaiono due importanti elementi architettonici simbolici, la volta e la cripta.
Per i cristiani, in particolare, il tempio dell’ecclesia è allo stesso tempo rifugio, catacomba, sepolcro, reliquiario, tabernacolo.
Luogo dove riposano le sante specie (cioè, l’olio santo, l’acqua e il vino consacrati) e, al contempo, grembo dove avviene il miracolo della nascita di Dio.
Questa è una delle ragioni antropologiche del perché nell’antichità numerose chiese e santuari siano stati eretti vicino a caverne o a crepacci.
Esemplare è il caso di San Clemente a Roma, la primitiva basilica (oggi trasformata in un complesso archeologico), sorge nella vallata tra il colle Oppio e il Celio, è una costruzione sotterranea.
Così come è esemplare il caso della grotta di Lourdes.
La caverna è una protagonista dei miti di origine, di rinascita e di iniziazione di numerosi popoli.
Anticamera misteriosa di mondi sotterranei , spesso ricca di bizzarre costruzioni stalattitiche la caverna è l’oggetto di molti culti, miti e leggende.
Ricordiamo che le caverne sono i più antichi santuari dell’umanità, ornati di pitture rupestri e graffiti.
Già nel paleolitico molte di esse venivano considerate luoghi dell’altro mondo.
Non erano mai abitazioni, ma luoghi di culto.
Col termine generico di caverna si indicano anche le grotte e gli antri, ma non le tane riparo delle bestie selvatiche o di banditi.
Nella cultura greca l’antro rappresenta il mondo.
Per Platone, questo mondo è un luogo di ignoranza, di sofferenza e di punizione, in cui le anime degli uomini sono imprigionate come in una caverna dagli dei.
“Immagina di vedere degli uomini” dice Platone in Repubblica (libro VII) descrivendo il famoso mito, “rinchiusi in un’abitazione sotterranea a forma di caverna…”, tale è la situazione degli uomini nel mondo.
La caverna è considerata anche come un luogo di energia tellurica e ctonia, grazie alla quale ha avuto e ha un ruolo nelle pratiche magiche.
In questo senso è il luogo ideale per le iniziazioni, la sepoltura, le cerimonie che accompagnano l’imposizione del magico.
Rappresenta la vita latente e fa comunicare l’uomo primitivo con le potenze ctonie, cioè con le divinità che risiedono all’interno della terra.
In sostanza le caverne sono considerate il palcoscenico del mondo simbolico e dei culti.
Secondo la tradizione ecclesiastica orientale, l’evangelista Giovanni ebbe la sua visione della fine del mondo, l’Apocalisse in una caverna dell’isola di Patmo.
Simbolo dell‘origine della fertilità, nella visione del mondo egizio, l’acqua del Nilo scaturiva da una caverna rupestre.
Nel Medio Oriente, la grotta rappresenta le origini e le rinascite.
Nelle tradizioni dell’Estremo Oriente la caverna, come nel mondo greco-romano, è il simbolo del’Universo, il luogo della nascita e dell’iniziazione, l’immagine del centro e del cuore.
È un’immagine del cosmo: il suolo piatto corrisponde alla Terra e la volta al Cielo.
I Thai, della Tailandia, tra gli altri, considerano il cielo come il soffitto di una grotta.
In Cina l’antica casa degli uomini, una grotta, conteneva un palo centrale, rappresentava l’Asse del mondo e della Via Regia.
Il sovrano doveva salirvi per poppare il cielo (le stalattiti) diimostrando così la propria filiazione celeste e la propria identificazione con la Via.
Dunque la caverna è la cavità geografica perfetta o, con una formula più poetica, un mondo chiuso
dove lavora la materia alla luce del crepuscolo.
Aggiungiamo che la ricerca etnografica ha confermato queste osservazioni.
Per esempio, la capanna cinese è considerata il luogo dove la sposa regna in comunicazione diretta con il suolo familiare, essa è una matrice (matrix in latino è l’utero).
Nell’immaginario orientale il focolare è un luogo femminile, mentre il fuoco che in esso si accende è l’elemento maschile.
In chiave semasiologica si può notare che nel mondo esiste una forte tendenza alla femminilizzazione delle dimore, non è per caso che abbiamo le camere, le stanze, le capanne, le cappelle.
Nella lingua francese, in particolare, il carattere femminile delle cappelle è molto evidente, tanto che sono di regola chiamate Notre–Dame e sono quasi sempre consacrate alla Vergine.
La semasiologia è una branca della lessicologia (cioè, della disciplina che studia lo strutturarsi del lessico) che analizza i significati in senso generale e ne astrae i significati che lo indicano in un determinato sistema linguistico. Viene spesso studiata assieme all’onomasiologia, che percorre lo stesso percorso in direzione opposta.
A questo punto della nostra analisi appare evidente una forte correlazione tra la casa che gli individui immaginano e i tratti salienti della loro personalità.
C’è poi da dire che dai psicanalisti ai teologi delle tre religioni del libro, dai Dogon agli aborigeni australiani, tutti riconoscono nella casa un doppione microcosmico del corpo umano.
Così come non è un caso che i bambini vedono nelle finestre, gli occhi della casa e nella porta, la bocca o che molti adulti definiscano le cantine come le sue viscere o le camere da letto come un nido.
In breve la casa, nella sua interezza, è più di un luogo dove abitiamo, è un vero e proprio organismo che vive e si trasforma nel tempo.
Essa raddoppia e sottolinea la personalità di chi vi dimora.
Non è solo un luogo fisico costruito e abitato, disegna anche una sua rappresentazione simbolica o, meglio, una matrice di soggettività di cui non è difficile coglierne la narrazione.
L’azione simbolica esercitata dalla casa sulla vita psichica degli individui si riflette immediatamente anche su quella sociale, andando a rappresentare un paradigma che riunisce e in parte sovrappone la sfera intrapsichica, quella interpersonale e quella socio-politica.
Questo spiega perché quando si perde la “casa” si perdono o si frammentano con essa anche le sue funzioni organizzatrici e compensatrici, portando alla frantumazione e all’estraneazione della relazione individuale-personale, familiare-coniugale, socio-economico e culturale-politico.
Molti mediatori culturali, a questo proposito, ritengono che è questa destrutturazione che nei rifugiati e nei profughi porta al cosiddetto disorientamento nostalgico.
Un’altra funzione importante della casa è quella di fornire una base coerente alla storia delle famiglie.
Una storia che non ha un valore obiettivo, ma che ordina e rende emotivamente condivisi e coerenti tutti i momenti che gli individui vi hanno vissuto, da quelli peggiori a quelli migliori.
In questo modo essi sono resi intelligibili e comprensibili, danno, agli attori di quegli stessi eventi, un senso di continuità e di prevedibilità.
Consentono loro una narrazione consolatoria.
