IED – Anno accademico 2016-2017. Sociologia della comunicazione.
Seconda parte – Traccia delle lezioni a carattere monografico:
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Sull’influenza sociale e l’obbedienza.
(Riassunto della lezione)
Quando sono costrette a confrontarsi con conoscenze percepite come disturbanti, le persone cercano di difendersi adottando persino vere e proprie strategie di immunizzazione cognitiva.
- Bauman,
Prima di affrontare questo tema (con i suoi molti e contradditori aspetti) vediamo alcune considerazioni di Robert Trivers, un sociobiologo americano, professore di antropologia e scienze biologiche presso la Rutgers University, famoso tra le altre cose per i suoi studi sull’altruismo. (La follia degli stolti, pubblicato nel 2011).
Per Trivers, siamo tutti dei bugiardi.
Non mentiamo solo agli altri, ma anche a noi stessi, e non sono poche le occasioni di cui approfittiamo per ingannare o per ingannarci.
Può succedere ovunque e in ogni momento.
Durante una relazione sentimentale o al tavolo di una trattativa di affari, quando si pianifica un’operazione di marketing o mentre si discute sul posto di lavoro.
In ogni momento inganno e auto-inganno possono allontanarci così tanto dalla realtà da spingerci verso situazioni incontrollabili, come avviene spesso nell’ambito delle politiche internazionali.
Ma allora perché l’inganno ha un ruolo così importante nella nostra vita quotidiana?
Perché inganniamo?
Molti antropologi sostengono che la menzogna è la forma più efficace di comunicazione umana e che l’auto-inganno si evolve al servizio dell’inganno.
Inganniamo prima di tutto noi stessi al solo scopo di essere capaci di ingannare meglio gli altri.
Falsità, menzogne, bugie sono presenti a ogni livello della vita sociale.
A parte questo, ingannano un po’ tutti, i batteri, le piante, gli insetti e una vasta gamma di specie animali.
Va aggiunto , però, che la simulazione animale ha sempre come posta la sopravvivenza.
Ingannano i virus – che imitano il comportamento dell’organismo che li ospita – fino all’uomo che, manovrando i ricordi distorce e altera (il più delle volte intenzionalmente) i dettagli di ciò che è spiacevole o doloroso.
In teoria il nostro sistema sensoriale si è evoluto per fornirci una visione precisa e particolareggiata della realtà, ma spesso queste informazioni sono percepite in modo da risultare ambigue.
In pratica, siamo diventati così abili da riuscire a negare la verità a noi stessi.
Come facciamo?
– Proiettando sugli altri caratteristiche che in realtà ci appartengono e che stigmatizziamo.
– Reprimendo i ricordi dolorosi e creando dei ricordi completamente falsi.
– Giustificando comportamenti immorali.
– Manovrando in modo da riuscire ad avere un’opinione positiva di noi stessi e mettendo in campo tutta una serie di meccanismi di difesa dell’ego.
Questi comportamenti – tra l’altro – hanno più di un effetto negativo sul nostro benessere biologico.
– Perché allora svalutare o fuggire la verità?
– Perché modificare le informazioni che abbiamo acquisite in modo che alla coscienza arrivi il falso?
– Perché l’evoluzione avrebbe dovuto favorire i nostri organi di percezione per poi farci distorcere sistematicamente le informazioni raccolte?
– Qual è il vantaggio evolutivo dell’auto-inganno?
Vediamo questo tema da un altra prospettiva.
Possiamo definire l’influenza sociale come la pressione che si esercita – in forme più o meno lecite e evidenti – sulla società per alterarne le percezioni, le opinioni, gli atteggiamenti e i comportamenti.
E questo con l’obiettivo di indurre gli altri a obbedire, a non trasgredire o a restare passivi.
In modi diversi questa influenza si può esercitare sia sui gruppi che su dei soggetti isolati.
Può manifestarsi in molti modi, nella forma di una pressione socio-emotiva come nella forma di un’informazione autorevole.
Aggiungiamo che grazie alla natura sociale dell’uomo la pressione che si esercita sui membri di un gruppo risulta sempre più efficace e economica di quella che si esercita sul singolo individuo.
L’influenza sociale, poi, ha forme e strumenti diversi a seconda che sia esercitata da una maggioranza o da una minoranza.
Nel primo caso (esercitata da una maggioranza) l’obiettivo dell’influenza esercitata è quasi sempre quello di indurre al conformismo e ha quasi sempre una forma soft, caratterizzata dalla compiacenza.
Nel secondo caso (quando è esercitata da una minoranza) ha spesso come obiettivo il cambiamento e questo può sviluppare o accentuare dei comportamenti antagonisti.
In questo caso, però, per essere efficace deve concentrarsi in modo particolare sul messaggio oltre che sulla forma.
Dal punto di vista del soggetto possiamo considerare otto atteggiamenti per i quali questo può cedere o resistere all’influenza esercitata.
– Può cedere per accondiscendenza, tenendosi dentro di sé le proprie convinzioni.
– Per accettazione, vale a dire, mutando il proprio punto di vista.
– Per identificazione, in questo caso si dice che è stato affascinato da chi ha provato a influenzarlo.
– Per interiorizzazione. È quando il soggetto si appropria facendo suoi i contenuti dell’influenza a cui è stato sottoposto. È la condizione di condizionamento più duratura e radicata.
Di contro:
-Il soggetto può contraddire le opinioni che riceve, anche se lo affascinano.
– Può mostrare insensibilità, cioè tirare dritto per la sua strada in modo indipendente.
– Può reagire emotivamente, perché pur non condividendo in modo razionale i contenuti dell’influenza si sente emotivamente attratto del convincimento.
– Infine, i soggetti coerenti e motivati possono tentare di influenzare a loro volta chi vuole influenzarli.
Chi e che cosa influenza chi?
-Per cominciare, l’altro da noi, un amico, un conoscente, un vicino di casa, una persona verso la quale ci lega dell’affetto o l’autorità genitoriale.
– Il gruppo a cui siamo legati, qualunque sia la sua natura. En passant, questa è una delle ragioni per cui i gruppi tendono a spezzarsi in sottogruppi.
– Le situazioni che viviamo. Considerato che noi pensiamo e agiamo in relazione con l’ambiente e le circostanze.
– Soprattutto ci influenzano le forme dell’autorità riconosciuta, che di solito esercitano una pressione informativa nella quale il soggetto finisce per riconoscersi e sentirsi legittimato.
L’influenza sociale, in breve, ha spesso il volto della dittatura della maggioranza.
È un concetto politico teorizzato per la prima volta Tocqueville.
Il visconte Alexis Henri Charles de Tocqueville (1805-1859) è stato un filosofo, un politico, un giurista e un magistrato di Francia, laico e liberale, studioso dei sistemi democratici.
Secondo Tocqueville questa dittatura della maggioranza è il principale limite della forma democratica. Il suo lato oscuro.
In linea di massima la dove c’è una sistema democratico (egli ha osservato) la maggioranza finisce per decidere per tutti, ignorando o sottovalutando il punto di vista espresso dalla minoranza.
Punto di vista che, non si può escludere a priori, potrebbe anche essere più autorevole o altrettanto importante di quello della maggioranza.
È il tipico dilemma che rende scettico verso la democrazia il pensiero liberale, tuttavia lo stesso Tocqueville osservò come nelle democrazie mature i diversi punti di vista espressi dalle forme associate (come sono i partiti, i movimenti, leassociazioni o i raggruppamenti) costituiscono e fungono da anticorpi e da bilancieri.
Il comportamento gregario e il consenso apparente sono due tra gl’esiti più diffusi dell’obbedienza sociale acritica.
In psicologia sociale si definisce “effetto gregge” quel comportamento per il quale un gruppo di individui assume lo stesso atteggiamento senza che ci sia tra di loro alcun coordinamento.
Il riferimento al gregge è suggerito dal fatto che molte specie animali tendono a assumere comportamenti identici, soprattutto per difendersi dalla predazione.
Va anche rilevato che il comportamento gregario – grazie all’azione dei media – ha un grosso peso sulla formazione delle mode, così come sta alla base di molti episodi di violenza collettiva, di demonizzazione del diverso, di persecuzione delle minoranze.
L’espressione comportamento gregario o “effetto gregge” è spesso applicato ai comportamenti nelle manifestazioni politiche in quanto i gruppi che vi partecipano solitamente sono solidali.
L’idea di una “mente di gruppo” o di un “comportamento della folla” venne elaborata – come abbiamo già visto – soprattutto da alcuni psicologi sociali francesi negli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento, in particolare da Gabriel Tarde e Gustave Le Bon, e ampiamente adottata (questa idea) dai politici di estrema destra, in particolare negli anni tra le due guerre mondiali, per giustificare la repressione delle dimostrazioni di protesta.
A parte questa sottolineatura, vengono spesso accusati di assumere un comportamento gregario i seguaci delle religioni e soprattutto dei movimenti di culto di natura esoterica, specialmente se hanno una leadership carismatica.
Un altro fenomeno legato al tema dell’obbedienza e l’effetto del falso consenso.
In che cosa consiste?
Nella tendenza a proiettare sugl’altri il proprio modo di pensare.
Molti di noi hanno spesso incontrato delle persone che presuppongono che tutti gl’altri la pensano o devono pensarla come loro.
Questa presunzione, di solito, è infondata e può indurre in un grave errore, di credere di possedere un consenso che non esiste.
Possiamo definirlo un errore ideologico in cui spesso cadono le formazioni politiche.
In particolare la falsa percezione del consenso induce – i movimenti estremisti o radicali – a sovrastimare la reale adesione alle loro idee e la credibilità dei loro valori.
Il falso consenso ha poi un risvolto nell’ignoranza pluralistica.
Può infatti capitare che un individuo disapprovi in privato una convinzione o un’abitudine che invece si trova – per le ragioni più diverse – a appoggiare in pubblico.
In questo caso si possono creare degli equivoci spesso dannosi.
L’esempio tipico è quello dello studente e delle bevande alcoliche.
Non conoscere le circostanze può indurre uno studente a bere in modo eccessivo perché crede che tutti gl’altri studenti lo facciano, mentre in realtà molti di questi studenti vorrebbero evitare di ubriacarsi, ma nessuno lo dice per il timore di essere emarginato o disprezzato.
Vediamo in breve la teoria dell’identità sociale.
Questa teoria (in inglese Social Identity Theory, o in forma abbreviata, SIT) rappresenta uno dei principali modelli esplicativi della moderna psicologia sociale, sia per gli approcci di social cognition, che per la comprensione delle dinamiche che regolano le relazioni tra i gruppi.
La social cognition si occupa in particolare di due temi:
– dei processi attraverso cui gli individui acquisiscono le informazioni dall’ambiente, le interpretano, le immagazzinano nella memoria, al fine di comprendere sia il proprio mondo sociale che loro stesse.
– di come il contesto sociale influenzi le prestazioni cognitive.
Questa teoria, nata negli Stati uniti negli anni ’70 del secolo scorso, parte dall’assunto che gli individui siano caratterizzati dal bisogno di “conoscere” il mondo che li circonda al fine di orientare il proprio comportamento in modo adattativo all’ambiente in cui vivono.
La SIT è stata sviluppata in Inghilterra da Henri Tajfel e John C. Turner a partire dagli anni ’60 del secolo scorso e si è in seguito strutturata come un programma di ricerca nell’ambito della psicologia cognitiva sui gruppi, sia in ambito europeo che nordamericano.
Le prime ipotesi teoriche della Social Identity Theory sono derivate dal lavoro di Tajfel sul cosiddetto paradigma dei gruppi minimali, ovvero, sulle modalità di formazione dei processi di discriminazione e di auto segregazione nei gruppi.
Nelle sue ricerche sui gruppi minimali, Tajfel suddivideva i soggetti sottoposti al test in due gruppi.
I componenti di questi due gruppi erano scelti in maniera completamente casuale e arbitraria, divisi solo da variabili minime e superficiali (ad esempio, la predilezione estetica per i dipinti di Klee rispetto a quelli di Kandinskij).
Poi osservava come, del tutto spontaneamente, i soggetti assegnati ai due gruppi iniziassero a auto-percepirsi come se fossero un gruppo diverso, migliore dell’altro.
Alla fine, i membri del proprio gruppo venivano genericamente “preferiti” rispetto ai membri dell’altro gruppo.
La forte tendenza degli individui a creare distinguo del tipo “noi/loro” nel contesto delle relazioni tra gruppi diversi – anche sulla base di motivazioni del tutto banali – emerse da questi esperimenti come un processo psicologico istintivo (pulsionale), immediato e generalizzato.
In breve, per la Social Identity Theory (SIT) il gruppo è il luogo di origine dell’identità sociale.
Possiamo aggiungere che nell’uomo è spontanea la tendenza a costituire gruppi, a sentirsene parte e a distinguere il proprio gruppo di appartenenza da quelli di non-appartenenza, mettendo in luce dei meccanismi di bias cognitivo.
Il bias in inglese significa inclinazione, nel linguaggio comune è il pregiudizio, in psicologia cognitiva indica un giudizio o un pregiudizio non necessariamente corrispondente all’evidenza.
Un pregiudizio sviluppato sulla base delle informazioni che si possiedono, anche se non connesse tra loro in modo logico o narrativo che porta ad un errore di valutazione o a una mancanza di oggettività di giudizio.
Il bias, in sostanza, è una forma di distorsione delle valutazioni causate dal pregiudizio.
La mappa mentale d’una persona presenta bias laddove è condizionata da concetti precedenti non necessariamente connessi tra loro da legami logici.
Il bias, contribuendo alla formazione del giudizio, può influenzare un’ideologia, un’opinione, un comportamento.
Molti ritengono che sia generato in prevalenza dalle componenti più archetipiche e istintive del cervello, chiamato spesso in modo pittoresco rettiliano.
Dato il funzionamento della cognizione umana, il bias non è eliminabile ma se ne può tenere conto a posteriori (per esempio in statistica e nell’analisi sperimentale), correggendo la percezione per diminuirne gli effetti distorsivi.
In ogni momento della vita, infatti, l’individuo deve utilizzare le sue facoltà cognitive per decidere cosa fare o per valutare la situazione che ha di fronte.
Questo processo è influenzato principalmente dai seguenti fattori:
– Dall’esperienza individuale
– Dal contesto culturale e dalle credenze.
– Dal giudizio altrui.
– Dagli schemi mentali.
– Dalla paura di una scelta che causi danni.
Va aggiunto che se da una parte questi fattori consentono di prendere una decisione in tempi piuttosto brevi, dall’altra parte ne possono minare la validità.
In linea generale ogni persona cerca di valutare la situazione presente in funzione delle esperienze passate, omettendo le differenze ove possibile, al fine di riutilizzare gli stessi criteri adottati in una situazione passata simile.
Omettere tali differenze può essere determinante nell’invalidazione della valutazione finale.
Possiamo dire che l’individuo tende ad omettere certi parametri se nella sua cultura tali aspetti sono visti come tabù, mentre tenderà ad esaltare il ruolo di quelli che sono ritenuti valori positivi.
In sostanza il cervello agisce sulla base di mappe o schemi mentali validi per affrontare la maggior parte delle situazioni che non siano stati d’eccezione.
Infatti esiste un certo numero di situazioni che possono essere affrontate solo uscendo dalle mappe mentali consolidate.
Per esempio, la paura di prendere la decisione errata può portare a prendere la decisione errata, per il famoso paradosso della profezia che si auto avvera.
In sociologia una profezia che si auto-adempie, o che si auto-avvera, o che si auto-determina, è una previsione che si realizza per il solo fatto di essere stata espressa.
Questo perché predizione e evento sono in un rapporto che si può definire circolare, secondo il quale la predizione genera l’evento e l’evento verifica la predizione.
Ad esempio nel mercato finanziario, se esiste una convinzione diffusa che sia imminente un crollo, gli investitori possono perdere fiducia e mettere in atto una serie di reazioni che possono causare realmente il crollo.
In una campagna elettorale, un candidato che dichiari apertamente di non credere nella sua vittoria può indurre apatia o rassegnazione nei suoi potenziali elettori, che si concretizzano in una diminuzione della sua base elettorale.
In psicologia, una profezia che si auto-adempie si ha quando un individuo, convinto o timoroso del verificarsi di eventi futuri, altera il suo comportamento in un modo tale da finire per causare tali eventi.
Per riassumere possiamo dire che l‘identità sociale dell’individuo si costruisce attraverso tre processi tra di loro collegati:
– Il primo è quello nel quale l’individuo costruisce categorie discriminanti di appartenenza, basate su fattori di vario tipo (età, genere sessuale, posizione sociale o lavorativa, religione, appartenenza politica, tifo per una squadra di calcio, ideologie di riferimento, appartenenza etnica, eccetera…), tendendo a massimizzare le somiglianze tra i soggetti all’interno della categoria in cui si pone e le differenze con le categorie contrapposte.
-Il secondo processo è quello dell’identificazione con il quale le varie appartenenze ai diversi gruppi sociali costituiscono la base psicologica per la costruzione della propria identità sociale.
– Il terzo processo è quello del confronto sociale con il quale l’individuo confronta continuamente il proprio gruppo con il gruppo di riferimento, con un atteggiamento palesemente segnato da bias valutativi in favore del proprio gruppo.
Un corollario di questo processo è che se parte della propria autostima deriva anche dalla percezione di superiorità del proprio gruppo rispetto agli altri gruppi di riferimento, questo può portare alla continua ricerca di occasioni di confronto sociale.
Un esempio sono i continui confronti tra opposte tifoserie del tifo organizzato, o lo sviluppo di atteggiamenti razzisti nei confronti degli immigrati.
Bibliografia.
Tajfel H., Gruppi Umani e Categorie Sociali, Il Mulino, Bologna 1999.
Taylor D. M., Moghaddam F. M., Teorie dei Rapporti Intergruppi, Padova 2001.
L’Esperimento di Asch è stato un esperimento di psicologia sociale condotto nel 1956 dallo psicologo sociale polacco Salomon Asch (1907-1996).
L’assunto di base del suo esperimento consisteva nel fatto che la condizione di membro di un gruppo è una condizione sufficiente a modificare le azioni e, in una certa misura, anche i giudizi e la percezione visiva di una persona.
L’esperimento voleva esplorare la possibilità di influire sulle percezioni e sulle valutazioni di dati oggettivi, senza ricorrere a false informazioni sulla realtà o a distorsioni oggettive e palesi.
Va ricordato che il lavoro di Asch influenzò Stanley Milgram (che fu allievo di dottorato dello stesso Asch) e le sue successive ricerche.
L’esperimento.
Il protocollo sperimentale prevedeva che otto soggetti, di cui sette collaboratori dello sperimentatore all’insaputa dell’ottavo (soggetto sperimentale), si incontrassero in un laboratorio, per quello che veniva presentato come un normale esercizio di discriminazione visiva.
Lo sperimentatore presentava loro delle schede con tre linee di diversa lunghezza in ordine decrescente mentre su un’altra scheda vi era disegnata un’altra linea, di lunghezza uguale alla prima linea della prima scheda.
A questo punto chiedeva ai soggetti, iniziando dai complici, quale fosse la linea corrispondente nelle due schede.
Dopo un paio di ripetizioni “normali”, alla terza serie di domande i complici dello sperimentatore iniziavano a rispondere in maniera palesemente errata.
Il vero soggetto sperimentale, che doveva rispondere per ultimo o penultimo, in un’ampia serie di casi iniziava quasi subito a rispondere anche lui in maniera scorretta.
In pratica si adeguava alla risposta sbagliata data dalla maggioranza di persone che aveva risposto prima di lui.
In altri termini, pur sapendo soggettivamente quale fosse la “vera” risposta giusta, il soggetto sperimentale decideva, consapevolmente, pur sulla base di un dato oggettivo, di assumere la posizione esplicitata dalla maggioranza.
Asch constatò anche che solo una piccola percentuale si sottraeva alla pressione del gruppo, dichiarando ciò che vedeva realmente e non ciò che sentiva di “dover” dire.
Nell’esperimento originale di Asch, il venticinque per cento dei partecipanti non si conformò alla maggioranza, ma il settantacinque per cento si adeguò almeno una volta alla pressione del gruppo e il cinque per cento dei soggetti si adeguò ad ogni singola ripetizione della prova.
Per riassumere, gli interrogativi da cui muove Asch nel suo esperimento sono:
1 – Quale grado di autonomia conservano le persone quando sono messe di fronte a una pluralità di individui che esprimono unanimemente valutazioni diverse dalla sua?
2 – Quali condizioni limitano gli effetti che la pressione del gruppo esercita sull’individuo?
Che cos’è – in questa ottica – la conformità sociale?
La conformità è il risultato dell’agire sull’individuo di fattori che tendono a uniformare il suo comportamento a quello del gruppo di appartenenza o del sistema sociale.
In linea generale, nel processo d’interazione con l’ambiente gli individui tendono a sviluppare schemi e sistemi di regole che orientano il loro comportamento e che vengono interiorizzati attraverso i meccanismi di socializzazione, finendo per diventare dei riferimenti normativi.
Tali norme sociali si presentono come credenze condivise e rappresentano criteri di giudizio e/o di azione riguardo a come ci si deve comportare e si deve pensare in determinate situazioni.
Sono credenze di tipo cognitivo, affettivo e percettivo e possono essere sia manifeste che implicite.
I nostri comportamenti sono determinati da tali norme senza che ne siamo consapevoli.
In altri termini il nostro agire si adegua spontaneamente alla norma, ma tale conformità non viene percepita come tale dal soggetto che è convinto di stare agendo liberamente.
Un fattore di conformità deriva anche dall’appartenenza a un gruppo.
In genere si tende a modellare il nostro comportamento su quello dei gruppi di appartenenza, famiglia, amici, conoscenti, ecc.
Anche il ruolo che ricopriamo dentro un sistema gerarchico o le autorità che riconosciamo come legittime sono fattori che producono conformità.
In questo caso la conformità è il risultato di una pressione esercitata in modo esplicito, sotto forma di obbedienza, ad un comando impartito da un’autorità.
Lo studio più esaustivo su questo fenomeno è il testo di Stanley Milgram sull’obbedienza pubblicato nel 1974. E’ pubblicato anche in italiano.
Che cos’è la persuasione?
È l’arte o l’abilità di modificare l’atteggiamento o il comportamento altrui attraverso uno scambio di idee.
A differenza di altri modi di convincimento, la persuasione utilizza solamente le parole o il linguaggio del corpo per riuscire a mettere l’interlocutore in uno stato d’animo specifico a cui punta il persuasore.
La parola persuasione, a volte, può avere un tono negativo.
Ciò è dovuto soprattutto all’utilizzo esagerato e poco etico che ne fanno nelle attività di marketing.
Oggi, il mezzo più importante di persuasione sono i new—media, in particolare, la televisione e la rete.
L’informazione mediatica è un importante strumento di comunicazione che attira l’attenzione degli spettatori e, in genere, chi elabora questi messaggi all’interno dei mass-media, tende a inserisce elementi che possono sedurre, anche inconsciamente, il pubblico, come sono le minacce, il sesso, la violenza, il cibo o la sicurezza.
Attirata l’attenzione il secondo step è quello del convincimento.
In genere in uno spot chi elabora il messaggio non ha molto tempo e spazio per argomentarlo in modo approfondito quindi, la maggior parte delle volte, si distorce il messaggio attraverso un breve appello retorico che serve a evidenziare gli aspetti positivi e nascondere quelli negativi.
In breve, la persuasione, assieme alla suggestione, è il mezzo ideale per la propaganda e il plagio.
Pensiero di gruppo (groupthink), è il termine con cui, nella letteratura scientifica si indica una specie di patologia del sistema di pensiero quando i membri di un gruppo sociale tendono a azzerare i conflitti e raggiungere il consenso senza un adeguato ricorso all’analisi e valutazione critica delle idee.
In questo modo l’autonomia e l’originalità individuale sono sacrificati al raggiungimento dei valori di coesione del gruppo.
In questo modo si perdono quei vantaggi, derivanti da una ragionevole valutazione delle scelte e delle opinioni diverse e contrapposte.
Il fenomeno del groupthink si sviluppa soprattutto in quei contesti sociali in cui i membri di un determinato gruppo evitano di promuovere punti di vista che potrebbero scontrarsi con quello che ritengono l’opinione prevalente e accettata.
I motivi sono diversi.
In genere vi può essere il desiderio di evitare di esporsi in situazioni che possano essere tacciate come ingenue o stupide, oppure c’è il desiderio di evitare l’imbarazzo o l’ira di altri membri del gruppo.
Il risultato di un tale comportamento è un impoverimento dell’obiettività e della logica, con esiti che assumono la forma del consenso, ma i cui contenuti appaiono disastrosi e incomprensibili per chi li osserva dall’esterno.
Oggi il groupthink rappresenta una “patologia funzionale” del comportamento collettivo, soprattutto in politica dove può comportare l’adesione a decisioni irrazionali o contrarie al buon senso e dove i dubbi individuali sono messi da parte nel timore che possano destabilizzare gli equilibri interni.
L’espressione di groupthink (pensiero di gruppo) è usato soprattutto a situazioni già accadute e in un’ottica dispregiativa. Il termine fu coniato nel 1952 da William H. Whyte (1917-1999) un sociologo americano, urbanista e studioso dei fenomeni sociali metropolitani.
Oggi il groupthink è considerato molto di più di un semplice e istintivo conformismo (che dopo tutto è spesso un errore imputabile all’amicizia o alla reverenza), ma una forma razionalizzata di conformismo.
Una visione del mondo – spesso ben argomentata – che considera i valori del gruppo non solo convenienti ma addirittura virtuosi e giusti.
Irving Janis (1918-1990) uno psicologo americano autore di molti studi sull’argomento, lo definiva come:
Un modo di pensare che la gente fa proprio quando si trova profondamente coinvolta in un gruppo coesivo, chiuso e elitario.
Quando l’aspirazione dei membri all’unanimità ha la precedenza sulle loro motivazioni, svalutando la possibilità di differenti linee di condotta.
A ridosso del groupthink ci soni i pregiudizi cognitivi.
Consistono in un’alterazione del giudizio che si verifica in presenza di determinati presupposti.
Alcuni rappresentano forme di adattamento che consentono di essere più efficaci o permettono di prendere decisioni il più velocemente possibile.
Altri, invece, derivano dalla errata applicazione di un meccanismo ideologico, altrimenti positivo in altre circostanze.
Concludiamo accennando all’effetto Zeigarnik, dal nome della psicologa e psichiatra lituana Bijuma Zeigarnik.
Questo effetto consiste nel ricordare i compiti o le azioni incompiute o interrotte con maggior facilità di quelle completate.
Bluma Zeigarnik studiò il fenomeno partendo da alcune osservazioni di Kurt Lewin, e nel 1927, quando era ancora una sua allieva, pubblicò uno studio che descriveva il fenomeno che prese il suo nome.
La Zeigarnik aveva notato che, in un ristorante affollato, un cameriere ricordava tutte le ordinazioni parzialmente eseguite, mentre non ricordava niente delle ordinazioni già concluse.
Per verificare se ciò avesse un fondamento in psicologia affidò a diversi soggetti una serie di esercizi da completare (enigmi, giochi problemi matematici).
In questo modo poté verificare che i soggetti sottoposti al test alla fine dell’esperimento si ricordavano due volte di più gli esercizi non conclusi rispetto a quelli completati con successo.
In breve, l’effetto Zeigarnik spiega anche come la mente umana ha più facilità a continuare un’azione già cominciata e a portarla a termine, piuttosto di dover affrontare un compito partendo da zero.
Questo perchè quando si incomincia un’azione ci creiamo delle motivazioni che rimangono insoddisfatte se l’attività viene interrotta.
Sotto l’effetto di questa motivazione un compito interrotto permane nella memoria meglio e più profondamente di un’attività completata.
L‘effetto Zeigarnik è oggi associato al fenomeno psicologico che sta alla base del funzionamento, in narrativa, del cliffhanger.
É sfruttando questo effetto che nelle telenovele gli episodi si interrompono con un cliffhanger, con un’interruzione brusca che lascia incompiuta la trama dell’episodio al fine di spronare lo spettatore a seguire l’episodio successivo.
In altri termini, è la suspence di chi rimane appeso a un precipizio.
Bluma Zeigarnik (1900-1988) è stata una psicologa e psichiatra lituana di origine ebraica, membro della Scuola di Berlino e del Circolo Vygotskij.
Descrisse l’effetto che porta il suo nome in un lavoro preparato sotto la supervisione di Kurt Lewin.
Durante la seconda guerra mondiale collaborò con Alexandre Luria nella cura delle ferite e dei traumi alla testa. Fu co-fondatrice del dipartimento di Psicologia dell’Università di Mosca e dei seminari di psicopatologia. Morì a Mosca all’età di 87 anni.
FINE
Il paesaggio, l’ambiente abitato.
(Riassunto della lezione.)
Il paesaggio non fa ombra perché non è materiale,
è un frutto del mondo delle sensazioni.
La creazione del paesaggio richiedeva una lacerazione rispetto
al sentimento unitario della natura universale.
Georg Simmel.
Qualunque discorso sulla natura del paesaggio non può non partire dal saggio di Georg Simmel (1858-1918) sulla Filosofia del paesaggio (1913).
Il perché lo dobbiamo al grande sviluppo della filosofia dell’estetica dopo Immanuel Kant, di cui Simmel è stato uno dei protagonisti.
Georg Simmel (1858-1918) è stato un filosofo e un sociologo tedesco.
Ha analizzato gli eventi storici e culturali sia per come sono compresi e vissuti nella vita corrente, sia per come le loro figure sociali vengano costruite dall’interazione tra individui.
Oggi è considerato uno dei padri “fondatori” della sociologia moderna con Durkheim e Weber, anche se non è mai stato un caposcuola per la particolarità dei suoi punti di visti e la libertà del suo pensiero.
Le sue riflessioni sono state apprezzate con il tempo, tanto che può essere considerato uno degli autori di riferimento della Scuola di Chicago.
La sua influenza si scorge anche nella psicologia sociale di George Herbert Mead.
C’è poi da considerare la questione della centralità che il paesaggio ha acquisito nella cultura occidentale e l’importanza che esso ha assunto per lo sviluppo della nostra sensibilità estetica ambientale.
Questa centralità è una conseguenza del fatto che siamo passati da una società industriale a una società post-industriale nella quale ampi spazi di territorio che erano stati depauperati e abbandonati, assecondando la logica dello sviluppo industriale, si sono di nuovo resi disponibili per una riqualificazione.
Va infine considerato l’importante incremento del nomadismo culturale dovuto al turismo e ai nuovi stili di vita abitativi più o meno improntati alla mobilità.
Da tempo sappiamo che la percentuale di popolazione che vive nei centri urbani sta per superare, e in molte parti del mondo occidentale lo ha già fatto, quella residente nelle campagne.
Un fatto di grande rilevanza, perché il paesaggio moderno è soprattutto un’invenzione culturale degli inurbati e delle politiche di territorio, politiche che hanno favorito una nuova forma di polis che ha dato vita a una disseminazione degli insediamenti abitativi tale da rendere difficile fissare un confine netto tra queste due realtà.
La grandezza dei centri urbani non si calcola più solo sul numero dei residenti registrati all’anagrafe, ma sul flusso di quelli che ogni giorno usano la città e i suoi servizi pubblici o privati.
Ecco qualche esempio.
Per l’anagrafe Roma ha, oggi (2015), due milioni e novecentomila abitanti.
Milano, un milione e trecentocinquantamila.
Dal punto di vista dei flussi, invece, Milano ha sei milioni e settecentocinquanta mila abitanti, Roma quattro milioni e trecentocinquantamila abitanti.
Tra le capitali europee la prima è Londra – che si trova al ventiquattresimo posto nella classifica mondiale – la terza è Milano – che si trova al sessantunesimo posto – Roma è settima, ma scende al centottesimo posto. .
Sono dati del Population Data.net.
Sul piano della sensibilità la rivalutazione del paesaggio (nella cultura occidentale) passa anche attraverso una nuova interpretazione dello spazio antropizzato, che si accompagna a un rifiuto sempre più convinto della storica contrapposizione tra natura e artificio.
Tra le definizioni correnti di paesaggio quella che lo indica come una forma di natura percepita attraverso la cultura è la più diffusa, ma questo implica che per vedere un paesaggio ci vuole una riflessione consapevole, che non può limitarsi a considerarlo un semplice dato sensibile.
In altri termini, per vedere un paesaggio dobbiamo possederne un’idea a livello estetico, storico e ambientale o, più semplicemente, una coscienza.
Prima di proseguire va tenuto presente che il fenomeno paesaggistico è l’oggetto di riflessione di molte discipline ognuna delle quali lo impiega in una propria accezione, come è il caso della geografia, dell’ecologia, dell’estetica, dell’architettura e non da ultimo dell’antropologia.