Quando gli individui o i nuclei familiari perdono la propria casa e acquistano la qualifica di rifugiati o di homeless s’infrange proprio questa continuità e è precisamente questa dimensione che l’assistenza socio-terapeutica dovrebbe aiutare a ricostruire. .
Per restare in argomento, cambiando la prospettiva con la quale si affronta il tema dell’abitare, si può notare come il grande romanzo sociale europeo dell’800, in particolare francese – si veda per tutti Honoré de Balzac – comincia sempre con una descrizione minuziosa della casa.
Una tale descrizione, per esempio, è l’incipit del romanzo Eugénie Grandet (1833):
In alcune province si trovano case la cui vista ispira una malinconia simile a quella dei chiostri più tetri, delle lande più desolate, delle rovine più tristi: in queste case vi sono forse qualche volta e il silenzio del chiostro, e l’aridità delle lande, e le rovine. Vita e movimento vi sono così tranquilli che un forestiero le riterrebbe inabitate, se d’un tratto non incontrasse lo sguardo smorto e freddo di una persona immobile, la cui figura, mezzo monastica, sporge da parapetto della finestra al rumore di un passo insolito. Tale melanconia esiste anche in una casa di Samur, in cima alla via montagnosa che mena al castello nella parte alta della città.
Ancora più articolata e suggestiva è la descrizione della pensione di Madame Vauquer nel romanzo Papà Goriot del 1834:
Naturalmente destinato all’esercizio di una pensione borghese, il pianterreno si compone di una prima stanza che riceve luce dalle due finestre sulla strada e a cui si accede per mezzo di una porta a vetri. Questo salotto comunica con la sala da pranzo, la quale è separata dalla cucina dal vano di una scala, che ha gradini di legno e di piastrelle colorate e lucidate. Non si può immaginare visione più triste di quel salotto ammobiliato con poltrone e sedie ricoperte di stoffa di crine a righe alterne, lucide e opache. Nel mezzo s’erge un tavolo rotondo dal ripiano di marmo, ornato di uno di quei vassoi di porcellana bianca decorato di filetti d’oro mezzo sbiaditi che oggi si trovano dappertutto. Quella stanza, malamente pavimentata, ha uno zoccolo di legno ad altezza di gomito e il resto delle pareti è rivestito di carta verniciata…
Il camino di pietra, che col suo focolare sempre pulito testimonia come vi si accenda il fuoco solo nelle grandi occasioni, è ornato da due vasi colmi di fiori artificiali, stinti sotto la loro campana di vetro, che fanno compagnia a una pendola di marmo azzurrastro, di pessimo gusto. La prima stanza emana un odore che non ha nome nel linguaggio, e che bisognerebbe chiamare odor di pensione: tanfo di rinchiuso, di muffa, di rancido; fa rabbrividire, è umido all’olfatto, penetra attraverso gli indumenti; ha il sentore di un locale in cui si sia mangiato; puzza di gabinetto, di cucina, d’ospizio di vecchi…
La sala, interamente foderata di pannelli di legno, un tempo era dipinta di un colore che oggi è divenuto indefinibile e che forma un fondo sul quale il sudiciume ha deposto vari strati, tracciandovi bizzarre figure. Alle pareti si appoggiano alcune credenze polverose, sulle quali si elevano caraffe panciute e opache, allacciatovaglioli di zinco e pile di piatti di grossa porcellana a bordi turchini, fabbricati a Tournai. In un angolo uno scaffaletto a caselle numerate raccoglie i tovaglioli, sudici o macchiati di vino, di ciascun pensionante. In quel locale si possono trovare quei mobili indistruttibili, messi al bando dovunque, ma sistemati laggiù come i rottami della civiltà degli Incurabili…
Per spiegare fino a che punto questo mobilio sia vecchio, screpolato, marcito, vacillante, corroso, monco, lurido, invalido e moribondo, bisognerebbe farne una descrizione che ritarderebbe troppo l’interesse della presente storia e che i lettori frettolosi non ci perdonerebbero.
Il pavimento rosso è pieno di avvallamenti prodotti dallo strofinio e dalle verniciature. Insomma, laggiù regna la miseria senza poesia, una miseria tirchia, concentrata, spelacchiata. Se ancora non è lorda di fango, ha tuttavia qualche macchia; e se non ha buchi né cenci, le manca poco per crollare imputridita. Questa stanza è in tutto il suo splendore nel momento in cui, verso le sette del mattino, il gatto della signora Vauquer, precedendo la padrona, balza sulle credenze, annusa il latte contenuto in varie scodelle ricoperte da un piatto e fa sentire il suo ron ron mattutino.
Subito dopo appare la vedova…
*****
Sul piano stilistico, in generale, possiamo dire che la descrizione degli ambienti è una caratteristica del realismo ottocentesco o, se si preferisce, un’ossessione della mentalità borghese.
Del resto, sono gli odori della casa che compongono la sensazione dell’intimità: aromi di cucina, profumi dell’alcova, tanfi dei corridoi, sentore di benzoino o di pasciulì degli armadi materni…
Nonostante la riscoperta degli odori, che nella modernità dipende dalla enorme diffusione di oggetti profumati e di pratiche aromatiche, non si è ancora diffusa o “ristabilita” nel mondo occidentale la consapevolezza dell’importanza dell’olfatto per la nostra specie.
D’altra parte la vita moderna, contraddistinta dalla cura maniacale del corpo e dal moltiplicarsi di sostanze chimiche presenti nei cibi, nelle bevande e nell’ambiente, non fa che indebolire la nostra sensibilità olfattiva allontanandoci sempre più dai profumi naturali.
Condizionati da una cultura visivo-acustica, che da duemilacinquecento anni ha determinato il nostro modo di sentire e di pensare, abbiamo relegato l’olfatto tra i sensi minori e ne abbiamo dimenticato le capacità cognitive.
A differenza della vista e dell’udito, i sensi nobili, l‘odorato, denigrato dalla filosofia e trascurato dalla ricerca scientifica, ha finito per occupare l’ultimo posto nella gerarchia de sensorio.
Per quanto riguarda la cultura occidentale possiamo dire che la scarsa permeabilità linguistica, la variabilità, la fugacità, l’intimità delle sensazioni che fornisce, l’eccessiva compromissione con le emozioni ci hanno indotti a ignorare il modo in cui gli odori influenzano i nostri comportamenti sociali, sessuali, emozionali, alimentari e a sottovalutarne il ruolo fondamentale nella conoscenza del mondo circostante.
Un naso impegnato a odorare porta il marchio dell’animalità, è associato al piacere, al desiderio e all’istinto e per questo guardato con sospetto e con diffidenza.
Platone lo accostava alla lussuria e ai piaceri frivoli e Kant, il più anosmico dei filosofi, lo definiva il senso più ingrato e apparentemente meno necessario.
Considerato il senso del desiderio e completamente slegato dal pensiero,per Hegel l’olfatto è escluso dall’estetica.