Si deve anche costatare che nella tradizione culturale europea il concetto di paesaggio è nato e ha preso forma soprattutto come un concetto estetico.
La stessa storia della parola lo spiega.
Per cominciare si può notare come nelle lingue germaniche l’etimologia del termine è diversa da quelle neolatine.
Nelle prime la parola che significa paesaggio deriva da Land (terra, da cui Landschaft).
Di contro in francese, italiano e spagnolo la radice rinvia a paese, da cui paysage, paesaggio, paysaje.
Ancora, a differenza delle lingue germaniche, nelle lingue neolatine i termini che rimandono a paesaggio sono tutti neologismi che appaiono tra la fine del Quattrocento e la prima metà del Cinquecento, nati soprattutto per indicare non il paesaggio reale, ma la sua rappresentazione pittorica, vale a dire, il paesaggio dipinto.
Per le scienze sociali il paesaggio, di per sé, è la particolare fisionomia di un luogo determinata dalle sue caratteristiche fisiche, antropiche, biologiche ed etniche.
In questo senso il paesaggio è di fatto legato alla sensibilità dall’osservatore e al modo con il quale viene percepito, interpretato e vissuto.
Per comprenderne il paradigma conviene partire dalla Convenzione Europea sul paesaggio che ha introdotto in Europa nuove modalità per la considerazione e la gestione della dimensione paesaggistica del territorio.
Questo approccio si caratterizza per aver attribuito al paesaggio la qualità di concetto giuridico, cioè di qualcosa che è possibile definire in modo autonomo, in pratica, di un patrimonio che può essere definito e deve essere tutelato.
Perché si è arrivati a questo riconoscimento?
Perché è stato individuato come uno degli elementi chiave per il benessere individuale e sociale, con la conseguenza che la sua salvaguardia, gestione e progettazione, comporta diritti, doveri e responsabilità individuali e politiche.
Da ciò è poi derivato un diritto al paesaggio sempre più sentito e difeso a livello di opinione pubblica.
In termini fenomenologici possiamo dire che il paesaggio configura la forma di un luogo, creata dall’azione cosciente e sistematica della comunità umana che ne ha preso possesso, sia in modo intensivo (come sono gli insediamenti urbani) che estensivo (come sono gli insediamenti agricoli o a basso tasso abitativo).
Insediamenti che interagiscono in profondità con l’ambiente e che concorrono a far emergere e a definire i segni della cultura che lo abita.
Sotto un altro punto di vista, l’espressione di paesaggio non costituisce più l’equivalente di un insieme armonico di bellezze naturali o storico-artistiche, ma rappresenta una delle componenti dell’ecosistema, specificatamente, la componente etico-culturale.
In questo modo – abbandonata l’antica equazione: bellezze naturali uguale paesaggio – l’accento si è spostato, dalla dimensione meramente estetica del territorio, al più complesso concetto di bene ambientale.
Pensato in questo modo il paesaggio si è progressivamente trasformato in un patrimonio (dunque, in un valore) che va riconosciuto, apprezzato e tutelato giuridicamente e economicamente.
Oggi quasi tutte le legislazioni dei paesi occidentali riconoscono al paesaggio la condizione di bene ambientale e culturale, ovvero di portatore di una sua specifica identità che riflette la sensibilità estetica di chi lo abita.
In ultima analisi si configura come un prodotto sociale che non rappresenta solo un bene statico, ma un più articolato patrimonio dinamico la cui valorizzazione è sempre più in relazione con l’azione dell’uomo.
Riassumendo.
La percezione del paesaggio è il frutto di un’interazione tra:
– la soggettività umana.
– i caratteri oggettivi dell’ambiente (antropici e/o naturali).
– i mediatori socio-culturali legati al senso di identità che una cultura riconosce in un dato momento a un determinato tipo di ambiente.
Ne consegue che il paesaggio di per sé non coincide più con l’immagine statica di un luogo, perché l’azione dei mediatori socio-culturali e della soggettività umana gli hanno attribuito la capacità di produrre senso.
Tutto ciò implica che un paesaggio racchiude nella sua rappresentazione sia la realtà materiale che l’apparenza di questa realtà.
Insieme – queste due realtà – consentono la sua estetizzazione e la sua story–telling.
In questo senso si può dire che il paesaggio va oggi considerato una forma di linguaggio o, meglio, non esiste un paesaggio senza una sua rappresentazione visuale-narrativa, attraverso la quale la cultura manifesta le proprie aspirazioni e partecipa al processo di scambio tra l’uomo, la natura e i congegni di mediazione tra queste due realtà.
In sintesi il paesaggio è un elemento sostanziale e illuminante della qualità della vita, dell’estetica e dell’architettura di un luogo, a tal punto che il progresso, la decadenza, la carestia, l’abbondanza, gli effetti della guerra o quelli della pace, la sua dimensione narratologica o mitologica sono inscritti nel suo profilo espressivo e sono interpretabili culturalmente.
Nei limiti della nostra analisi perché una società sia considerata paesaggistica deve soddisfare ai seguenti criteri:
– esistenza e uso del paesaggio in quanto paesaggio.
– esistenza di una letteratura sui paesaggi e sulla loro morfologia o, in sub ordine, sulle loro qualità estetiche.
– esistenza di rappresentazioni pittoriche di paesaggi (terrestri e marini).
– esistenza di parchi e giardini.
Questi criteri sono tracciati sulla falsariga di quelli che propose qualche anno fa il geografo francese Augustin Berque.
Oggi sono ritenuti in buona parte superati perché non possono essere generalizzati.
In linea generale si ritiene che ogni cultura abbia il diritto a elaborare i propri criteri di riconoscimento di una realtà paesaggistica a partire dalla propria sensibilità verso l’ambiente.
In ogni modo e in base ai criteri di Berque la prima società paesaggistica di una certa importanza fu la Cina, a partire dal quarto secolo dell’era comune.
In Europa bisognerà aspettare il sedicesimo secolo per trovare tutti questi elementi sufficientemente diffusi.
Una curiosità letteraria.
Gli studiosi fanno risalire la prima descrizione di un paesaggio a Francesco Petrarca (1304-1374).
Viene dedotta dal testo della sua famosa lettera sull’ascesa del monte Ventoso, in Provenza, oggi definito dall’Unesco una riserva di biosfera, soprattutto per la sua geologia e la sua flora.
In tutti i casi, essendo il paesaggio un processo evolutivo e non un’entità immutabile nel tempo, il suo studio deve partire dal passato, ma deve soprattutto proiettarsi nel futuro o, almeno, in quello che le tendenze attuali suggeriscono che esso sia.
Va anche osservato che nell’ambito della narratologia paesaggistica, la geografia umana tende a privilegiare gli aspetti culturali, simbolici e emotivi.
Il paesaggio è l’esito di uno sguardo sul territorio che lo sguardo storicizza.
Le ricerche geografiche degli ultimi decenni del Ventesimo secolo hanno messo in luce l’impossibilità di definire in modo univoco il paesaggio, va tenuta presente per valutare il lavoro della Commissione Europea che lo ha analizzato, studiato è riassunto in un unico documento.
La Convenzione Europea del Paesaggio è un documento adottato dal Comitato dei Ministri della Cultura e dell’Ambiente del Consiglio d’Europa, riunitosi a Firenze nel luglio del 2000.
Questa convenzione è stata firmata dai ventisette Stati della Comunità Europea e ratificata da dieci, tra cui l’Italia nel 2006.
Oltre a concordare su una definizione di paesaggio la convenzione ha poi disposto i provvedimenti in tema di riconoscimento e tutela, che gli stati membri si impegnano ad applicare.
In questi provvedimenti sono definiti le politiche, gli obiettivi, la salvaguardia e la gestione relativi al patrimonio paesaggistico.
Patrimonio di cui è riconosciuta un’importanza culturale, ambientale, sociale, storica quale parte del patrimonio europeo e elemento fondamentale per garantire la qualità della vita delle popolazioni.
Come è facile costatare in questa definizione emerge la natura antropica del paesaggio, ovvero l’importanza ricoperta dal ruolo dell’azione umana.
Questo ruolo è descritto come l’aspetto formale, estetico e percettivo dell’ambiente e del territorio.
La Convenzione prevede, inoltre, la salvaguardia di tutti i paesaggi, indipendentemente da canoni prestabiliti di bellezza e/o originalità, e include espressamente:
“ …i paesaggi terrestri, le acque interne e marine, così come i paesaggi che possono essere considerati eccezionali, sia i paesaggi della vita quotidiana, sia i paesaggi degradati.” (Art. DUE).
Il concetto di paesaggio degradato è quello più interessante per l’antropologia culturale, sia per la complessità che per la varietà e, in prospettiva, per la sua futura gestione riabilitativa.
Si pensi solo agli habitat compromessi dall’uomo, con le guerre, le attività estrattive, la deforestazione, la costruzione delle infrastrutture di trasporto, l’inquinamento del suolo e dell’atmosfera, eccetera.
In sede scientifica è invece opportuno riconoscere la specificità di ogni approccio teorico, per metterne in luce la diversità, come prova la stessa storia dell’arte.
Possiamo dire che a partire dall’ultimo secolo della lunga stagione dell’arte bizantina (si è sviluppata in Europa tra il quarto secolo e il quindicesimo secolo) i pittori e gli artisti riservarono, in modo più o meno deliberato, una parte delle loro opere alla descrizione dello spazio e del paesaggio in cui si svolgeva la rappresentazione.
Tra di esse, a solo titolo di esempio, si può segnalare il magnifico affresco dell’Allegoria e Effetti del Buono e del Cattivo Governo (1338) di Ambrogio Lorenzetti (1290-1348).
In Italia, poi, le tecniche di rappresentazione pittorica cambiarono con l’arrivo dell’influenza della miniatura francese e della pittura fiamminga.
Nel senso che gli scorci paesistici divennero sempre più curati, in modo da evidenziare i soggetti in primo piano e rendere la composizione più monumentale, con il ricorso a scorci suggestivi e di ampio respiro.
La nascita del paesaggio, come genere autonomo, risale invece alla seconda metà del Quattrocento, tra i protagonisti di questa svolta vanno segnalati soprattutto Leonardo da Vinci (1452-1519) e Albrecht Dürer (1471-1528).
Non va però dimenticato come anche nei dipinti di Piero della Francesca (1412-1492) si riscontrano scorci ed inserti di paesaggio che fanno da sfondo (spesso psicologico) per la rappresentazione della figura umana collocata in primo piano.
È soprattutto con la Vergine delle rocce e la Gioconda di Leonardo da Vinci che il paesaggio fa un ulteriore passo in avanti nella pittura.
Entra nella sua scena figurativa non solo con la sua unicità naturale, ma anche la sua resa atmosferica, vale a dire l’aria diventa una cosa pittorica che si frappone tra i soggetti in primo piano e lo sfondo caricandolo di suggestioni.
Poi, nel 1508, Giorgione (1477-1510) dipingerà uno delle tele più belle della storia della pittura italiana, La tempesta.
Oggi è ritenuta la prima rappresentazione matura di un paesaggio che è al tempo stesso immaginato e reale, un’allegoria, per la presenza concomitante della natura, di un uomo (un soldato), di una donna con bambino, (espressione della fecondità e della vita che si rinnova), di una città (sullo sfondo) e della maestà della storia (rappresentata da alcuni resti archeologici).
Va anche detto che tra il Quattrocento e il Cinquecento, nella cosiddetta area fiamminga dell’Europa settentrionale, operarono molti specialisti della pittura di paesaggio, spesso con piccoli quadri di genere, destinati alla decorazione delle case borghesi, un’assoluta rivoluzione.
Nelle zone di lingua tedesca, dove la Riforma protestante aveva allontanato la popolazione dalla cultura cattolica romana e dalle sue immagini religiose, operarono i grandi interpreti del paesaggio nordico, come Dürer, i cui acquerelli di paesaggi alpini rivelano un profondo rapporto emotivo tra la figura dell’uomo, la sua opera e la natura.
A questi acquarelli si possono affiancare gli affreschi classicisti del bergamasco Polidoro da Caravaggio (un allievo di Raffaello) in S. Silvestro al Quirinale a Roma (1525).
Oltre al particolare interesse della pittura veneta per il paesaggio (Giovanni Bellini e Giorgione), è nel Seicento che questo diventò un genere autonomo, con l’affermazione del paesaggio ideale immaginato da artisti come Claude Lorrain, Annibale Carracci, il Domenichino, Nicolas Poussin.
Sempre nel Seicento si affermò nelle Fiandre anche uno stile realista, che rappresentò con grande verosimiglianza la terra e il mare olandesi.
Nel Settecento, poi, in tutta l’Europa il paesaggismo divenne una moda aristocratica che fece da contraltare alla pittura libertina. Soprattutto in Gran Bretagna, dove operarono schiere di artisti, tra i quali i più celebri e celebrati sono John Constable e William Turner.
E’ importante notare che l’interesse per la pittura di paesaggio andò di pari passo con l’affermazione dell’estetica nella filosofica moderna, che aveva scoperto e teorizzava il cosiddetto sentimento del sublime.
Nel corso dell’Ottocento si ricercò nel paesaggio vissuto soprattutto un significato e un legame con la propria cultura.
Nei paesi di lingua tedesca, i maggiori artisti si dedicarono quasi esclusivamente a dipingere la natura, questa scelta ebbe anche un significato politico (inverato dal Romanticismo tedesco), poiché era orientata (polemicamente) contro il classicismo accademico francese.
In ogni modo, a partire dalla metà dell’800, in Francia, i pittori di paesaggio diffusero la pratica della pittura all’aria aperta (en plein air), da cui si svilupperà l’impressionismo.
Sono i pittori della Scuola di Barbizon.
Grazie anche alla disponibilità dei colori in tubetto e all’invenzione inglese dei pennelli piatti, muniti di una corona metallica, uscirono dagli atelier e affrontarono la natura dal vivo, con le sue mutevoli luci e atmosfere.
A questo proposito occorre ricordare il celebre ciclo di circa trenta dipinti composto tra il 1892 e 1894 da Claude Monet.
Monet dipinse la facciata della cattedrale di Rouen nei diversi orari della giornata e dell’anno (diverse luci, diversi colori, diverse stagioni rappresentate), sottolineando e lavorando sulle differenze cromatiche. In questo modo il soggetto di questi dipinti, la cattedrale, divenne tanto importante quanto la luce stessa.
La luce, come gli artisti sanno bene, è difficile da catturare se non altro perché è in continuo mutamento.
Ma l’abilità impressionistica di Monet vince queste difficoltà, l’intreccio dei colori e l’uso brillante delle texture gli servirono a creare una serie di immagini cangianti di luce e colore, facendone dei capolavori.
Dopo l’impressionismo, come racconta la piccola storia, le ricerche degli artisti d’avanguardia misero in crisi i generi pittorici. Il paesaggismo fu superato dall’attenzione al linguaggio, ossia al modo in cui il soggetto è rappresentato.
O, come diceva Marcel Duchamp, il suo superamento è un effetto della crisi della pittura retinica…o della sua bulimia.
Vediamo adesso il paesaggio in una prospettiva più fenomenologica.
Come abbiamo già ricordato molti studiosi si sono occupati della forma di paesaggio, tra i primi spicca il lavoro di Georg Simmel.
Nel saggio Philosophie der Landschaft, scritto da Simmel tra il 1912 e 1913, l’idea di paesaggio è anzitutto presentata distinguendola accuratamente da quella di natura.
Il paesaggio, scrive Simmel, non può essere considerato natura.
Natura è “l’infinita connessione delle cose, l’ininterrotta nascita e distruzione delle forme, l’unità fluttuante dell’accadere che si esprime nella continuità temporale e spaziale.”, è “un’unità priva di contorni” che nel suo senso più profondo ignora l’individualità, in quanto non ha parti.
Natura è quel infinito e indifferenziato fluire, segnato dall’idea di continuità e dell’assenza di profili definiti e precisi, cioè dall’assenza di forme.
Paesaggio invece è una delimitazione del tutto, finita e dinamica della natura.
“La natura. che nel proprio essere e nel proprio senso più profondo ignora l’individualità, viene trasformata nella individualità del paesaggio dallo sguardo dell’uomo, che divide e configura in unità distinte ciò che ha diviso”.
Dunque il paesaggio si staglia all’interno dell’infinità della natura come un organismo o un’opera d’arte, come un mondo a parte strutturato intorno a un significato.
La natura in questo senso costituisce il presupposto del paesaggio, lo sfondo che ne disegna il contesto metafisico e che, di conseguenza, conferisce al paesaggio quell’elemento spirituale che esso ha in comune con l’opera d’arte.
Per Simmel la particolare forma di unità rappresentata dal paesaggio presuppone una vera e propria lacerazione (Losreissen) storica (avvenuta nella modernità) del sentimento unitario della natura universale.
Si tratta di una rottura, di una scissione (Spaltung) che avviene a livello del vissuto dell’uomo, e non solo di una delimitazione spaziale, di un orizzonte fisico che il paesaggio (per definizione) presuppone.
L’idea di fondo di Simmel (molto positiva e laica) è che il paesaggio nella modernità nasce quando si avvertono come limitanti i legami originari con la natura, quando le relazioni con essa diventano un freno per la formazione della personalità individuale.
Solo in conseguenza di questo disagio si da la possibilità e l’esigenza di godere della natura nella sua forma individuale di paesaggio.
In un certo senso è per questo che la storia del bello naturale racconta che si ama sempre la natura che si è perduta.
Al contrario, è proprio la stretta relazione dell’uomo dell’antichità con la natura che impedisce (all’interno della cultura classica) che si formi l’idea di paesaggio, di cui manca anche la parola.
Bella, nel mondo antico, è la natura nel suo insieme, intesa come un cosmo ordinato, retto da leggi geometriche conoscibili, da simmetrie ed equilibri razionali, entro i quali l’individuo si riconosce e si riflette come parte.
Diciamo che il paesaggio per Simmel ha l’impronta della natura, ma al tempo stesso, è più che natura, è un costrutto culturale che la trascende senza rinnegarla.
In questo modo il paesaggio (di per se) non è nulla di fisico, niente di dato e di oggettivo.
Ciò che esiste è solo la natura nei suoi infiniti elementi non unificati, che divengono degli interi (delle Gestalt) se lo sguardo dell’uomo ne inventa l’elemento spirituale e lo rende reale.
Per questo non possiamo toccare un paesaggio, o camminarci attraverso, dice Simmel, è una forma astratta (spirituale), è l’esito dell’attribuzione di un significato, vive solo in relazione con l’uomo e diventa tale solo in esso.
Se ogni paesaggio è frutto della proiezione di schemi e di modelli artistici che negano la sua esistenza oggettiva, allora non esiste nessuna regola assoluta che ci consenta di distinguere un paesaggio da un non paesaggio, se non in chiave ideologica o storica.
Paradossalmente non è l’arte a imitare la natura, ma la natura a imitare l’arte, non ci sono nella cultura occidentale dei criteri oggettivi che sanciscano o escludano il valore estetico delle diverse parti della natura.
FINE
CONFINI
(Riassunto della lezione.)
I dizionari definiscono il confine come una linea, naturale o artificiale, che delimita l’estensione di un territorio, di una proprietà o la sovranità di uno Stato.
Porre o disegnare un confine, nel suo significato metaforico, è un modo per confrontarsi, misurarsi, pretendere, riaffermare dei significati.
L’obiettivo di chi si rinchiude in un confine è soprattutto quello di possedere uno spazio autonomo dove stabilire le proprie regole e, allo stesso tempo, sottolineare un’autonomia che deve essere visibile dall’esterno.
Un’autonomia che deve apparire come una diversità riconoscibile e riconosciuta.
In questo senso il confine mostra sempre quello che è il suo carattere fondamentale:
Segnalare il luogo di una differenza, reale, immaginaria o presunta.
Ma un confine, in termini gnoseologici, è molto di più.
Rappresenta qualcosa che appartiene all’immaginario e ha poteri di natura impositiva.
Tenerlo presente aiuta a comprenderne l’importanza che esso ha sia nella cultura, che nella geopolitica, nella storia, come nella contemporaneità.
In termini fenomenologici il confine è qualcosa di radicato alla terra e al territorio, lo si vede bene nel suo etimo, soprattutto nelle lingue indoeuropee.
In queste lingue il confine rimanda al solco che il vomere, trascinato dall’aratro, traccia nel terreno.
L’etimologia suggerisce che la radice “ar“, di aratro, indica il muoversi verso, il penetrare, lo spingersi e – al limite – il colpire.
Sullo stesso piano l’etimo di vomere, in sanscrito, rinvia al fendere,al lo spezzare, al recidere.
Sul piano topologico – vale a dire dello studio dei luoghi – il fine di un “con.fine” è quello di sottrarre dello spazio al nulla, appropriarsi di uno spazio che appartiene all’infinito indistinto.
In sostanza, il confine, attribuendo una dimensione geometrica e culturale a uno spazio che non ha una dimensione, lo fa esistere, gli da una consistenza, un’identità e un nome.
Con l’espressione di frontiera, invece, s’intende la linea di confine di uno Stato (o anche la zona di confine, vale a dire, una stretta striscia di territorio che sta a ridosso del confine) ufficialmente delimitata, riconosciuta, e dotata, in molti casi, di opportuni sistemi difensivi e offensivi.
In senso figurato la frontiera è la linea che separa in modo inequivocabile ambienti, situazioni o concezioni differenti, spesso intesa come un confine che può essere spostato e modificato, soprattutto in senso progressivo.
C’è nella storia delle nazioni una frontiera particolare è quella americana.
Secondo Turner la frontiera è alla base della storia americana, intesa come storia della colonizzazione dell’Ovest.
Il termine frontiera aveva assunto il significato di regione scarsamente e recentemente popolata, a diretto contatto con il wilderness, il territorio non colonizzato o più in generale, l’ignoto.
Lo spirito di frontiera significava essenzialmente individualismo, iniziativa, rischi, democrazia diretta.
Non per caso nelle nuove terre poterono svilupparsi, spesso in modo originale, le istituzioni, radicarsi le tradizioni e le esperienze religiose, più libere da impacci organizzativi e dogmatici, perché più adatte alle condizioni dell’espansione colonizzatrice.
Frederick Jackson Turner (1861-1932) è stato uno storico americano famoso soprattutto per il libro The Significance of the Frontier in American History (Il significato della frontiera nella storia americana), nel quale sviluppo una teoria della frontiera.
Nella cultura latina la traccia del vomere rappresenta il solco “fondativo” della città e dunque dello spazio cittadino.
In questo senso è il vomere che disegna la linea materiale e culturale che separa la città dalla campagna, l’interno dall’esterno.
Il confine, dunque, è stato per gli uomini e per secoli una traccia magica.
Magica perché il sito che racchiudeva anche se era scelto dagli uomini, era rivelato a loro dagli dei.
Non è per caso che colui che traccia o disegna il solco è quasi sempre uno sciamano o un sacerdote.
Una volta che gli dei hanno rivelato il sito (diciamo il posto) l’aratro lo circoscrive e questi deve essere manovrato in modo da far cadere la terra smossa all’interno del recinto.
Nei punti, poi, in cui devono essere aperte delle porte – per esempio, secondo la cultura etrusca, in numero di tre, ma ogni religione ha sempre avuto il suo numero e un’idea su dove aprirle – il sacerdote/fondatore doveva sollevare l’aratro e trasportarlo per tutta la larghezza dell’apertura in modo da non offendere il luogo di passaggio.
Nel mondo latino questo sacerdote è il Rex, colui che ha il potere di tracciare un confine mediante l’uso della regula nel suo duplice significato di linea diritta che delimita un territorio e di norma da seguire.
Tracciare un confine equivaleva a disegnare sulla terra una rappresentazione dell’ordine cosmico.
Per i Romani gli assi di un sito erano il cardo (che significa polo), e il decumano, l’asse che segue il corso del sole.
Insieme tracciano l’orientamento urbano della città romana.
Il cardine (che deriva dal latino cardo) era una delle vie che correva nelle città romane in direzione nord–sud.
Queste vie erano solitamente basate su uno schema urbanistico ortogonale, ossia suddivise in isolati quadrangolari uniformi.
Uno schema molto popolare soprattutto per quanto riguarda l’urbanistica degli accampamenti militari e degli insediamenti coloniali.
Uno degli assi principali della centuriazione e più in generale dell’urbanistica cittadina era chiamato il cardo maximus. Si incrociava ad angolo retto con il decumanus maximus, ovvero il principale asse est–ovest.
Quanto alla centuriazione (centuriatio) era il sistema con cui i romani organizzavano un territorio agricolo, basato sullo schema che usavano negli accampamenti militari e nella fondazione delle nuove città.
Si caratterizzava per la regolare disposizione, secondo un reticolo ortogonale, di strade, canali e appezzamenti agricoli, destinati in genere all’assegnazione a coloni o a legionari a riposo.
Di regola, all’incrocio di queste due direttrici principali si trovava quasi sempre il forum, ossia la piazza principale della città.
Com’è facile intuire dagli etimi il solco ha una dimensione e un carattere morale, distingue ciò che è retto da ciò che è storto.
In altri termini incidere la terra con il vomere (che come abbiamo visto rimanda al verbo spezzare) è la celebrazione di un sacrificio.
Roma stessa nasce sul sacrificio per mano di Romolo, di Remo, ucciso da questi perchè aveva osato scavalcare per dileggio, come riporta Tito Livio nella sua storia di Roma, il confine appena tracciato.
Una leggenda che contiene una lezione. A partire dall’antichità per arrivare fino ai giorni nostri, farsi gioco dei confini è sempre stato e è ancora pericoloso.
Dentro il terreno scavato dal solco spesso ci sono dei sassi o delle pietre.
Anch’esse finiscono parte di un rituale, vengono tolti e accatastati sul bordo per diventare un segno tangibile dei suoi confini, dei suoi margini.
Da qui, poi, l’origine dei muri a secco, muri composti da sassi e pietre sovrapposti che cingono e difendono lo spazio liberato.
Queste pietre, che per questa loro funzione acquistano spesso poteri particolari, oltre a costituire un riparo, diventano in molte culture un rimedio all’ansia, all’incertezza e al non delineato.
Poi il muro, grazie alla ferocia, all’astuzia e all’abilità degli uomini, diventa limes, vallo, muraglia, può resistere il tempo di un assalto o durare secoli.
Più si rafforza e diviene imponente più appare sicuro.
Più è sicuro e più attira contadini, mercanti, viaggiatori, nomadi, gente da luoghi diversi e insicuri.
Con il tempo attorno a questi muri si formeranno delle comunità artigianali che vivono e commerciano lontano dal centro abitato dai signori.
Comunità che si muteranno in borghi, dai quali, secoli dopo, nascerà un nuovo tipo di “homo faber”, il borghese.
***
Cum-finis, alla lettera confine, è ciò che separa e nel contempo ciò che unisce, che è in comune con l’altro, qualunque cosa l’altro o l’oltre sia o significhi.
L’ambiguità del concetto di confine, e la sua profonda tragicità socio-politica, questa ambiguità è dovuta innanzitutto alla sua natura artificiale, alla sua convenzionalità.
In questo senso è indicativo che il concetto di confine richiami immediatamente il concetto di alterità, e quest’ultimo quello di identità.
Una contiguità che dovrebbe far riflettere sulla natura e l’utilità dei confini, sia logici che materiali.
Blaise Pascal, ironicamente, aveva notato che ciò che era vero al di qua dei Pirenei spesso non era più vero al di là e questo spinge a interrogarsi su cosa c’è in comune alle due pendici di quella medesima catena montuosa e se c’è, quale è e dove è la verità che sta oltre, sopra, sotto o intorno.
La definizione politica di confine che potremmo definire classica, emerge tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento dalla dottrina generale dello Stato e dalla geografia politica, soprattutto a cura di autori tedeschi.
Scrive Ratzel nel 1897:
“Ogni Stato, in sostanza, è una porzione di umanità. È una porzione di territorio… L’uomo non è pensabile senza la terra… e tanto meno è pensabile la più insigne opera dell’uomo sul nostro pianeta, ovvero la forma di Stato”.
Friedrich Ratzel (1844-1904) è stato un etnologo e un geografo tedesco tra i più autorevoli.
È il fondatore della geografia antropica, detta anche antropogeografia.
È stato colui che ha coniato l’espressione di spazio vitale (Lebensraum), espressione che ha poi avuto una larga diffusione nell’ambito demografico e soprattutto politico.
I suoi studi nel campo dell’etnologia diedero vita alla così detta scuola storico–culturale di antropologia.
Sono gli anni in cui l’unitarietà e l’indivisibilità del territorio della nazione, insieme alla formale unità di popolo e di potere, rappresentavano gli elementi essenziali che concorrevano alla definizione della forma di Stato.
In quest’ottica la definizione di confine è una conseguenza in qualche modo scontata dell’esistenza degli Stati Nazionali.
Il confine è l’astrazione che consente di definire il processo di espansione di una popolazione o il limite dell’ambito territoriale di validità del potere di uno Stato.
George Curzon, che fu ministro degli esteri inglese e viceré in India, negli anni precedenti la prima guerra mondiale (1908) affermava che “l’integrità dei confini e la condizione di esistenza dello Stato”.
E aggiungeva: “I confini sono la lama di rasoio su cui sono sospese le questioni moderne della guerra e della pace”.
In queste considerazioni sulla definizione classica di confine c’è la cornice dentro cui si è consumata la storia delle migrazioni in Europa tra l’Ottocento e il Novecento.
In altri termini, la tenuta dei confini e la netta distinzione tra spazio interno e spazio esterno è stata la condizione che ha consentito il prendere forma, all’inizio del secolo scorso, di importanti e in qualche modo ben definiti sistemi migratori.
O meglio, ha permesso il nascere di una composta, sottomessa, disperata – dal punto di vista delle culture stanziali e nazionali – geografia delle migrazioni internazionali, come fu il caso di quella italiana verso gli Stati Uniti d’America.
A questo proposito, va notato come, a dispetto delle story–telling di comodo, in questi ultimi anni sono molti gli storici che hanno scritto come l’apparente pacifica e idilliaca rappresentazione delle migrazioni del secolo scorso è servita sia a stigmatizzare quelle odierne e sia a mettere in ombra la immane tragedia che queste hanno rappresentato per centinaia di migliaia di persone.
Va aggiunto che da quando si sono sviluppati, soprattutto nei paesi di lingua inglese, i cosiddetti postcolonial studies – tra i loro meriti – hanno quello di aver contribuito a mettere in crisi le vecchie definizioni di confine.
Ha osservato a questo proposito Etienne Balibar:
L’Europa è il punto da cui sono partite e sono state tracciate dappertutto nel mondo le linee di confine, perché l’Europa è la terra di nascita del concetto stesso di confine.
In questo senso il problema dei confini dell’Europa è sempre coinciso con quello dell’organizzazione politica dello spazio mondiale e delle sue frontiere.
Questa ossessione europea, rilevata da Balibar, consente di sottolineare come la proliferazione dei confini costituisce l’altra faccia della globalizzazione.
In altri termini, si può dire che la globalizzazione ha inaugurato la crisi di quella connessione di Stato e territorio che costituiva il presupposto classico della definizione di confine.
Come oggi dicono con ironia gli inglesi: Space is out of joint, lo spazio è sballato.
Sballando ha anche banalizzato la classica definizione geopolitica di confine, un concetto che oggi ha valenze culturali, simboliche, cognitive, spesso più forti di quelle politiche.
Molti esperti a questo proposito sostengono che i movimenti migratori contemporanei rivelano delle tensioni e esprimono dei conflitti che non sono altro che la naturale conseguenza di questo stato di cose.
Di questa incontrollabile scomposizione e ricomposizione culturale, geopolitica, economica che stiamo vivendo.
Da questi nuovi scenari, tra l’altro, se ne deduce che i processi migratori di oggi non sono assolutamente paragonabili a quelli del secolo scorso.
In sostanza le migrazioni contemporanee hanno molteplici e inediti aspetti.
Oltre a quello economico, sono caratterizzate da una forte accelerazione dei flussi e da una trasformazione della loro composizione –basti pensare all’aumento di donne, bambini e anziani – e, soprattutto, sono rese complesse da una crescente imprevedibilità delle loro direzioni.
Come affermano gli studiosi di lingua inglese, i movimento migratori di oggi sono incontrollabili perché sono caratterizzati da una turbolenza strutturale.
Dall’ultima decade dell’Ottocento e fino alla seconda guerra mondiale erano facilmente prevedibili sia la geografia degli spostamenti migratori e le identità delle popolazioni coinvolte, così come era facile individuarne le direzioni dominanti, le aree di partenza e le destinazioni.
Oggi, al contrario, i flussi si muovono in ogni direzione, vanno dappertutto e ricorrendo ancora una volta al gergo anglosassone si può dire che i flussi del fenomeno migratorio moderno assomigliano a un piatto di spaghetti.