Di contro, il materialista Ludwig Feuerbach, che rompe con l’idealismo hegeliano, rivendicherà i propri legami con il corpo: Io sono un essere reale, sensibile, e il corpo appartiene al mio essere, proprio nel senso che il corpo nella sua totalità è il mio stesso io, il mio stesso essere.
Su un altro versante, sia l’autore di L’origine della specie, Charles Darwin, che Sigmund Freud hanno avanzato l’ipotesi che l’atrofia del naso umano sarebbe il prezzo da pagare per l’evoluzione della condizione umana e della sua civiltà, in particolare dell’evoluzione dei costumi e della repressione culturale.
Com’è evidente nella cultura occidentale non c’è spazio per l’educazione olfattiva.
Ci insegnano a leggere e a scrivere, a riconoscere le forme, i colori e i suoni, ma non ci educano a distinguere gli odori che compongono la nostra vita corrente.
Così l’odorato ha finito col rappresentare il contrario dell’intelletto e la sua marginalizzazione è divenuta il contrassegno dell’umanità civilizzata.
Ma paradossalmente,come a sottolineare l’ambiguità di questo senso, nell’immaginario sociale e in molte espressioni colloquiali che riflettono il senso comune, l‘olfatto ha un nesso privilegiato con la conoscenza, è sinonimo di buon senso, di acume intellettuale.
Sagace deriva dal latino sagire, fiutare. Avere un sesto senso.
Per Friedrich Nietzsche questo sesto senso è quello della conoscenza intuitiva.
Egli oppone alla dialettica il suo fiuto, con il quale sonda animi e cuori e smaschera l’ipocrisia.
Forse è per questo che in Ecce Homo scriverà: Tutto il mio genio è nelle mie narici.
Un’affermazione con la quale si rivaluta l’olfatto in filosofia e si esalta la dimensione dionisiaca della vita.
Uscendo dall’antropsicologia e ritornando a Gaston Bachelard (1884-1962), alla sua epistemologia e allo spazio, egli scrive che esso è sempre percepito come una dimensione della sicurezza, al contrario del tempo che spalanca le porte dell’angoscia.
Per questo le strutture archetipe del costruito cominciano sempre con una copertura, cioè, con un tetto.
I muri vengono in seguito.
La tenda – che sia la yourte mongola, la koté lappone, il tipi dei nativi americani – intesa come un riparo è, in questo contesto, una forma ancora più originaria della capanna.
Nel linguaggio comune avere un tetto significa avere una casa.
Non si dice la stessa cosa dei muri.
Essere sotto un tetto o avere un tetto sulla testa significa essere protetti, trovarsi tra quattro mura significa essere rinchiusi.
Dal punto di vista dell’abitare un tetto senza mura può essere logico (come nel caso di una tenda), un muro senza tetto non è che un recinto, una concentrazione, un luogo concluso.
Si potrebbe dire che costruire tetti è un tratto specificatamente umano.
Gli animali, di contro, scavano delle gallerie, costruiscono dei nidi o delle dighe, ma non fanno tetti.
Nella preistoria stare in una caverna non significava propriamente abitare, era piuttosto un modo per essere radicati in un luogo, un modo per mettere le radici.
Agl’occhi dell’uomo del neolitico erano il luogo e la terra che configuravano l’abitare.
In questo senso la caverna è il “posto” dell’innocenza perduta, una culla e una tomba, allo stesso tempo.
Ancora, se osserviamo bene le culture stanziali privilegiano gli spazio interni. Di contro, l’habitat dei nomadi si confonde con lo spazio e il paesaggio.
Un aneddoto racconta che nell’immediato dopoguerra alcune famiglie di zingari ungheresi furono costrette dalla politica riformista filosovietica a fermarsi e a vivere in un villaggio a loro destinato.
Nel giro di qualche giorno scardinarono tutte le porte d’ingresso.
Oggi con il termine di nomadismo si intende qualunque forma di esistenza sociale che implichi spostamenti periodici necessari alla sopravvivenza e alla riproduzione del gruppo umano.
Questo, sia che si tratti di gruppi che vivono della raccolta di vegetali selvatici e/o della cattura di selvaggina.
Sia che praticano l’allevamento mediante lo spostamento periodico delle greggi di animali addomesticati.
Sia che conducono una vita mobile, solo parzialmente finalizzata alla gestione delle basi materiali dell’esistenza.
Oggi, in particolare, il termine nomadismo è riferibile tanto allo stile di vita degli ultimi cacciatori–raccoglitori delle foreste pluviali e delle aree desertiche del pianeta, quanto a quello delle comunità di pastori nordafricani e asiatici, ma anche a quei gruppi generalmente chiamati peripatetici, gruppi senza fissa dimora come gli zingari asiatici ed europei, i girovaghi e i vagabondi presenti un po’ ovunque nel mondo.
L’ethos – cioè lo stile di vita – dei nomadi si può dire sia contraddistinto sostanzialmente dall’essere sempre sul punto di partire.
In questo senso il territorio per loro è percepito come un insieme di traiettorie e di punti costituiti dalle fonti dell’acqua, del cibo, di riparo, di riunione.
Più importante ancora, dal punto di vista delle strutture sociali e amministrative di coloro che sono stanziali, è il fatto che i nomadi occupano un territorio che spesso riunisce più luoghi senza che essi ne riconoscano la proprietà, né l’assetto amministrativo o politico.
Si può dire che i nomadi obbediscano al nomos – nel significato di usanza – e non alla polis, la città.
In questo modo, fuori dalla città-stato i nomadi sono fuori anche dalla politica e spesso, di conseguenza, dalla vita civile.
L’architettura nomadica, è un’architettura trasportabile, provvisoria, effimera, in qualche modo sembra esprimere la precarietà della vita sulla terra.
È un architettura che non costruisce per radicarsi in un luogo o solo per valorizzare il capitale investito, ma risponde alla logica del ricovero, dello shelter.
Una curiosità, l’Ikea Foundation, il braccio sociale dell’azienda di mobili svedese, ha annunciato che l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati ha ordinato trentamila unità di Better Shelter, il modulo abitativo temporaneo sviluppato in collaborazione con la stessa Unhcr per l’accoglienza dei rifugiati. 1
Diecimila di questi shelter dovrebbero essere utilizzati già a partire dai prossimi mesi.
Rifugi temporanei e necessità, in questo senso, la cultura giapponese (che deve convivere con i terremoti) conosce bene la precarietà a tal punto da averla mutata in una filosofia.
Vediamo questa filosofia a proposito del Santuario d’Isé, che è periodicamente distrutto e ricostruito.
Il Santuario di Ise è un santuario scintoista consacrato alla dea Amaterasu Omikami, situato nella città di Ise nella Prefettura di Mie in Giappone.