Un tempo il modello interpretativo più corretto era quello “idraulico”, i fattori di attrazione e di spinta (push and pull) dei processi migratori erano evidenti e avevano fondamenti in qualche modo oggettivi o se si preferisce razionali, dal punto di vista dei bisogni.
In sostanza, nell’ambito dei processi migratori i comportamenti soggettivi dei migranti erano riconducibili a motivazioni oggettive.
Oggi il margine d’imprevedibilità dei comportamenti è di fatto incontrollabile è genera una turbolenza che non si riesce a contenere e che, a sua volta, è l’innesco di altre.
Il fenomeno migratorio, poi, ha oggi un andamento crescente e motivazioni mutevoli, tanto che molti analisti sostengono che siamo ancora nella prima parte della sua evoluzione.
***
Border studies.
Per i border studies attraversare un confine, nell’ambito di un processo migratorio, significa che un’identità viene alterata se non fratturata.
Questa teoria dei border studies è nata negli USA sulla frontiera con il Messico.
Le sue ricerche hanno sottolineato la funzione di ibridazione che l’esperienza della frontiera esercita sui chicanos e sui loro confini identitari.
Oggi sono molto comuni espressioni come creolizzazione, meticciamento e ibridazione.
Si tratta di tre termini diversi che rinviano, sostanzialmente, allo stesso concetto.
AI fatto che nel corso del tempo storico le culture si evolvono venendo in contatto fra loro.
È una condizione che porta alla loro contaminazione e quindi a ibridarsi e a assumere nuove configurazioni.
Per creolizzazione culturale o ibridazione s’intende dunque questo processo di contaminazione di aspetti e forme di vita provenienti da culture diverse, a volte anche molto distanti fra loro.
Ricordiamo, per altro, che non esistono culture pure, incontaminate e protette da un isolamento totale.
Per le scienze sociali la creolizzazione culturale più che un problema di contagio e di emulazione, è l’espressione della capacità d’imitazione degli esseri umani.
Vale a dire è un’espressione della curiosità, del desiderio di esplorazione, della capacità di sperimentazione e d’innovazione delle persone, dell’esigenza di conoscere altre realtà culturali, diverse e alternative.
Normalmente si attribuisce a una famosa scrittrice chicana, morta qualche anno fa, e a un suo libro, il merito di aver rifondato i border studies.
Si tratta di Gloria Anzaldùa e il libro s’intitola Terre di confine.
Una confine quello tra gli USA e il Messico – che questa scrittrice odiava, luogo di contraddizioni, di rabbia e di sfruttamento.
Scrive la Anzaldùa: Questa è la mia casa, questa sottile linea di filo spinato, il confine tra Stati Uniti e Messico, non es che una ferida abierta, una ferita dove il Terzo Mondo si scontra con il primo e sanguina.
In termini più sociologici diciamo che il concetto di transnazionalismo gioca un ruolo sempre più importante nel mondo globalizzato, perché la tendenza dei movimenti migratori moderni è quella di costruire e moltiplicare degli spazi sociali transnazionali contribuendo a un continuo rimescolamento della carta antropica del pianeta.
Questo transnazionalismo ha due caratteri evidenti.
– È un ripensamento del concetto di cittadinanza, perlomeno nella sua forma stanziale.
– È un grande fenomeno di ri-ontologizzazione delle frontiere, che tendono a mutare in modo irreversibile e a archiviare le ridicole distinzioni ottocentesche di dentro e fuori.
Una conseguenza di tutto ciò è l’imporsi, soprattutto per frenare l’immigrazione clandestina, di un regime di gestione delle frontiere flessibile e a geometria variabile che ha preso il posto del mito della muraglia e della fortezza invalicabili.
I tecnici lo definiscono un sistema di confine ibridizzato a cui non concorrono solo gli Stati Nazionali, ma molte altre organizzazioni internazionali e nuovi attori globali – come L’International Organization for Migration – e, non da ultimo, organizzazioni governative con finalità umanitarie.
In altri termini, come da più parti è oramai riconosciuto, la progressiva deterritorializzazione dei confini esterni e interni della polis europea ha reso discontinuo il suo spazio giuridico che oggi ammette una sovranità condivisa tra attori diversi, sia pubblici che privati.
Per deterritorializzazione si intende, in particolare, lo spostamento di funzioni tipiche del controllo dei confini ben al di là delle linee di confine tradizionali – vedi l’azione della marina italiana nel Mediterraneo – e la disseminazione di molte di queste stesse funzioni all’interno dello spazio che i confini tradizionali perimetrano, per esempio nei Centri di Accogliena.
Poi, più in generale, il confine prolunga la sua azione all’interno della polis anche da un altro punto di vista, assecondando e favorendo la tendenza alla produzione di una pluralità di posizioni giuridiche differenziate all’interno della cittadinanza.
……
FINE.
LO STRANIERO.
(Riassunto della lezione.)
Il Signore protegge lo straniero, egli sostiene
l’orfano e la vedova, ma sconvolge
le vie degli empi.
Salmi 146.9
La figura dello straniero compare nelle scienze sociali verso la fine del diciannovesimo secolo.
È una figura importante perché consente di analizzare i meccanismi dell’integrazione sociale, le strutture della diversità, il valore dell’altrove che questi porta con sé, punti di vista che si confrontano e si scontrano con la comunità con la quale entra in contatto.
In questo senso possiamo dire che lo straniero trova una sua definizione a ragione della distanza sociale che intercorre tra lui e la comunità con la quale entra in contatto.
Prima di procedere occorre distinguere i concetti di straniero e di estraneo perché sono contigui, ma diversi.
A grandi linee il concetto di straniero fa parte della sfera sociale e collettiva, mentre il concetto di estraneo è più attinente alla sfera privata e psicologica.
Naturalmente ciò non impedisce che lo straniero possa essere anche un estraneo e viceversa.
Si può anche dare il caso che un appartenente a un’altra cultura sia percepito vicino a noi e, di contro, un membro della comunità in cui viviamo sia sentito come un estraneo.
Tendenzialmente, soprattutto nelle piccole comunità chiuse, sia lo straniero che l’estraneo sono spesso percepiti come coloro che possono turbare e alterare la routine della vita corrente sollevando delle problematiche tanto più rilevanti tanto più sono le differenze etniche, linguistiche, religiose, pseudo razziali, circostanze che possono trasformare in conflitti le stesse differenziazioni di abbigliamento, di alimentazione, di consumi culturali, di pratiche sociali legate al tempo libero.
Uno dei primi ricercatori a occuparsi in modo specifico della figura dello straniero e stato Georg Simmel (1859-1918). Un filosofo e sociologo tedesco che ha dedicato molti studi e ricerche alla natura dei fatti storici sia dal punto di vista della vita corrente dei singoli, che come figure sociali derivate dall’interazione tra individui.
Per Simmel lo straniero da un lato non ha legami con la comunità in cui si trova, dall’altra egli tende ad assumere di fronte a essa l’atteggiamento di chi vuole essere obiettivo e distaccato, ma è un’obiettività che è il frutto della combinazione di vicinanza e lontananza, indifferenza e coinvolgimento, confidenza o sospetto.
Lo straniero, in altri termini, non è colui che sta ai margini o fuori dalla comunità, al contrario, è in relazione con la comunità in cui si trova e con i modi che questa si è data in fatto di esclusione e di inclusione.
Per questo lo straniero è di fatto relegato su un confine e questo confine (tra inclusione e esclusione) è lo specchio nel quale, più in generale, si riflettono le tensioni culturali, sociali e umane che solleva.
Egli suo malgrado ne misura la diversità e ne porta in luce la natura antagonista così come sottopone alla prova dei fatti i percorsi e le radici dell’esclusione e dell’assimilazione, del riconoscimento, della somiglianza e della diversità.
In breve, lo straniero è una sorta di banco di prova di una comunità, e in modo particolare della qualità delle relazioni tra le persone considerate dal punto di vista della loro socialità.
La socializzazione è un processo di trasmissione di informazioni e di saperi (attraverso le pratiche della vita corrente e la natura delle istituzioni) capace di trasmettere alle nuove generazioni il patrimonio culturale accumulato.
Questo patrimonio culturale comprende l’insieme delle competenze sociali di base e delle competenze specialistiche, che in qualche modo diversificano la società.
In genere, nelle scienze sociali, si distingue tra una socializzazione primaria che si acquisisce in giovane età e una socializzazione secondaria che deriva dal contatto con gli altri e le istituzioni sociali.
Un altro autore storico che ha studiato a fondo il tema dello straniero è Alfred Schütz (1899-1959) un filosofo e un sociologo austriaco che dovette emigrare negli USA a causa delle leggi razziali del Terzo Reich.
È considerato il fondatore della sociologia fenomenologica sulla scia di Max Weber e soprattutto di Edmund Husserl.
Negli Stati Uniti fu influenzato dal pragmatismo americano e dal positivismo logico che consolidarono in lui l’interesse verso un empirismo che metteva in primo piano il mondo vissuto e la vita corrente.
Pensando alla sua condizione di esule, nelle sue ricerche sulla condizione dello straniero Schütz mise in primo piano il delicato momento in cui avviene il contatto iniziale tra la comunità ospitante e lo straniero.
Il momento del precario contatto di questo a un mondo che non conosce.
Un mondo in cui non può più contare sulla propria cultura, sul proprio vissuto, sulla propria esperienza, sui propri sistemi di riferimento e allo stesso tempo, non è ancora in grado di comprendere e assimilare.
Una condizione che si può definire di spaesamento, che costringe lo straniero a diventare una specie di etnologo che osserva e cerca di decifrare una cultura diversa dalla propria per misurarne la distanza.
Una cultura con consuetudini, mode, cerimonie, etichette, leggi, abitudini diverse, spesso sconosciute e incomprensibili che lo relegano, suo malgrado, in una sorta di isolamento psicologico.
Sono le stesse ricerche condotte da Robert Ezra Park (1864-1944), un sociologo americano, uno dei fondatori e tra i principali esponenti della Scuola di Chicago.
Di questo autore sono interessanti le considerazioni sull’ecologia sociale urbana, una disciplina in cui fece emergere la stretta relazione che esiste tra i rapporti socio-culturali e l’ambiente abitativo di appartenenza.
Ricerche che in seguito furono estese allo studio delle personalità marginali, vale a dire di quei soggetti che non sono inseriti in un ambiente sociale definito e sono, a causa di questo, caratterizzati dall’insicurezza e dal disorientamento.
A questo proposito va ricordato che nei suoi studi Park attribuì una grande importanza all’analisi dei primi giornali per immigrati che considerava dei collettori sociali e degli importanti strumenti di sociabilità.
Nelle sue considerazioni sulla condizione dello straniero descrisse due figure chiave per la definizione dell’anomia – quella dell’uomo marginale, inteso come colui che vive sul confine di due culture e che non riesce a integrarsi – e quella di uomo asociale, come di colui che viene escluso dai processi di produzione di consumo e dai cerimoniali.
Park è stato anche il primo a prendere in considerazione il fenomeno delle migrazioni interne a una comunità e dei processi conflittuali di integrazione che compaiono nelle comunità ospitanti.
Processi che caratterizzavano in particolare le aree metropolitane nord-americane e che stavano facendo fiorire una serie di fenomeni il più delle volte devianti e stabilmente ancorati al territorio, come il commercio di stupefacenti, la prostituzione, la delinquenza giovanile.
Per riassumere possiamo dire che l’arrivo di uno straniero nello spazio sociale di una comunità diventa non soltanto l’occasione per introdurre in essa delle diversità o dei mutamento culturale, ma attiva anche processi di interazione e di conflitto con la comunità ospitante, che possono arrivare fino a mettere in discussione gli stessi equilibri socio-culturali condivisi.
Sono processi che possono innescare mutamenti sociali di lunga durata e irreversibili.
A questo proposito un altro studioso della figura dello straniero e del diverso è stato il filosofo polacco Florian Znaniecki (1882-1958), anch’egli un esponente della Scuola di Chicago.
Questo autore ha esaminato in modo particolare l’estraneità che si instaura tra lo straniero e il gruppo integrato con il quale viene in contatto.
Znaniecki ha osservato come l’assenza di legami sociali assume un’importanza diversa a seconda se per legame sociale s’intende l’appartenenza a un gruppo più o meno caratterizzato, oppure se ci si riferisce a un gruppo aperto.
In questa analisi l’appartenenza a un diverso sistema di valori rappresenta il fondamento della percezione dello straniero e, insieme, la ragione della tendenza a mantenere le distanze nei confronti di coloro che possono mettere in discussione o minacciare il sistema di identificazione sia del gruppo sia degli individui che a esso appartengono.
Va anche osservato che l’estraneità è un sentimento che va oltre la distanza fisica, la si può trovare anche tra gruppi o individui tra i quali esiste una relazione sociale.
Essa, in qualche modo, è un’esperienza associata a comportamenti sociali che si ritengono non conformi, non adeguati e non condivisi.
Più in generale, come nel decennio 1920-30 mise in luce la Scuola di Chicago, il rapporto di estraneazione-identificazione sta alla base di qualsiasi processo di strutturazione dello spazio sociale.
In questo spazio la distanza e la vicinanza, i vincoli o le libertà, sono messi o rimessi in gioco ogni volta che si ridefinisce la posizione dell’individuo al proprio interno.
In breve, la presenza dello straniero mette in luce, volenti o nolenti, i meccanismi di definizione del Sé e dell’Altro da Sé, circostanza che fa venire alla luce le modalità esistenti a proposito di integrazione e di assimilazione.
Così, lo straniero, suo malgrado, appare sempre come un segnale che qualcosa sta per cambiare o potrebbe cambiare.
Appare come un messaggero di possibili conflitti e/o di possibili novità, che possono costituire una ragione di rinnovamento e di apertura o di crisi.
In pratica, poi, in una società complessa com’è quella Occidentale, lo straniero può condividerne, per fare un esempio, i principi dell’economia, ma non quelli della politica.
Può avere o non avere una buona competenza nell’uso delle tecnologie, così come può avere un’opinione differente dei legami sociali.
Soprattutto, può avere un’idea diversa sul modo di riferirsi all’essere umano e alle sue condizioni sociali di esistenza.
Per secoli le religioni hanno elaborato e custodito queste due concezioni che rappresentano il mito costitutivo della società.
E per secoli lo straniero, il nomade, il fuggitivo ha portato con se i propri dei.
Dei che il mondo in cui è entrato non sempre conoscevano o apprezzavano, ma che per lui avevano un valore incommensurabile.
Oggi, nella relazione tra straniero e i residenti molta importanza rivestono i conflitti socio-economici. Sono conflitti che tendono a configurarsi in molti modi e forme e soprattutto a mascherarsi da dispute religiose.
Va ricordato che, negli studi della sociologia americana della prima metà del Novecento, lungi dall’essere considerato un fenomeno meramente negativo, si riteneva che il conflitto adempisse a funzioni in qualche modo positive.
In particolare da molti sociologi, fu utilizzato come una categoria capace di portare allo scoperto e consentire un confronto dialettico sulle trasformazioni sociali e sulle dinamiche che si compattavano intorno all’idea di progresso.
Lo stesso Simmel aveva scritto: I contrasti non solamente impediscono che i conflitti all’interno di un gruppo gradualmente si trasformino in qualcosa d’altro che non conosciamo, ma essi mettono a confronto classi e individui che forse non si incontrerebbero mai e danno all’ostilità la consapevolezza di ciò che rappresenta.
In questo modo l’importanza del conflitto sociale risiede nel fatto che le avversioni e gli antagonismi reciproci dovrebbero preservare il sistema dal degenerare o cristallizzarsi, istituendo un equilibrio tra le parti che lo compongono.
Questa idea di conflitto come una valvola di sicurezza ha fatto oggi il suo tempo, soprattutto perché non tiene conto dei risvolti etici e psicologici che i nuovi conflitti portano in sé.
Diciamo che aveva un senso in una società statica e divisa in classi autonome e consapevoli.
Oggi l’espressione del sentimento di ostilità può apparire sotto tre configurazioni:
Uno. Come espressione diretta dell’ostilità verso la persona o il gruppo che è causa di frustrazione.
Due. Come uno spostamento del comportamento ostile verso oggetti o iconografie sostitutivi.
Tre. Come un’attività auto gratificante.
Ritornando alle tesi di Znaniecki possiamo considerare l’antagonismo verso gli outsiders una tendenza sociale negativa che si concretizza in pregiudizi che inducono a comportamenti e azioni ostili e spesso violente.
In questo senso l’antagonismo è l’esito di un atteggiamento verso coloro che hanno un aspetto di estraneità, poco importa se reale o immaginario.
È l’atteggiamento, per fare un esempio, noto e attuale, delle bande del sabato sera verso l’altro, di colore o gay, perché l’altro espressione di un sistema di valori differente, rappresenta il nucleo in cui si condensa la percezione di estraneità e pericolo.
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Julia Kristeva è nata in Bulgaria, nel 1941, è un’esponente della corrente strutturalista francese, ha concentrato i suoi interessi sulla psicanalisi, la semiologia, la religione, l’arte nella storia dell’Occidente e la riflessione sulla condizione femminile.
Stranieri a noi stessi è uno dei suoi ultimi scritti.
In questo scritto la Kristeva si domanda: Chi è lo straniero?
E soprattutto, cosa significa essere straniero?
Si tratta di due interrogativi attuali perché la paura e la diffidenza serpeggiano in Europa, in un momento in cui le appartenenze geografiche e identitarie sono sempre più soggette all’incontro con l’Altro da noi, e sono costantemente sottoposte a verifica, messe in discussione.
Questo libro è destinato sia a chi vive la propria esistenza da straniero, sia a coloro che degli stranieri non ne possono più, e infine a chi non può evitare di sentirsi straniero anche a casa propria.
Ma soprattutto è dedicato al dolore, persino all’irritazione che spesso il confronto con l’altro porta con sé in un percorso che, questa saggista, da bulgara naturalizzata francese, ha vissuto sulla propria pelle.
Al centro di esso ha posto un documento storico e una teorizzazione.
La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 (composta da diciassette articoli) elaborata dall’Assemblea della Rivoluzione francese.
La Kristeva, da studiosa di psicoanalisi, elabora nello scritto una sua interpretazione della celebre teoria freudiana del perturbante, che legge come una lezione per imparare a tollerare nello straniero la controfigura dell’estraneo che portiamo in noi.
Das Unheimliche è un aggettivo sostantivato della lingua tedesca, utilizzato da Sigmund Freud per esprimere un particolare aspetto del sentimento della paura che si sviluppa quando una cosa, una persona, una impressione, una situazione, vengono avvertiti come familiari e estranei allo stesso tempo sollevando angoscia unita ad una spiacevole sensazione di confusione ed estraneità.
In breve, rielabora questo sentimento sostenendo che la possibilità di vivere con gli altri senza rifiutarli, ma allo stesso tempo senza annullare le differenze che ci rendono diversi, passa attraverso il riconoscimento del nostro essere stranieri a noi stessi.
In questo senso, rispettare lo straniero nella sua differenza significa conciliarci con il nostro diritto alla singolarità, che è l’ultima conseguenza dei diritti e dei doveri dell’essere umano.
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Concludiamo ora il tema dello straniero con qualche considerazione etimologica.
Questo perché, scavando nel linguaggio, (fino a decostruirne e ricostruirne il suo profilo semantico) spesso si coglie un senso, delle parole che sfugge al loro uso consueto.
Iniziamo con l’osservare che il significato originario di straniero, ci rimanda alla stessa radice
da cui provengono anche i termini di nemico (hostis) e di ospite (hospes).
Il significato originario di hostis, poi, come scrive il grammatico romano Sesto Pompeo Festo, vissuto nel secondo secolo dell’era comune, non si riferisce a uno straniero qualsiasi, ma allo
straniero pari iure cum populo Romano.
Ne consegue che l’espressione di hostis assume sia il significato di straniero che quello di ospite e la parità dei diritti di cui gode, rispetto al cittadino romano, è legata alla sua condizione di ospite.
Se teniamo presente questo significato di hostis risulta chiara la natura ambivalente dello straniero che, simile alle due facce della stessa medaglia, può nascondere in sé o il nemico da rifiutare e da osteggiare o l’estraneo da ospitare e accogliere.
Proviamo a leggere l’Articolo 10 della nostra Costituzione.
L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute.
La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali.
Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge.
Non è ammessa l’estradizione dello straniero per reati politici.
In questo articolo va notato l’importanza che si da alle libertà democratiche e la nobiltà del diritto d’asilo.
Ma torniamo alla Kristeva, proprio perché imprevedibile, sul piano esistenziale la figura dello straniero risulta inquietante o perturbante.
Lo straniero è lo sconosciuto, è colui con il quale non ho ancora avviato un percorso di interazione, dal quale posso aspettarmi di tutto, una mano tesa così come una spada sguainata.
Ciò nonostante lo straniero, anche dopo che abbiamo provato a conoscerci a allacciare una relazione, è e rimarrà sempre l’altro da me, il diverso, colui che ha un’altra storia, un altro vissuto.
Dobbiamo essere consapevoli che le differenze (dall’Altro da noi) son spesso ineliminabili e che a ragione della loro irriducibilità, possono soltanto essere accolte o rifiutate, senza lasciare spazio a alternative o a ambiguità.
In altri termini, non è possibile ridurre lo straniero all’Io che io sono, non è possibile ridurre la differenza che intercorre tra di noi.
O lo accolgo con tutto il suo mondo, ospitandolo nel mio mondo (il più delle volte arricchendomene) o non lo accetto nella sua differenza, gli divento ostile.
A questo proposito l’antropologia culturale, per quanto paradossale possa sembrare, sostiene che la guerra non abolisce del tutto le possibilità di riconoscimento dell’alterità dell’altro.
La guerra è sempre una conseguenza della rottura di un ordine.
Essa scoppia quando l’opposizione logica tra l’io e l’altro diventa un conflitto reale.
Quando, da un’opposizione che consente all’io e all’altro di gestire la propria identità (attraverso il riferimento ad una totalità in cui entrambi sono calati), assorbendo e annullando la differenza che li separa, si passa ad un’opposizione vissuta da ognuno dei due soggetti della relazione come un’insidia mortale che spinge entrambi a tentare di imporre all’altro la propria sovranità.
Il discorso, come si vede, è complesso.
Se da un lato, lo straniero deve essere accolto, dall’altro lato, lui deve lasciarsi ospitare, la sua natura deve essere quella dell’ospite e non del nemico.
Affinché ci sia accoglienza, è dunque necessaria la buona disposizione di entrambe le parti, l’ospite e l’ospitante, per forza di cose, come abbiamo già visto, entrambi stranieri l’uno all’altro.
Nei fatti l’esperienza insegna che è proprio la mancanza di “buona disposizione” verso l’altro, il diverso da me, che sta la base dell’ostilità.
Una diversità che può riguardare qualsiasi cosa.
Può essere una diversità estetica, di provenienza, culturale, sessuale, religiosa o semplicemente di abitudini o di educazione.
Comunque sia il problema è sempre lo stesso, la buona o la cattiva disposizione verso l’altro.
L’una può condurre all’apertura, al dialogo.
L’altra apre la strada al pre-giudizio, al rintanarsi nel proprio mondo con la presunzione che sia l’unico giusto e sicuro.
FINE
COSTRUIRE E ABITARE.
(NOTA BENE. Questa parte è solo introduttiva. Va letta come introduzione ai modelli d’integrazione e al tema del nomadismo).
Molti autori e molte scuole di antropologia hanno sottolineato come la cultura dell’abitare plasmi la nostra visione del mondo (Levi-Strauss, Bourdieu, Illich, De Certeau ).
Se ciò è corretto, non solo il mondo può essere percepito attraverso l’esperienza abitativa, ma questo viene addirittura strutturato e dotato di significato secondo la propria peculiare visione della “domesticità”.
In questo senso e da tempo le scienze sociali non si limitano più a studiare l’abitare e il costruire, ma attraverso la formazione di equipe interdisciplinari partecipano in maniera determinante all’elaborazione di nuove esperienze urbane che mirano, da una parte, a attivare una collaborazione responsabile tra abitanti e tecnici nella gestione urbana, dall’altra, alla progettazione/riqualificazione del territorio e della città.
Va aggiunto che spesso queste forme innovative non vengano stimolate dalle politiche sociali dei governi e in molti casi, sono addirittura osteggiate con le ragioni le più diverse.
Basti pensare all’esecuzione di sgomberi e sfratti di spazi e luoghi occupati e/o auto-gestiti da movimenti sociali, gruppi antagonisti, homeless, così come al diffuso buldozzing state of mind, come lo definì a suo tempo lo storico e filosofo delle tecnologie, l’americano Lewis Mumford (1895-1990) che caratterizza l’azione istituzionale nei confronti di quartieri spontanei o considerati clandestini.
Abitare, nel suo significato più ampio, non si limita più all’oggetto-casa, né si esaurisce nell’analisi della “vita corrente” che l’attraversa, ma è un processo che ha a che fare con l’esperienza quotidiana delle persone.
A parte ciò, appartiene alle abitudini giovanili (soprattutto nei paesi caldi) abitare un insieme di spazi esterni prossimi all’abitazione (il cortile, il giardino, la piazza, la strada) e per chi è inurbato anche una pluralità di “spazi di vita collettiva” variamente ubicati e diffusi (il supermercato, i mezzi di trasporto pubblici, i parchi metropolitani, la rete (più o meno discontinua) di luoghi, condivisa da una comunità di pratiche come sono quelle sportive, culturali, politiche).
In questo senso, oggi, nell’esperienza dell’abitare incontriamo non solo lo spazio della casa, ma anche quello più ampio, aperto e relazionale dei paesaggi urbani, dei quartieri sottoposti a continua trasformazione, degli spazi sempre più connotati da differenti culture e modelli abitativi.
Già Lewis Mumford aveva messo in evidenza come le città non sono solo semplici contenitori capaci di garantire nel tempo la coerenza e la continuità della cultura urbana, ma rappresentano il luogo della mescolanza, della mobilità, degli incontri, delle sfide.
In questo senso si può affermare che nella modernità il melting pot è il tratto costitutivo che rende le città luoghi “socializzati” in cui vivere.
Per questo – come insegna la storia sociale – lo straniero, il rifugiato, lo schiavo, persino l’invasore hanno sempre svolto un ruolo cruciale nell’evoluzione delle forme urbane.
Basti pensare all’elementare circostanza che lo straniero che viene in pace introduce cibi, idiomi, lingue, suoni, colori, forme, significati…notizie.
Una nota su Heidegger.
Costruire, abitare, pensare, è il titolo di una conferenza che Martin Heidegger, uno dei più discussi filosofi del secolo scorso, tenne nel 1951, in occasione di un ciclo di colloqui sul tema: Uomo e spazio organizzato dalla città di Darmstadt.
La seconda guerra mondiale aveva distrutto interi quartieri di molte città, gli sfollati erano dappertutto e la crisi degli alloggi era solo un aspetto della crisi dell’intera Germania. Heidegger in conclusione del suo intervento sostenne, sorprendendo chi lo stava ascoltando, che la vera crisi degli alloggi dipendeva dal fatto che non abbiamo ancora imparare a abitare. Abitare veramente e autenticamente. Avere un’abitazione, a dispetto dell’ovvio, non significa automaticamente saper abitare, e prima ancora: che cosa significa abitare?
Vediamo alcune sue considerazioni tratte dal testo di questa conferenza che si trova nel volume Saggi e discorsi (1976).
Per cominciare occorre comprendere – egli scrive – che giungiamo all’abitare solo attraverso il costruire. Non per caso il costruire ha nell’abitare il suo fine. Tuttavia non tutte le costruzioni sono delle abitazioni. Un ponte e un aeroporto, uno stadio e una centrale elettrica sono costruzioni, ma non abitazioni, così come una stazione, un’autostrada, una diga, un mercato coperto.
Eppure, anche questi tipi di costruzioni rientrano nell’ambito del nostro abitare. Un ambito che però va oltre l’uso che facciamo di queste costruzioni. Il camionista è a casa propria sull’autostrada, tuttavia questa non è il luogo dove alloggia. L’operaia è a casa propria nella filanda, ma non ha lì la sua abitazione. L”ingegnere che dirige una centrale elettrica vi si trova come a casa propria, però non vi abita.
Queste costruzioni (sempre più numerose nella modernità) albergano (nel senso di ospitano) l’uomo.
O, meglio, egli le abita e tuttavia non abita in esse se, per abitare in un posto, intendiamo avervi il proprio alloggio. D’altra parte le costruzioni che non sono abitazioni rimangono pur sempre anch’esse determinate in riferimento all’abitare, nella misura in cui sono al servizio dell’abitare dell’uomo.
L’abitare (in sostanza) è il fine che sta alla base di ogni costruire.
Va anche rilevato che l’abitare e il costruire stanno tra loro nella relazione del fine al mezzo.
Ma finché vediamo la cosa entro i limiti di questa prospettiva, scrive Heiddeger, assumiamo l’abitare e il costruire come due attività separate. Di fatto il costruire non è soltanto un mezzo e uno strumento per l’abitare, il costruire è già in se stesso un abitare. Ma chi ce lo dice?
Chi ci dà una misura con cui possiamo misurare l’essenza dell’abitare e del costruire?
La parola, che ci parla dell’essenza delle cose e fa parte del linguaggio.
(Noi abitiamo il linguaggio!)
Che cosa significa dunque costruire?
L’antica parola tedesca per bauen (costruire) è buan e significa abitare, ma vuol dire anche, rimanere, trattenersi. Il significato autentico del verbo bauen (costruire) è andato perduto.
Se tuttavia ascoltiamo ciò che il linguaggio ci dice con la parola bauen (costruire) apprendiamo tre cose: 1. Costruire è propriamente abitare. 2. L’abitare è il modo in cui gli uomini sono sulla terra.
- Il costruire come abitare si dispiega nel costruire che coltiva, che fa crescere.
Prosegue Heidegger: Non è che noi abitiamo perché abbiamo costruito. Ma costruiamo e abbiamo costruito perché abitiamo. L’abitare ci appare in tutta la sua ampiezza quando pensiamo che nell’abitare risiede l’essere dell’uomo, inteso come il soggiornare dei mortali sulla terra.
Per ricapitolare. L’essenza o il fine del costruire è il far abitare. Ma solo se abbiamo la capacità di abitare, possiamo costruire.
Dunque, costruire e pensare sono sempre, secondo il loro modo di porsi, indispensabili per l’abitare. Entrambi sono però anche insufficienti all’abitare almeno fino a che attendono separatamente alle proprie attività, senza dialogare l’un l’altro.
Alla domanda, che cos’è l’architettura? Auguste Perret, un architetto francese del Novecento, di cui ricordiamo il progetto di ricostruzione del centro di Le Havre, distrutto come buona parte della città dai bombardamenti della seconda guerra mondiale e dichiarato dall’UNESCO come un esempio eccezionale di urbanistica del dopoguerra (è inserito dal 2005 tra i patrimoni dell’umanità), rispose:
L’architettura è l’arte di organizzare lo spazio.
È una definizione che appare scontata, ma non è così.
Frank Lloyd Wright sosteneva che solo nella parusia della modernità, cioè, nel disvelarsi dell’essenza del moderno, l’architettura può aspirare a essere ciò che ha sognato per secoli: un’idea che s’invera nello spazio abitativo.
Tuttavia, se consideriamo l’idea di spazio per abitare nella storia dell’architettura costatiamo che esso non è mai stato fino alla modernità un oggetto di riflessione autonomo.
Marco Vitruvio Pollone, architetto e scrittore romano, vissuto nell’ultimo secolo prima dell’era comune, ha riflettuto con acume su quelli che sono i fondamenti dell’architettura, vale a dire, la disposizione, la simmetria, l’impianto e l’orientamento degli edifici, ma non dice nulla sulla natura dello spazio. Lo stesso Andrea Palladio, che lo ripensa e lo ridisegna in chiave rinascimentale, non ne parla se non in modo marginale. Perché? Perché a partire da Vitruvio e fino al Rinascimento lo spazio è un dato immediato della conoscenza sul quale appare superfluo soffermarsi.
Sono stati i filosofi della modernità a aprire una riflessione su ciò che rappresenta lo spazio per l’uomo, tra loro ricordiamo Arthur Schopenhauer (1778-1860), Martin Heidegger e, soprattutto, Walter Benjamin (1892-1940).
Per Schopenhauer lo spazio è l’idea stessa che contiene l’architettura come una manipolazione della materia.
Nella sua visione del mondo, l’architettura va pensata come una sorta di volontà di potenza che vince la pesantezza. Una volontà che ha nei muri, nelle architravi e nelle colonne la sua grammatica estetica.
Va aggiunto che per questo filosofo era la musica a celebrare l’essenza in sé dei fenomeni e dunque a rappresentare il mondo, a tal punto che arrivò a immaginare l’architettura come una forma di musica congelata.