Ufficialmente conosciuto semplicemente come Jingū (Santuario), è in effetti un enorme complesso costituito da oltre un centinaio di santuari autonomi, suddivisi in due zone principali, Gekū o Santuario esterno, collocato nella città di Yamada,e Naikū o Santuario interno“, situato nella città di Uji è dedicato alla dea Amaterasu Omikami.
I due complessi sono situati a sei chilometri di distanza l’uno dall’altro e sono congiunti da una via di pellegrinaggio che passa attraverso il vecchio distretto di Furuichi.
In accordo con la cronologia, i santuari furono originariamente costruiti nei primi anni dell’era comune anche se molti storici ne collocano la costruzione molto dopo, nel 690, anno in cui nella il Grande Santuario raggiunse la sua forma attuale.
I santuari del complesso vengono smantellati e ricostruiti, sempre identici, una volta ogni vent’anni, con spese enormi.
Gli edifici attuali, costruiti nel 2013, sono la sessantaduesima ricostruzione, la prossima è in programma per il 2033.
Il santuario di Ise ha anche un tesoro nazionale. In esso è custodito il Sacro Specchio raffigurante Amaterasu, che fa del santuario il più importante sito dello Shintoismo.
Va da se, l’accesso all’area dove è custodito lo Specchio è strettamente limitato, i laici e tanto meno i turisti, non possono vedere altro se non i tetti degli edifici centrali, nascosti dietro tre alte recinzioni di legno.
Vediamo adesso una curiosità che esprime lo stretto rapporto che esiste tra i luoghi e l’emotività dei sogni che li popolano.
Il Genio del luogo (Genius Loci) esprime ciò che di questo luogo è di irriducibilmente singolare e insuperabile.
Nella tradizione europea questo Genio è inteso come un’entità allo stesso tempo naturale e soprannaturale radicata alla terra e spesso oggetto di culto, come nella religione latina.
Tale associazione tra un Genio e un luogo ebbe origine dall’assimilazione del Genio con i Lari – gli spiriti protettori del focolare – a partire dall’età di Augusto.
Secondo Servio Mario Onorato (un retore romano del quarto secolo) nullus locus sine Genio. (Nessun luogo è senza un Genio).
Nessun luogo è senza Genio, scriveva nel suo Commento all’Eneide, Servio.
Faceva riferimento al “Genius loci”,lo spirito, il nume tutelare del luogo a cui si sta facendo riferimento.
Il “Genius loci” affonda le sue radici nell’idea classica della sacralità dei luoghi, che si ritrova sia nella cultura latina che in quella greca.
In particolare, nell’antica Grecia si parlava del Daimon, il demone inteso con un significato ben diverso da quello odierno.
Era uno spirito presente in ogni essere umano con lo scopo di aiutarlo a compiere il suo destino.
Il Daimon non era solo associato alle persone, ma a tutti gli esseri dotati d’anima, e quindi anche ai luoghi.
Per i Latini, il “genio” lo si poteva trovare sia nell’animo di ogni persona, che in quello di qualunque luogo, che fosse un monte, un bosco, un fiume o una città.
In questo modo, si riconosceva ai luoghi una condizione del tutto analoga a quella degli esseri umani.
Dovevano essere rispettati, amati e valorizzati come delle vere e proprie divinità, diventando personificazioni degli elementi naturali.
L’uomo abita la natura, ma l’abita per emanciparsi da essa, per distaccarsene.
Il cristianesimo, per esempio, desacralizza i siti pagani e questa è anche la ragione perché le chiese si benedicono prima di essere costruite e non dopo.
Con l’età romantica un luogo può diventare un sito quando le sue costruzioni sono distrutte, non possono essere abitate, ma mantengono il loro valore artistico.
Pensate ai resti della cultura greca e romana.
In altri termini, i siti sono spesso destinati a divenire indistruttibili luoghi di memoria e di culto.
Siti e senso del tempo: le rovine non sono altro che la punta di iceberg di ciò che ci viene restituito del passato.
I nostri sforzi di tentare di comprendere le dinamiche di vita delle società del passato non sono che tentativi di fronte alla complessità delle infinite situazioni che potevano sussistere.
Come si fa da poche pietre sconnesse che identificano un crollo in una fase tardo antica di una città romana a capire come essa effettivamente andò in rovina?
Perché lì e non altrove?
Perché in quel momento e non in un altro?
E qual è esattamente il momento?
Cosa e perché ha provocato l’abbandono di una città che fino ad un secolo prima era fiorente?
Può un semplice frammento di ceramica raccontarmi i commerci, la vitalità economica e sociale di una città romana?
Può l’assenza di quel frammento raccontarmi di quando e come quella vitalità è scomparsa?
E in questo modo che lo studioso si pone dinanzi al senso del tempo, cercando di districarsi e di districarlo, di dipanarne la matassa.
Di capirci qualcosa.
In Cina un tempo non si costruiva senza il feng–shui, cioè senza aver prima fatto una previsione su come il luogo avrebbe accettato la costruzione e di come si sarebbe armonizzato con esso.
In pratica il feng–shui (alla lettera significa vento e acqua) è una dottrina per la protezione dei luoghi dalle influenze nefaste.
Feng shui significa “vento e acqua”, in onore ai due elementi che plasmano la terra e che col loro scorrere determinano le caratteristiche più o meno salubri di un particolare luogo.
Secondo il taoismo esistono due principi generali che guidano lo sviluppo degli eventi naturali, essi sono il Ch’i e l’equilibrio dinamico di yin e yang.
Lo yin è il principio umido oscuro e femminile, mentre lo yang è il principio caldo luminoso e maschile.
Nel feng shui lo yin è rappresentato dall’acqua e lo yang è il vento inteso forse più come respiro, in fondo acqua e aria sono indispensabili per la vita.
Secondo i principi del feng shui, una casa per essere ben costruita dovrebbe essere quadrata o rettangolare senza angoli o parti mancanti e con forma regolare, dovrebbe avere un drago verde a Est (delle piante alte che proteggano questo lato), una tigre bianca a Ovest (possono esservi anche da questa parte delle piante, ma più basse), una tartaruga a Nord (una collina o un grosso masso) e la fenice rossa a Sud (può essere anche sotto forma simbolica, ad esempio un sasso con un filo rosso avvolto intorno).
La parte sud dell’edificio è la più esposta alla luce ed al calore del sole (almeno nel nostro emisfero) quindi è considerata corrispondente al fuoco e allo yang.
La parte nord della casa è considerata corrispondente all’acqua e alla carriera.
Proprio perché l’acqua corrisponde all’elemento più Yin dell’oroscopo, è la direzione più indicata per il riposo.
Uno dei suggerimenti del feng shui è dormire con la testa rivolta verso nord e i piedi verso sud.
Ciò detto.
Per costruire gli uomini hanno da sempre usato i materiali che esistevano sul posto, legno terra, pietre, al limite il ghiaccio.