Una nota. I Passages e la modernità: Walter Benjamin.
Una grande importanza teorica e biografica riveste la metropoli nell’opera di Walter Benjamin. Egli ha dedicato ben quattordici anni alla sua opera incompiuta sui Passages di Parigi (1926-1940), la città che per lui (come per Siegfried Kracauer) costituiva l’emblema della modernità.
Nelle sue intenzioni questo studio doveva costituire una storia originaria della modernità (Urgeschichte der Moderne) così come questa si rappresentava negli eventi e nella cultura della capitale francese fra l’ascesa del re borghese Luigi Filippo al tramonto della fragile repubblica con l’impero di Luigi Bonaparte.
La lirica di Charles Baudelaire, le prime architetture in ferro e vetro a scopi commerciali (fra cui i Passages stessi, gallerie urbane adibite alla vendita di articoli di lusso), la moda e la cultura urbana, l’arte della caricatura, gli sventramenti urbani ad opera del prefetto Haussmann, la storia delle sette e dei movimenti sociali, questi ed altri erano i reperti della cultura che per Benjamin rappresentavano i sogni e gli ideali del secolo borghese, presto destinati alla disillusione e al declino.
Se si tiene presente questo contesto, è evidente che il passage fondamentale che Benjamin intendeva rappresentare era proprio il veloce transito sulla scena storica della Zivilisation borghese nelle sue forme primordiali, infantili per così dire, destinate a mutare completamente con l’affermarsi del capitalismo monopolistico e del regime bonapartista.
È questa dunque un’epoca di soglia (per usare un’espressione dello stesso Benjamin, presa dal surrealismo), tra forme di vita che ancora appaiono pre-industriali e l’affermarsi della società del consumo di massa, con la conseguente pervasività della forma di merce in tutti gli ambiti di vita. È in questo contesto che Benjamin ricerca i fenomeni originari (Urphänomene) politici e culturali dell’assetto sociale che andrà incontro al drammatico declino nel Novecento, con l’instaurarsi dei regimi reazionari di massa.
Fenomeni originari, immagini dialettiche (anche monadi): questi sono i concetti fondamentali della nuova forma di storiografia culturale che Benjamin intendeva elaborare, con lo scopo di destare la società europea novecentesca prima della sua catastrofe finale, che avverrà con la seconda guerra mondiale.
Quel che caratterizzava in maniera fondamentale la storia originaria di Benjamin era il tentativo di costruire una storiografia che fosse in grado di decifrare gli eventi del passato come ancora inconclusi, incompiuti. Allo storico toccava il compito di riconoscere l’impulso utopico da loro ancora custodito e attualizzare le sue potenzialità critiche per il presente.
La Parigi della seconda metà dell’ottocento, capitale del XIX secolo, la metropoli simbolo del moderno per Benjamin, viene letta soprattutto attraverso lo sguardo della poesia allegorica di Baudelaire.
È Baudelaire l’eroe della vita moderna di Benjamin. La metropoli di Baudelaire è per Benjamin la prima, fondamentale esperienza di metropoli.
Quel che caratterizza in maniera peculiare il poeta francese è di essere il testimone dello scontento nel cuore della borghesia: egli è un asociale, un personaggio ai margini della sua classe sociale che esprime il suo disagio latente.
Benjamin coglie nell’ingegno allegorico di Baudelaire la lucidità di chi aveva saputo scorgere dietro la scintillante fantasmagoria dei tempi, l’ombra cupa del dominio permanente del capitale. Lo splendore delle fantasmagorie urbane con le loro premesse di progresso e di benessere provocava in lui la tipica risposta della malinconia allegorica.
Alla base della sensibilità di Baudelaire non c’è più – come per il barocco studiato in precedenza da Benjamin – la perdita di fiducia per l’azione divina nella storia, ma, nel contesto mondano della Parigi del Secondo Impero, l’anarchia del capitale finanziario, il carattere feticistico della merce nel contesto della produzione capitalistica, che impedisce agli uomini di avere pieno controllo sui loro destini individuali e sociali.
Parigi appariva dunque a Baudelaire, come ai poeti barocchi tedeschi, non come il dispiegarsi di un’eterna vita, ma piuttosto il processo di un inarrestabile decadimento in quanto egli intuiva, sia pure in maniera istintiva e anarchica, l’ingiustizia e la precarietà dei fondamenti dell’ordinamento sociale. È in questo contesto che la sensibilità allegorica si secolarizza, pur mantenendo – come è caratteristico della fase tarda del pensiero di Benjamin – il suo originario significato teologico.
……
Da un punto di vista più didascalico osserviamo questo.
Nel Novecento l’architettura – come spazio abitato – è stato interpretato soprattutto da due teorie, quella funzionalista e quella semiotica.
Il funzionalismo era concepito in un rapporto diretto con i bisogni degli individui e scaturiva da una realtà pensata in modo empirico e oggettivo.
Ma è proprio così stretto il rapporto tra bisogni e tecnica?
A rileggere la storia del costruire le cose non stanno proprio così.
Per fare un esempio di scuola, oggi sappiamo che la funzione di sostegno e di controspinta dei contrafforti delle cattedrali gotiche è in larga parte una grande illusione. Perché allora venivano progettati e costruiti?
Perché con l’avvento del gotico era cambiata la percezione di quella volontà di assoluto che stava trasformando il mondo medioevale.
Per venire più verso di noi.
Se proviamo a considerare l’inadeguatezza delle case giapponesi al clima dell’arcipelago costateremo che in questa cultura è la concezione dello spazio più di quanto lo sia quello del clima a determinare la forma delle abitazioni, facendole apparire ai nostri occhi inadeguate alle variazioni climatiche.
Se proprio dobbiamo trovare un debito funzionale che i giapponesi hanno con la natura del l’habitat, lo troviamo nella carta sismica del territorio.
Riconoscere lo spazio come la causa prima della forma di architettura c’indirizza, invece, nel campo della semiotica. (La semiotica, in senso proprio, è in realtà una disciplina e non una teoria). In altri termini possiamo pensare a una semiotica dei luoghi con l’aiuto di certi criteri come sono, la chiusura, l’accessibilità, la gerarchia, la scala, l’orientamento, la densità o l’evanescenza, i motivi geometrici, la stabilità, eccetera.
Naturalmente l’architettura non è un linguaggio vero e proprio, ciò non toglie che si possa parlare di un linguaggio dell’architettura nel senso che essa è strutturata come un linguaggio. .
In un contesto sociologico lo nozione di spazio in architettura si può intendere in due modi.
Nel senso che esso può rappresentare l’argomento discriminante che permette di differenziare le culture, le epoche, gli stili.
Oppure – nella prospettiva della vita corrente – lo spazio è ciò che può favorire gli effetti di costrizione, di liberazione, di incitamento, d’inibizione, di adattamento, di sottomissione alle forme del potere.
Basti pensare all’effetto di riverenza che incute l’architettura pubblica (regale, militare o religiosa) e come esso sia sempre stato, indifferentemente rispetto agli stili e alle epoche, deliberatamente perseguito.
Sono pulsioni che spingono soprattutto verso la fobia degli spazi chiusi o aperti con i loro risvolti psicologici e sociali.
Per venire all’idea di casa (nella cultura occidentale) la prima cosa da notare è che la casa antica, greco-romana in particolare, e la casa moderna si organizzano a partire da principi inversi.
Per noi moderni (e urbanizzati) la casa è un’esperienza centrifuga, fatta di stanze che si aprono con porte e finestre che danno sull’esterno.
La casa antica invece è centripeta. Le stanze guardano verso l’interno e non hanno aperture verso l’esterno, si affacciano di regola verso una corte interna a peristili – cioè, con un giro ininterrotto di colonne – che servono al passaggio coperto.
Allo stesso modo se l’architettura delle chiese è simile a quella delle sale dei palazzi – alla lettera, delle basiliche – e non a quella dei templi pagani è perché in esse domina un’altra concezione dello spazio. (Basilica significa la “casa del re”). Ce la spiega il loro destino.
I templi greci e romani non rappresentano affatto dei luoghi di riunione, di ecclesia, alla lettera di assemblea del popolo, cioè, destinati all’incontro. In essi potevano entrare solo gli dei, i sacerdoti, i religiosi.
Al contrario, fin dal primo momento l’adunata dei fedeli è stato lo scopo delle basiliche, cioè dei luoghi di culto cristiani.
Diciamo che lo spazio architettonico a seconda delle culture, dei luoghi e dei tempi storici ha privilegiato sia il pieno (come nel caso dei templi greco-romani o indiani) che il vuoto (come nel gotico o nei templi giapponesi e in genere in molte costruzioni dell’Estremo Oriente).
Scrisse Walter Gropius, quando era alla direzione del Bauhaus a Weimar: Le relazioni spaziali, le proporzioni e i colori controllano le funzioni psicologiche vitali e reali dell’uomo.
Da parte sua Maurice Merleau-Ponty nella Fenomenologia della percezione (1945) osserva che i viventi, con la loro semplice presenza, danno allo spazio un senso che il mondo di per se non ha.
Tradotto in un linguaggio più semplice significa che esistere vuol dire occupare uno spazio (abitarlo), determinandolo con l’esistenza, le forme del vissuto, le condizioni dell’esserci. Significa occuparlo con il corpo, gli oggetti, l’azione, l’emozioni, le cognizioni.
In una prospettiva fenomenologica ne consegue che lo spazio geometrico e lo spazio fisico si modellano e dipendono dal modo con cui il soggetto si muove nell’ambiente.
……….
Gli spazi dell’architettura possono essere aperti o chiusi.
Nella tradizione culturale europea l’aprire viene prima del chiudere o, se si preferisce, il chiuso presuppone l’aperto.
È in questo senso che l’architetto Benoit Goetz ha scritto che lo spazio in generale non è niente altro che una grande apertura sul nulla.
Nelle scienze sociali ci sono due teorie per concepire, da un punto di vista fenomenologico, lo spazio dell’abitare umano.
La prima attribuisce una funzione fondatrice (primaria) al muro, la seconda l’attribuisce al tetto.
Questo dualismo distingue di fatto gli edifici in due gruppi.
La casa occidentale deriva da un muro, la casa in Micronesia è frutto di un tetto. I castelli sono un muro, i templi in Giappone sono un tetto, eccetera.
Qual è la differenza? Il muro rinvia a dei limiti oggettivi, a uno stare delimitato. Il tetto, invece, rimanda a una protezione con una forte componente psicologica.
A questo proposito va osservato come nella cultura occidentale avere o non avere una casa determina l’inclusione o l’esclusione sociale, tanto che noi chiamiamo chi vive ramingo, un senzatetto. Ramingo alla lettera è colui che vaga di ramo in ramo, come gli uccelli.
Questo dualismo di muro contrapposto a tetto nasce nella preistoria, forse perché le caverne del neolitico rappresentano entrambi le cose. La parte verso l’entrata può essere considerata un tetto, la parte in fondo – quella generalmente dipinta – era un muro.
In realtà sotto il muro c’è la soglia o il limite, la linea che anticipa il volume, come è facile constatare anche dal mito di fondazione di Roma, circa sette secoli prima dell’era comune.
Il 21 aprile del 753, prima dell’era comune, è il giorno della fondazione di Roma, secondo lo storico Marco Terenzio Varrone. Per lo scrittore Onorato Servio, vissuto nel quinto secolo, Roma significherebbe la città del fiume, ma potrebbe derivare dal ficus ruminalis fiorente a fronte del fiume Albula, poi detto Tevere, oppure dall’etrusco ruma che significa mammella, un riferimento alla lupa che allattò Romolo e Remo.
La cronaca del 21 aprile ci racconta di Romolo che traccia il solco primordiale, successivamente prosegue la fondazione stabilendo il cosiddetto pomerium, la fascia perimetrale di terreno all’esterno del solco fino a realizzare un vero e proprio muro dalla base del colle Palatino, circondato dagli altri sei colli Celio, Esquilino, Aventino, Campidoglio, Quirinale e Viminale. Secondo Cornelio Tacito il muro andava dall’Ara Maxima di Ercole all’Ara Consi, un altare consacrato al dio dei granai Conso nel lato meridionale dell’area dove è sorto poi il Circo Massimo. Da qui il muro proseguiva verso la zona dove è l’Arco di Costantino, per chiudersi presso il Tempio di Vesta nel Foro Romano. I ritrovamenti archeologici hanno confermato l’anno in relazione agli insediamenti alle falde del Palatino, dove appunto è stato tracciato il solco della città quadrata. In particolare, al di sotto di un muro, è venuto alla luce un fossato con tre vasi e due frammenti di fibule di bronzo, databili alla seconda metà dell’ottavo secolo prima delle’era comune, potrebbero essere stati collocati lì durante i riti connessi proprio con la costruzione del muro più antico. Inoltre, accanto al santuario di Vesta nel Foro Romano, a noi giunto nella ricostruzione dei primi del terzo secolo è stato scoperto, un ambiente di trecentoquarantacinque metri quadrati e un cortile di duecento venti drenato da una canaletta. Un locale così grande in quel punto non può non essere il palazzo reale. È durato almeno fino al 64 dopo l’era comune, cioè, circa otto secoli.
In ogni modo non è impossibile immaginare dei tetti senza mura – li troviamo in Asia, nel Pacifico, le stessa tende berbere sono solo dei tetti – di contro un muro senza tetto non rappresenta un’abitazione.
Dal punto di vista delle metafore della sociabilità possiamo dire che chi costruì un muro all’origine dell’architettura era incline a pensare che il più grande nemico dell’uomo fosse l’uomo stesso.
Prima di proseguire apriamo una piccola parentesi.
Ci sono due contenenti che inverano i due limiti assoluti del simbolico. Il ventre materno e il sepolcro.
Diciamo che c’è un tragitto etimologico – messo in luce in particolare da Gustav Jung – che va dal fondo delle caverne alla coppa. Ce lo ricorda l’etimologia.
Kusthos in greco significa la cavità o il grembo.
Keuthos indica il seno della terra.
Kust in armeno e Kostha in sanscrito significano il basso ventre.
Sempre in sanscrito Kutos è la volta o la cantina, Kutis il cofanetto e infine Kuathos il bicchiere o il calice.
La cavità, per definizione, come afferma la psico-analisi è, nell’immaginario simbolico, una rappresentazione dell’organo femminile.
È facile costatare che ogni cavità è percepita – almeno a livello inconscio – come sessualmente determinata, in questo senso è legittima la narrazione di un percorso metaforico che porta dal grembo alla coppa.
Lungo questo percorso uno dei primi e importanti punti è costituito dall’insieme caverna–casa nella duplice accezione di ambiente e contenente e, insieme, di riparo e granaio.
Ecco perché la produzione simbolica tende a rendere ambivalente la paura della caverna e del buio, capovolgendone il senso, metamorfolizzandola nel suo contrario, rendendola un antro delle meraviglie, un rifugio, un simbolo terreno del paradiso.
E è precisamente in questa chiave che la psicologia legge il celebre racconto persiano di Alì Babà e dei quaranta ladroni.
Questa ambivalenza – per l’analisi psicoanalitica di derivazione freudiana – è una conseguenza del trauma della nascita e dell’idea del ventre materno come rifugio.
A parte questo, la grotta – nel folclore – appare spesso come una matrice universale, un simbolo dell’intimità, come lo sono l’uovo, la crisalide, il bozzolo o la tomba. Non è dunque per caso che in molte religioni compaiono due importanti elementi architettonici simbolici, la volta e la cripta.
Per i cristiani, in particolare, il tempio dell’ecclesia è allo stesso tempo rifugio, catacomba, sepolcro, reliquiario, tabernacolo.
Luogo dove riposano le sante specie (cioè, l’olio santo, l’acqua e il vino consacrati) e al tempo stesso grembo dove avviene il miracolo della nascita di Dio.
Dunque la caverna è la cavità geografica perfetta o, con una formula più poetica, un mondo chiuso
dove lavora la materia alla luce del crepuscolo.
Aggiungiamo che la ricerca etnografica da tempo ha confermato queste osservazioni.
Per esempio, la capanna cinese è considerata il luogo dove la sposa regna in comunicazione diretta con il suolo familiare, essa è una matrice (matrix in latino è l’utero). Nell’immaginario orientale il focolare è un luogo femminile, mentre il fuoco che in esso si accende è l’elemento maschile.