Questo ci consente di dire che il modello archetipo della costruzione è la natura.
Che l’estetica nasce come coscienza di questo processo.
L’uomo che costruisce non è colui che crea, ma colui che rivela, che da un volto alla cosa.
Nell’architettura occidentale le pietre dei palazzi sono una firma del luogo.
Per esempio, in Francia, ci sono zone dove la pietra cambia di colore ogni cinquanta o sessanta chilometri e così le chiese, gli edifici pubblici e le case.
Ma c’è anche il caso contrario.
Di pietre trasportate da enormi distanze.
Per le colossali costruzioni di Cuzco o di Machu Picchu gli Incas trasportarono dei blocchi di pietra per distanze valutate migliaia di chilometri.
In ogni caso di tutti i materiali da costruzione la terra è il materiale di un terzo delle costruzioni al mondo.
I vegetali – legno, foglie di palma, paglia – sono un altro dei materiali locali più usato, poi c’è la carta.
Nell’isola di Kiribati – in Micronesia – le grandi case comuni senza muri ( maneaba) sono formate da enormi tetti vegetali montati su pali che possono raggiungere i quindici metri.
Nella nostra cultura, di contro, sono comuni i muri in pietra secca, oggi li consideriamo romantici se non altro perché sappiamo che i muri in cemento armato li percepiamo come qualcosa che separa e isola.
A questo proposito i nuraghi sardi sono delle straordinarie costruzioni in pietra secca.
I nativi americani, di contro, abitano nei tipi, tende coniche di pelle di bisonte.
Al di là delle apparenze la magia e la forza vitale dei luoghi è ciò che ne determina – per i poeti – la bellezza.
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Appendice Uno.
Il tema dell’abitare e del costruire è un’occasione per aprire una piccola parentesi sull’homo faber
Questa espressione ci ricorda che la differenza più evidente tra gl’esseri umani e gli animali è il fatto che l’uomo è il solo che costruisce e fa uso di utensili complessi e, di più, usa utensili per costruire altri utensili.
Uno dei più grandi antropologi del ventesimo secolo, il francese André Leroi–Gourhan (1911-1986) è l’autore di una tesi oggi molto popolare e condivisa, tesi per la quale è la mano e la manualità che hanno preceduto e spesso orientato lo sviluppo celebrale.
Una tecnica manuale semplice non richiede un cervello particolarmente sviluppato quanto una buona organizzazione delle aree celebrali.
Per esempio gli scimpanzé si avvalgono spesso di utensili, ma essi sono trovati e non costruiti e di essi se ne fa un uso occasionale.
Il paragone con lo scimpanzé diventa però interessante se prendiamo in considerazione il fatto che questi usa le mani come strumenti per impastare, intrecciare, schiacciare, mentre altre funzioni sono affidate ai denti.
Siamo quindi in presenza di due poli, uno manuale e uno facciale, con funzioni separate e distinte.
Osservando invece l’evoluzione dell’uomo si rileva che l’acquisizione della posizione eretta coincide con una riduzione dei denti davanti.
Questo fatto suggerisce che grazie alla maggiore libertà acquistata dalle mani, per via della posizione eretta, certe funzioni siano state affidate agli utensili e i denti abbiano perso la loro funzione originale.
Ciò è importante perché in quest’ottica gli utensili non appaiono come un elemento esterno, degli intrusi, ma il prodotto della mano stessa nel corso della sua evoluzione.
Dentro questa narrazione possiamo dire che non siamo diventati costruttori di utensili perché dotati di particolari capacità, al contrario, abbiamo accresciuto le nostre potenzialità intanto che apprendevamo l’uso degli utensili e miglioravamo la loro costruzione.
André Leroi-Gourhan amava dire: È ancora estremamente salutare, che la scienza dell’essere umano sia la più interdisciplinare di tutte le discipline.
A partire dal momento in cui l’essere umano non può più parlare per se stesso, perché è assente o perché è morto o per la mancanza di documenti, vi sono ancora due testimonianze: quella dell’arte e quella della tecnica.
Appendice Due.
Sono soprattutto due i libri di Benoit Goetz che accostano questo studioso all’antropologia dell’abitare.
Goetz insegna filosofia all’Università di Metz in Francia.
Il primo s’intitola La Dislocation. Architecture et philosophie. Il secondo Thorie des maisons. L’habitation, la surprise.
L’obiettivo di Goetz è di usare le parole della filosofia e l’arte della flânerie (nel senso con il quale Walter Benjamin ne ha fatto una tecnica e un’arte dell’osservazione) per portare alla luce i significati più nascosti o sottovalutati all’abitare.
Il motivo per Goetz sta nelfatto che l’abitare è una pratica che risale all’origine dell’umanità e in qualche modo la identifica.
In questo senso la casa non è né un oggetto né un concetto, ma un paradigma dinamico di spazio e di tempo in cui l’uomo può riconoscersi.
Il senso moderno dell’abitare, però, compare solo alla fine dell’800 e, paradossalmente, in una delle stagioni più critiche dal punto di vista della crisi degli alloggi.
Circostanza che ha fatto diventare l’abitare una metafora funzionalista.
Goetz, d’accordo con il filosofo francese Philippe Lacoue–Labarthe, un altro filosofo francese morto qualche anno, ha insegnato all’Università di Strasburgo, non vede l’abitare come un occupare uno spazio perle proprie necessità, ma come un modo d’essere, come il luogo di un pathos, di una passione che ci riflette.
Concepita in questo modo la casa, usando un’espressione di Maurice Blanchot, scrittore e filosofo francese, per essere speciale dovrebbe essere un’habitation sans habitude.
Un luogo dove, alzando il capo da un libro, attraverso la finestra essa si apre al mondo.
Per approfondire questi temi, nell’ambito del vostro piano di studi, vi suggeriamo perlomeno la lettura di Benoit Goertz, Théorie des maisons (2011).
Questo perché la relazione pensare, costruire e abitare, a partire dalla seconda metà del ‘900, è diventata anche grazie alla globalizzazione centrale al dibattito sul modo di pensare il mondo.
Appendice Tre.
A livello inconscio o dei luoghi comuni, per la maggior delle persone l’architettura è associata all’idea di sedentarietà.
Se però si osserva con attenzione la storia abitativa dell’uomo la sedentarietà sembra essere un fenomeno secondario (epifenomeno) in rapporto all’arco temporale dell’esistenza dell’umanità.
È opinione comune che quando i primi uomini smisero di essere cacciatori-raccoglitori cominciarono anche a costruire le prime abitazioni, dunque a padroneggiare l’arte del costruire.
Questo passaggio dal nomadismo alla sedentarietà ha generato, paradossalmente, una visione funzionale e semplificata dell’architettura che, etimologicamente, rinvia al principio di costruzione.
Tra l’altro, in termini funzionali, non si deve dimenticare che anche nelle società più sedentarie esiste una tradizione di architettura nomade per eccellenza, quella navale.
I due concetti, di nomadismo e sedentarietà, se osservati da questa prospettiva, non appaiono quindi così antitetici.
Per venire a noi, va osservato che i primi anni del ventunesimo secolo hanno visto lo sviluppo del nomadismo in architettura sotto vari aspetti.
Un fenomeno che si è accentuato con la globalizzazione, che da anni caratterizza il mondo occidentale.
La globalizzazione ha prodotto la moltiplicazione di luoghi identici nella loro fittizia unicità – il più delle volte fondata sui mall e le sue merci o su i suoi snodi di comunicazione, come gli aeroporti – dove l’uomo nomade ritrova un universo familiare.
Ritrova il suo bush.
Un universo spesso assimilato ai non-luoghi e ai processi di banalizzazione dell’identità sia dal punto di vista cognitivo, sia della sensorialità, come dell’emotività.
In ogni modo questo processo di moltiplicazione dei luoghi si è portato dietro, inevitabilmente, importanti movimenti tra le popolazioni relegate ai confini del mondo occidentale.
Gli uomini sradicati e senza risorse, le masse migranti, soprattutto oggi, ricostruiscono le loro vite in habitat abitativi precari e al limite dell’abitabilità, che possono essere spostati a seconda degli eventi politici ed economici.
Ma cè anche un altro aspetto del problema, i problemi ambientali e la domanda di spazio attraverso le ricerche architettoniche alternative, fanno riscoprire le qualità delle costruzioni prive di fondamenta, dislocabili più o meno velocemente.
In altri termini, il nomadismo, come si può costatare, si presenta in molte versioni e presenta una varietà di approcci architettonici innovativi anche se spesso criticabili.
Come tutti sanno i primi anni del nuovo secolo hanno conosciuto uno sviluppo edilizio senza precedenti.
L’affacciarsi sul mercato di paesi emergenti come la Cina (che oggi consuma circa il quaranta per cento del consumo mondiale dei materiali da costruzione) e l’apertura verso il liberalismo occidentale di molti altri paesi appena usciti dal sottosviluppo sono alcune tra le ragioni che spiegano il boom costruttivo.
All’interno di questo sviluppo l’ampia amma delle modalità architettoniche differenti annunciano il futuro.
In particolare,dai tempi delle tende dei nomadi la tipologia delle costruzioni smontabili e trasportabili si è notevolmente ampliata.
La gamma dei materiali utilizzati è cresciuta enormemente sia grazie alle ricerche scientifiche più avanzate, che anche a un uso dei materiali diverso da quello abituale.
C’è poi d’aggiungere che da tempo le costruzioni nomadi non hanno sempre dimensioni ridotte, come nel caso delle costruzioni destinate allo spettacolo, che presentano spesso i caratteri delle costruzioni nomadi.
Durante il Novecento, c’è d’aggiungere, le ricerche sulle strutture nomadi si sono spesso concentrate sulle abitazioni d’emergenza.
Catastrofi naturali e guerre sono state le cause principali dello sviluppo di numerosi prototipi.
Uno di questi primi prototipi fu la Dymaxion deployment unit (1940) dell’architetto e designer statunitense Richard B. Fuller (1895-1983) monopolizzata dalle necessità militari della Seconda guerra mondiale.
Successivamente l’architetto finlandese Eero Saarinen (1910-1961) presentò nel 1942-43 due progetti di case smontabili: la Unfolding house e alcuni moduli residenziali denominati PAC (Pre-Assembled Components).
ll francese Jean Prouvé (1901-1984) propose nel 1944 per i rifugiati della Lorena il cosiddetto Padiglione 6x6, montabile in una giornata grazie a un preciso e semplificato processo di assemblaggio.
In qualche modo l’evoluzione dei ripari temporanei, più o meno elaborati, è proseguita ininterrotta fino ai nostri giorni.
Tra l’altro, il padiglione di Prouvé ha dimostrato di essere ancora moderno in occasione della sua esposizione alla Biennale di Venezia del 2000.
Diciamo che sono soprattutto le questioni teoriche e esistenziali poste dagli innovatori del secolo scorso a essere ancora oggi al centro delle riflessioni, come la piccola dimensione, i limiti di spazio, l’appartenenza a molteplici luoghi e non più a uno solo, il carattere ripetitivo del processo costruttivo, l’apparente precarietà.
Tra le nuove figure che si sono dedicate all’architettura d’emergenza vi è il giapponese Shigeru Ban.
Nel 1995, per aiutare le persone rimaste senza casa a causa del terremoto di Kobe, questo architetto ha ideato la Paper loghouse, un’abitazione minima la cui struttura portante è costituita da tubi in carta che poggiano su un quadrato di cassette di birra rinforzate da sacchi di sabbia, mentre il soffitto è coperto da un tetto di tela.
Si è trattato di una risposta al bisogno di abitare sia pure con un comfort ridotto.
Le Paper loghouse sono state installate prima nel parco Minamiko mae a Kobe, poi in Ruanda e in Turchia, qui a causa di un terremoto.
La paper tube structure ha permesso a Ban di edificare anche un centro comunitario, la Paper church (1995), e il padiglione giapponese per l’esposizione universale di Hannover del 2000.
Se Ban è stato sedotto dalla carta, materiale tradizionale in Giappone per le pareti divisorie, l’architetto iraniano Nader Khalili ha sperimentato come materiale da costruzione la terra.
Interessato ai problemi delle persone sfollate a causa delle guerre e delle catastrofi naturali, ha condotto delle ricerche sui metodi delle costruzioni tradizionali in terra.
Le strutture da lui progettate (con l’assistenza di Phil J. Vittore, un esperto in archi e cupole costruiti con materiali non convenzionali) permettono di ottenere il massimo dello spazio utilizzando il minimo del materiale sovente reperito sul posto.
Khalili ha mischiato terra e sacchi, con una tecnica che ha chiamato superadobe, per realizzare nel 1995 il suo Emergency sand-bag shelter.
Questo processo costruttivo è semplice e rapido e necessita solo di poche persone.
Le caratteristiche del materiale e del sistema di costruzione rendono queste strutture resistenti ai terremoti, alle inondazioni e ad altre calamità. La terra offre inoltre un isolamento termico e acustico naturale.
Il sistema può servire a costruire anche edifici non residenziali, come scuole e ospedali, e persino strade o ponti.
Tali costruzioni non sono di lunga durata, ma presentano il vantaggio di essere biodegradabili.
Lo shelter di Khalili si è dimostrato di notevole aiuto dopo il terremoto che ha colpito il Pakistan nell’ottobre 2005.
A differenza delle opere progettate da Ban, gli shelters di Khalili sono più effimeri che nomadi. Essi condividono con il tema del nomadismo l’assenza di radicamento al suolo e la possibilità di reimpiegare alcuni materiali in altri luoghi.
Numerosi altri esempi di edifici nomadi d’emergenza sono stati progettati in molte parti del mondo dopo la mostra Crossing. Dialogues for emergency architecture, curata da Zhou Shou e Pan Qing, che si è tenuta al NAMOC, National Art Museum of China di Pechino nel maggio 2009.
A questa esposizione parteciparono, tra gl’altri, anche il Rintala Eggrtosson Architects e Sou Fujimoto, considerato una dei più creativi architetti giapponesi dell’ultima generazione.
Sami Rintala è un architetto finlandese, ha studiato architettura presso la Helsinki University of Technology.
Il suo lavoro si basa sui principi della narrazione e dell’arte concettuale, l’obiettivo della sua poetica tende a un’interpretazione stratificata delle risorse fisiche, mentali e poetiche del luogo ai fini progettuali.
Dobbiamo anche aggiungere che in un mondo dove gli spazi vuoti si riducono ogni giorno, di fronte a metropoli con edifici che faticano a riqualificarsi, la nuova architettura nomade non si esprime più solo all’aria aperta o in aree vergini, ma negli edifici in abbandono.
Analizza i caratteri della nostra civilizzazione urbana, in simbiosi con la tendenza alla scomparsa progressiva delle popolazioni rurali.
Su un altro registro, i traffici marittimi, sempre per restare nel tema del nomadismo, hanno ispirato un architetto come l’inglese Simon Allford dello studio AHMM di Londra.
L’obiettivo della sua ricerca è quello di conferire una seconda vita ai container da trasporto, simbolo della globalizzazione e della circolazione delle merci.
Secondo Allford riciclare i container trasformandoli in alloggi modulabili, corrispondenti a un’unità minima di abitazione, offre una soluzione al problema abitativo e permette di sfruttare territori urbani come le aree dei parcheggi.
Nel 2003 Allford ha concretizzato le sue idee con il progetto MoMo (Mobile Modular apartments). Dopo questa data il container residenziale ha conosciuto una discreta popolarità.
Da qualche tempo,però, le abitazioni realizzate in container prefabbricati, proprio grazie alla loro natura, accolgono soprattutto immigrati illegali in soggiorno forzato.
Facciamo un altro passo avanti.
L’opzione più radicale del nomadismo architettonico lo dobbiamo alle nanotecnologie.
L’ultimo stadio del corpo trasformato in architettura può realizzarsi con le pelli abitabili, i cosiddetti nanodermi, un futuro paradigma dell’abitazione umana se pensiamo che l’inserimento nel paesaggio di una pelle nomade, abitabile e cambiabile, corrisponde a un mito che può diventare realtà.
Qui non si tratta più di vincere il clima esterno, di lottare contro le forze della natura, ma di creare un clima interno che dipende da una tecnologia visivamente discreta, che viaggia senza limiti territoriali.
In tal modo, dicono molti utopisti, spariranno tutte le megastrutture, gli involucri, le bolle, le costruzioni.
L’assenza di qualsiasi traccia architettonica farà sembrare la terra un Eden ritrovato, dove l’uomo sarà necessariamente nomade.
Torniamo verso i temi dell’antropologia.
Per Jacques Attali, un filosofo francese autore di L’homme nomade (2003) è il neonomade il nuovo individuo che dominerà il mondo policentrico del futuro.
Il nomade come l’abbiamo conosciuto fino a oggi porta su di se il peso di un’immagine carica di pregiudizi all’interno di una società che attribuisce importanza ai valori della sedentarietà, del territorio e dei legami ancestrali, che sono visivamente compresi negli stili architettonici propri di ogni Paese d’origine.
Oggi, invece, i rappresentanti di un’élite, per la quale il mondo è un villaggio globale (McLuhan), dispongono di più luoghi di residenza, oppure possono trovare in tutti gli angoli del pianeta un ambiente di vita conforme alle loro esigenze.
In termini più sociologici possiamo dire che qui l’immagine prevale sul messaggio, l’apparenza domina il contenuto, che le rappresentazioni veicolano nuove pratiche architettoniche più o meno valide.
L’uomo, il cui nomadismo è legalmente autorizzato e socialmente apprezzato, che padroneggia le più moderne tecnologie, che il reddito o la nazionalità mettono al riparo dalla condizione di illegale o di richiedente asilo, abita un mondo multiverso che comincia a diventare troppo piccolo.
La sedentarietà sembra essere, come abbiamo visto, una parentesi nell’arco temporale dell’esistenza umana: poco a poco l’uomo ridiventa nomade.
L’urbanizzazione crescente testimonia il cambiamento fondamentale vissuto nel mattino di questo nuovo secolo.
In questo senso la globalizzazione è coinvolta in una re-invenzione del nomadismo: un nomadismo di altro genere, contemporaneo all’avvento della società dell’informazione e della conoscenza.
Il nomadismo in questa prospettiva si definisce come una nuova modalità connessa al popolamento.
All’origine, questo, era associato alla ricerca di pascoli, allo spostamento degli animali.
Nel nostro mondo globale tali bisogni appaiono obsoleti, anche se gl’uomini che vivono alla periferia dell’impero occidentale li ha riscoperti sotto la spinta della necessità.
Così, a mano a mano che nella nostra società segmentata riappare un’organizzazione di tipo tribale, i valori tradizionali dell’architettura si frammentano.
Il popolamento, sia negli spazi interstiziali delle città sia negli orizzonti infiniti del cyberspazio, si distribuisce secondo una ripartizione che tenta di sfuggire a ogni territorializzazione dello Stato, a ogni definizione spaziale.
Il costruire è così soggetto a un errare senza meta: abitare non esprime più il legame con la terra, il radicamento, ma la manifestazione di un bisogno umano elementare, il sogno di un’architettura istantanea.
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RADICI FLUSSI & MODELLI D’INTEGRAZIONE.
I più importanti modelli culturali d’integrazione nell’ambito della cultura occidentale sono essenzialmente quattro.
Prima di esaminarli vale però la pena di ricordare che i modelli culturali, al di là dello storytelling, sono scorciatoie interpretative e che l’identità culturale, come quella etnica, sono leggende senza fondamento.
Il loro uso dunque è essenzialmente didascalico.
Il primo modello è quello endoculturale.
È il modello tipico delle culture chiuse e è di fatto un modello xenofobo.
L’Altro, lo straniero, il diverso sono emarginati e spesso rifiutati allo scopo di tutelare e proteggere la cultura, l’economia, la religione e le tradizioni locali.
Politicamente può essere considerato il modello culturale dei totalitarismi e dei regimi conservatori.
In passato era caratteristico di molte società stabili e avvantaggiate sul piano economico.
Questo modello non è mai stato egemone nei medi e lunghi periodi.
Fuori dallo stato di eccezione è sempre fallito.
Le frontiere dell’ideologia endoculturale sono molteplici. Sono quelle dello Stato, ma possono essere anche quelle della regione, della città, del quartiere.
La xenofobia, infatti, è un’ideologia che può essere agita contro chiunque è definito o ritenuto uno “straniero”.
Va anche detto che l’esperienza migratoria fa parte della storia dell’uomo e nessun muro l’ha mai potuta fermare per molto.
Questo modello è – nei fatti – sostanzialmente uno strumento per relegare lo straniero in una condizione permanente di inferiorità e, se è necessario, trasformarlo in nemico, in responsabile dei problemi irrisolti della collettività ospitante.
La paura che sta alla base dei processi reattivi dell’endocultura non va intesa come un semplice problema di psicologia sociale, perché in realtà ha mire egoistiche.
Tende a preservare determinati vantaggi, come l’utilizzo a costi irrisori del lavoro dello straniero e dei suoi saperi che vengono dall’altrove.
Come l’esclusione dello straniero dai diritti e dai vantaggi sociali.
Soprattutto lo straniero è il capro espiatorio di riserva per ogni crisi locale o nazionale che non sia risolvibile diversamente.
La xenofobia che galleggia sul modello endoculturale lo ha di fatto marginalizzato in quelle nazioni che si vantano o devono mostrare di essere democratiche.
Il secondo modello definito multiculturale o del melting pot, come è chiamato negli USA dove si è diffuso e sviluppato a partire dalle prime decadi del Novecento, anche grazie alle inchieste sul campo della Scuola di Chicago, è il primo che in qualche modo rifiuta la xenofofia esplicita.
È ancora oggi un modello molto popolare e diffuso.
Nella multiculturalità c’è una particolarità, l’elemento centrale non è l’individuo, ma la comunità etnica.
Questo modello predica la convivenza tra le culture, ma queste culture di fatto sono in genere relegate in aree che facilmente con il tempo e le pressioni esterne si mutano in ghetti, hanno spazi identitari distinti e facilmente riconoscibili da tutti.
A proposito di questo modello occorre evitare un equivoco diffuso che lo riguarda perché la convivenza non significa uguaglianza.
Basta osservare come nel melting pot, prima o poi, le varie comunità che lo compongono rivendicano la superiorità della loro cultura e della loro way of life.
Può apparire una sottigliezza linguistica, ma in questo modello di multiculturalità la segregazione progressivamente si muta in separazione.
Le diversità diventano differenze. I confini diventano frontiere invalicabili.
Diciamo che in questo modello alla ghettizzazione come espressione xenofoba si sostituisce la filosofia dei mille ghetti come piccole patrie.
Davanti a questo stato di cose, qual è il problema più sentito da parte dello “straniero”?
O egli rinuncia per sempre a se stesso, alla sua identità, cercando di assimilarsi ai “residenti”, o è costretto a vivere dentro il ghetto della comunità d’origine con la sua cultura e le sue tradizioni che la lontananza da casa finisce per alterare e che trasforma in folclore.
Per usare un’espressione economica è come se le diverse comunità che si formano siano condannate,volenti o nolenti, se vogliono sopravvivere, a conquistare delle rendite di posizione.
È il motivo per il quale nel melting pot ogni comunità ha le sue scuole, i suoi negozi, i suoi giornali o radio locali, le sue televisioni, i suoi circoli culturali e politici, le sue feste religiose.
Questo stato di cose – che accosta queste comunità a dei non-luoghi atipici – fa si che il migrante trovi nel ghetto della società che lo ospita la riproduzione – modello Svizzera in miniatura – della comunità di origine.
Sul piano psicologico sono circostanze che condannano il migrante alla nostalgia e spesso alle sue forme patologiche.
Ma più grave ancora, lo obbligano a soggiacere a due autorità, quella della comunità che lo ospita e quella della sua comunità di origine.
Dal compromesso tra queste due comunità finisce per dipendere, in buona misura, la sua posizione sociale.
Uno dei pericoli della politica del melting pot è che essa finisce spesso per essere il teatro di rivolte che nella loro gestazione sfuggono ai controlli istituzionali e che si sviluppano in forme non convenzionali di conflitto.
È il rischio naturale di tutte le politiche che separano per comandare e per imporre i loro interessi.
Una variante della multiculturalità è rappresentata dal terzo modello, quello interculturale.
Per certi versi è un modello europeo che si diffonde a partire dalla seconda metà del Novecento.
Il leitmotiv di questo modello riposa sul principio che tutte le culture hanno pari dignità e che esse si valorizzino confrontandosi.
In altri termini non ci sono gerarchie culturali, ma solo differenze.
L’individuo è sempre al centro di un gruppo comunitario, ma della sua identità vengono sottolineati solo i contenuti non aggressivi, come la lingua o il folclore.
In linea teorica la valorizzazione culturale non avviene mai a spese di un’altra cultura e a ogni cultura viene riconosciuto il diritto di esistere a parità di diritti.
Il pericolo di questo modello è che si vengano a creare delle comunità immaginarie.
Delle comunità che sono solo una caricature o una tragedia di quelle originarie e che spesso ne cavalcano i limiti e le ossessioni.
Si pensi alla confusione d’identità dei beur francesi.
Beur, femminile beurette, è un neologismo politico che definisce i discendenti degli emigrati dall’Africa del Nord che si sono trasferiti in Francia.
Questa espressione è nata negli anni ’80, ma già qualche anno dopo era entrato nei vocabolari della lingua francese.
L’origine del termine è curiosa.
È stato inventato invertendo l’ordine delle sillabe della parola arabe, a-ra-beu, da cui beu-ra-a, poi beur per contrazione.
Questo termine viene usato per marcare una differenza poliziesca con l’espressione di francese e in qualche modo suona offensivo per il riferimento implicito a beurre (burro).
I beurs hanno origine nei paesi del Maghreb francese – Algeria,Marocco, Tunisia, Libano e Egitto – e essi hanno di fatto creato un insieme di comportamenti, di stili di vita, di abbigliamento, di letteratura, cinema, cucina, umorismo.
L’ultimo modello è quello che postula la cultura come route invece che root.
Che mette in primo piano la transculturalità, vale a dire la constatazione che la cultura come paradigma è un’astrazione, ma non gli individui che sono portatori di culture diverse e inestricabili tra di loro.
È il paradosso inglese. In Inghilterra gli inglesi riconoscono un aspetto della loro identità nel rito del tè. Gli indiani nel gioco del cricket.
Entrambi sono degli specialisti in quello che hanno acquisito.
In questo modello l’elemento centrale è la libera circolazione delle persone, dei capitali, delle merci.
Ma soprattutto delle persone nella loro unicità e irripetibilità perché la dimensione esistenziale è un valore non negoziabile.
La debolezza di questo modello è che lasciando scettici i poteri decisionali non ha la protezione delle istituzioni.
Che non può molto contro l’immensa capacità di devastazione dei pregiudizi.
FINE.