In chiave semasiologica si può notare che nel mondo esiste una forte tendenza alla femminilizzazione delle dimore, non è per caso che abbiamo le camere, le stanze, le capanne, le cappelle. Nella lingua francese, in particolare, il carattere femminile delle cappelle è molto evidente, tanto che sono di regola chiamate Notre–Dame e sono quasi sempre consacrate alla Vergine.
La semasiologia è una branca della lessicologia (cioè, della disciplina che studia lo strutturarsi del lessico) che analizza i significati in senso generale, si veda il concetto di signifié di Ferdinand de Saussure, e ne astrae i significati che lo indicano in un determinato sistema linguistico. Viene spesso studiata assieme all’onomasiologia, che percorre lo stesso percorso in direzione opposta.
A questo punto della nostra analisi appare evidente una forte correlazione tra la casa che gli individui immaginano e i tratti salienti della loro personalità.
C’è poi da dire che dai psicanalisti ai teologi delle tre religioni del libro, dai Dogon agli aborigeni australiani, tutti riconoscono nella casa un doppione microcosmico del corpo umano.
Così come non è un caso che i bambini vedono nelle finestre, gli occhi della casa. Nella porta, la bocca o che molti adulti definiscano le cantine come le sue viscere o le camere da letto come un nido.
In breve la casa, nella sua interezza, è più di un luogo dove abitiamo, è un vero e proprio organismo che vive e si trasforma nel tempo. Essa raddoppia e sottolinea la personalità di chi vi dimora. Non è solo un luogo fisico costruito e abitato, disegna anche una sua rappresentazione simbolica o, meglio, una matrice di soggettività di cui non è difficile coglierne la narrazione.
L’azione simbolica “agita” dalla casa sulla vita psichica degli individui si riflette immediatamente anche su quella sociale, andando a rappresentare un paradigma che riunisce e in parte sovrappone la sfera intrapsichica, quella interpersonale e quella socio-politica.
Questo spiega perché quando si perde la “casa” si perdono o si frammentano con essa anche le sue funzioni organizzatrici e compensatrici, portando alla frantumazione e all’estraneazione della relazione individuale-personale, familiare-coniugale, socio-economico e culturale-politico.
Molti mediatori culturali, a questo proposito, ritengono che è questa destrutturazione che nei rifugiati e nei profughi porta al cosiddetto disorientamento nostalgico.
Un’altra funzione importante della casa è quella di fornire una base coerente alla storia delle famiglie.
Una storia che non ha un valore obiettivo, ma che ordina e rende emotivamente condivisi e coerenti tutti i momenti che gli individui vi hanno vissuto, da quelli peggiori a quelli migliori.
In questo modo essi sono resi intelligibili e comprensibili, danno, agli attori di quegli stessi eventi, un senso di continuità e di prevedibilità.
Consentono loro una narrazione consolatoria.
Quando gli individui o i nuclei familiari perdono la propria casa e acquistano la qualifica di rifugiati o di homeless s’infrange proprio questa continuità e è precisamente questa dimensione che l’assistenza socio-terapeutica dovrebbe aiutare a ricostruire. .
Per restare in argomento, cambiando la prospettiva con la quale si affronta il tema dell’abitare, si può notare come il grande romanzo sociale europeo dell’800, in particolare francese – si veda per tutti Honoré de Balzac – comincia sempre con una descrizione minuziosa della casa.
Una tale descrizione, per esempio, è l’incipit del romanzo Eugénie Grandet (1833):
In alcune province si trovano case la cui vista ispira una malinconia simile a quella dei chiostri più tetri, delle lande più desolate, delle rovine più tristi: in queste case vi sono forse qualche volta e il silenzio del chiostro, e l’aridità delle lande, e le rovine. Vita e movimento vi sono così tranquilli che un forestiero le riterrebbe inabitate, se d’un tratto non incontrasse lo sguardo smorto e freddo di una persona immobile, la cui figura, mezzo monastica, sporge da parapetto della finestra al rumore di un passo insolito. Tale melanconia esiste anche in una casa di Samur, in cima alla via montagnosa che mena al castello nella parte alta della città.
Ancora più articolata e suggestiva è la descrizione della pensione di Madame Vauquer nel romanzo Papà Goriot del 1834:
Naturalmente destinato all’esercizio di una pensione borghese, il pianterreno si compone di una prima stanza che riceve luce dalle due finestre sulla strada e a cui si accede per mezzo di una porta a vetri. Questo salotto comunica con la sala da pranzo, la quale è separata dalla cucina dal vano di una scala, che ha gradini di legno e di piastrelle colorate e lucidate. Non si può immaginare visione più triste di quel salotto ammobiliato con poltrone e sedie ricoperte di stoffa di crine a righe alterne, lucide e opache. Nel mezzo s’erge un tavolo rotondo dal ripiano di marmo, ornato di uno di quei vassoi di porcellana bianca decorato di filetti d’oro mezzo sbiaditi che oggi si trovano dappertutto. Quella stanza, malamente pavimentata, ha uno zoccolo di legno ad altezza di gomito e il resto delle pareti è rivestito di carta verniciata…
Il camino di pietra, che col suo focolare sempre pulito testimonia come vi si accenda il fuoco solo nelle grandi occasioni, è ornato da due vasi colmi di fiori artificiali, stinti sotto la loro campana di vetro, che fanno compagnia a una pendola di marmo azzurrastro, di pessimo gusto. La prima stanza emana un odore che non ha nome nel linguaggio, e che bisognerebbe chiamare odor di pensione: tanfo di rinchiuso, di muffa, di rancido; fa rabbrividire, è umido all’olfatto, penetra attraverso gli indumenti; ha il sentore di un locale in cui si sia mangiato; puzza di gabinetto, di cucina, d’ospizio di vecchi…
La sala, interamente foderata di pannelli di legno, un tempo era dipinta di un colore che oggi è divenuto indefinibile e che forma un fondo sul quale il sudiciume ha deposto vari strati, tracciandovi bizzarre figure. Alle pareti si appoggiano alcune credenze polverose, sulle quali si elevano caraffe panciute e opache, allacciatovaglioli di zinco e pile di piatti di grossa porcellana a bordi turchini, fabbricati a Tournai. In un angolo uno scaffaletto a caselle numerate raccoglie i tovaglioli, sudici o macchiati di vino, di ciascun pensionante. In quel locale si possono trovare quei mobili indistruttibili, messi al bando dovunque, ma sistemati laggiù come i rottami della civiltà degli Incurabili…
Per spiegare fino a che punto questo mobilio sia vecchio, screpolato, marcito, vacillante, corroso, monco, lurido, invalido e moribondo, bisognerebbe farne una descrizione che ritarderebbe troppo l’interesse della presente storia e che i lettori frettolosi non ci perdonerebbero.
Il pavimento rosso è pieno di avvallamenti prodotti dallo strofinio e dalle verniciature. Insomma, laggiù regna la miseria senza poesia, una miseria tirchia, concentrata, spelacchiata. Se ancora non è lorda di fango, ha tuttavia qualche macchia; e se non ha buchi né cenci, le manca poco per crollare imputridita. Questa stanza è in tutto il suo splendore nel momento in cui, verso le sette del mattino, il gatto della signora Vauquer, precedendo la padrona, balza sulle credenze, annusa il latte contenuto in varie scodelle ricoperte da un piatto e fa sentire il suo ron ron mattutino.
Subito dopo appare la vedova…
Sul piano stilistico, in generale, possiamo dire che la descrizione degli ambienti è una caratteristica del realismo ottocentesco o, se si preferisce, un’ossessione della mentalità borghese.
Del resto, sono gli odori della casa che compongono la sensazione dell’intimità: aromi di cucina, profumi dell’alcova, tanfi dei corridoi, sentore di benzoino o di pasciulì degli armadi materni…
Nonostante la riscoperta degli odori, connessa nella modernità alla enorme diffusione di oggetti profumati e di pratiche aromatiche, non si è ancora diffusa nel mondo occidentale la consapevolezza dell’importanza dell’olfatto per la nostra specie. D’altra parte la vita moderna, contraddistinta dalla cura maniacale del corpo e dal moltiplicarsi di sostanze chimiche presenti nei cibi, nelle bevande e nel nostro ambiente, non fa che indebolire la nostra sensibilità olfattiva allontanandoci sempre più dai profumi naturali.
Condizionati da una cultura visivo-acustica, che da duemilacinquecento anni ha determinato il nostro modo di sentire e di pensare, abbiamo relegato l’olfatto tra i sensi minori e ne abbiamo dimenticato l’attitudine cognitiva. A differenza della vista e dell’udito, i sensi nobili, l’odorato, denigrato dalla filosofia e trascurato dalla ricerca scientifica, ha finito per occupare l’ultimo posto nella gerarchia de sensorio. La scarsa permeabilità linguistica, la variabilità, la fugacità, l’intimità delle sensazioni che fornisce, l’eccessiva compromissione con le emozioni ci hanno indotti a ignorare il modo in cui gli odori influenzano i nostri comportamenti sociali, sessuali, emozionali, alimentari e a sottovalutarne il ruolo fondamentale nella conoscenza del mondo circostante.
Un naso impegnato a odorare porta il marchio dell’animalità, è associato al piacere, al desiderio e all’istinto e per questo guardato con sospetto e con diffidenza. Platone lo accostava alla lussuria e ai piaceri frivoli e Kant, il più anosmico dei filosofi, lo definiva il senso più ingrato e apparentemente meno necessario. Dal canto loro, Charles Darwin e Sigmund Freud hanno suggerito che l’atrofia del naso umano sarebbe il prezzo da pagare per l’origine della specie e della sua civiltà, e soprattutto dell’evoluzione dei costumi e della repressione culturale. È evidente, infatti, come nella cultura occidentale non ci sia spazio per l’educazione olfattiva. Ci insegnano a leggere e a scrivere, a riconoscere forme, colori e suoni, ma non ci educano a distinguere gli odori che compongono la nostra vita corrente. Così l’odorato ha finito col rappresentare l’esatto contrario dell’intelletto e la sua marginalizzazione è divenuta il contrassegno dell’umanità civilizzata. Ma paradossalmente, a sottolineare l’ambiguità di questo senso, nell’immaginario sociale e in molte espressioni colloquiali che riflettono il senso comune l’olfatto ha un nesso privilegiato con la conoscenza, è sinonimo di buon senso, di acume intellettuale (sagace deriva dal latino sagire, fiutare) di quel sesto senso o senso della conoscenza intuitiva celebrato dal più olfattivo dei filosofi, Friedrich Nietzsche, che non esitava ad affermare .
Uscendo dall’antropsicologia e ritornando a Bachelard, egli scrive che lo spazio è sempre percepito come una dimensione della sicurezza, al contrario del tempo che spalanca le porte dell’angoscia.
Anche per questo l’archetipo del costruito comincia sempre con una copertura, cioè, con un tetto.
I muri vengono in seguito.
La tenda – che sia la yourte mongola, la koté lappone, il tipi dei nativi americani – intesa come un riparo è, in questo contesto, una forma ancora più originaria della capanna.
Nel linguaggio comune avere un tetto significa avere una casa. Non si dice la stessa cosa dei muri.
Essere sotto un tetto significa essere protetti, trovarsi tra quattro mura significa essere rinchiusi.
Un tetto senza mura può essere logico (come nel caso di una tenda), un muro senza tetto non è che una barriera, un recinto, una concentrazione.
Possiamo dire che costruire tetti è un tratto specificatamente umano.
Gli animali, di contro, scavano delle gallerie, costruiscono dei nidi o delle dighe, ma non fanno tetti.
Nella preistoria stare in una caverna non significava propriamente abitare, era piuttosto un modo per essere radicati in un luogo, un modo per mettere le radici.
Agl’occhi dell’uomo del neolitico erano il luogo e la terra che configuravano l’abitare. In questo senso la caverna è il “posto” dell’innocenza perduta, una culla e una tomba, allo stesso tempo.
Ancora, le culture stanziali privilegiano gli spazio interni, di contro, l’habitat dei nomadi si confonde con lo spazio e il paesaggio.
Un aneddoto racconta che nell’immediato dopoguerra alcune famiglie di zingari ungheresi furono costrette dalla politica riformista filosovietica a fermarsi e a vivere in un villaggio a loro destinato.
Nel giro di qualche giorno scardinarono tutte le porte d’ingresso.
Con il termine nomadismo si intende oggi qualunque forma di esistenza sociale che implichi spostamenti periodici necessari alla sopravvivenza e alla riproduzione del gruppo umano.
Sia che si tratti di gruppi che vivono della raccolta di vegetali selvatici e/o della cattura di selvaggina. Che praticano l’allevamento mediante lo spostamento periodico delle greggi di animali addomesticati. O che conducono una vita mobile solo parzialmente finalizzata alla ricostruzione delle basi materiali dell’esistenza, ci troviamo in tutti i casi in presenza del fenomeno del nomadismo
In questo senso, tanto le forme quanto i ruoli strutturali assunti dal nomadismo all’interno
della storia umana sono molteplici e riguardano gruppi spesso molto diversi tra di loro dal punto di vista dell’organizzazione economica, politica e sociale.
Oggi, in particolare, il termine nomadismo è riferibile tanto allo stile di vita degli ultimi cacciatori-raccoglitori delle foreste pluviali e delle aree desertiche del pianeta, quanto a quello delle comunità di pastori nordafricani e asiatici, ma anche a quei gruppi generalmente chiamati peripatetici, gruppi senza fissa dimora come gli zingari asiatici ed europei, i girovaghi e i vagabondi presenti un po’ ovunque nel mondo.
L’ethos – cioè, lo stile di vita – dei nomadi consiste sostanzialmente nell’essere sempre sul punto di partire. In questo senso il territorio per loro è inteso come un insieme di traiettorie e di punti costituiti dalle fonti dell’acqua, del cibo, di riparo, di riunione.
Più importante ancora è il fatto che i nomadi occupano un territorio che spesso riunisce più luoghi senza che essi ne riconoscano la proprietà, né l’assetto amministrativo o politico.
Si può dire che i nomadi obbediscano al nomos – nel significato di usanza – e non alla polis, la città.
In questo modo, fuori dalla città-stato i nomadi sono fuori anche dalla politica e spesso, di conseguenza, dalla vita civile.
L’architettura nomadica, poi, è trasportabile, provvisoria, effimera, in qualche modo sembra esprimere la precarietà della vita sulla terra. Vale a dire, è un architettura che non costruisce per l’eternità o solo per valorizzare il capitale investito, ma si adegua e risponde alla logica del ricovero.
In questo senso, la cultura giapponese che deve convivere con i terremoti conosce bene la precarietà a tal punto da averla mutata in una filosofia. Lo vediamo a proposito del santuario d’Isé, che è periodicamente distrutto e ricostruito.
Il santuario di Ise è un santuario scintoista consacrato alla dea Amaterasu Omikami, situato nella città di Ise nella Prefettura di Mie in Giappone.
Ufficialmente conosciuto semplicemente come Jingū (il Santuario), è in effetti un enorme complesso costituito da oltre un centinaio di santuari autonomi, suddivisi in due zone principali. Gekū o “Santuario esterno” è collocato nella città di Yamada, mentre Naikū o “Santuario interno” è situato nella città di Uji è dedicato alla dea Amaterasu Omikami.
I due complessi sono situati a sei chilometri di distanza e sono congiunti da una via di pellegrinaggio che passa attraverso il vecchio distretto di Furuichi.
In accordo con la cronologia, i santuari furono originariamente costruiti nei primi anni dell’era comune, ma molti storici ne collocano la costruzione secoli dopo, nel 690, anno in cui nella maggior parte delle ipotesi il Grande Santuario raggiunse la sua forma attuale.
I santuari del complesso vengono smantellati e ricostruiti, sempre identici, una volta ogni vent’anni, con spese enormi.
Gli edifici attuali, costruiti nel 2013, sono la sessantaduesima ricostruzione, la prossima è in programma per il 2033.
Il santuario di Ise ha anche un tesoro nazionale tra di essi c’è il Sacro Specchio raffigurante Amaterasu, che rende il santuario il più importante sito sacro dello Shintoismo.
L’accesso all’area dove è custodito lo Specchio è strettamente limitato, i laici e tanto meno i turisti, non possono vedere altro se non i tetti degli edifici centrali, nascosti dietro tre alte recinzioni di legno.
L’uomo abita la natura, ma l’abita per emanciparsi da essa, distaccarsene.
Il cristianesimo, per esempio, desacralizza i siti pagani e questa è anche la ragione perché le chiese si benedicono prima di essere costruite e non dopo.
Con l’età romantica un luogo può diventare un sito quando le sue costruzioni sono distrutte, non possono essere abitate, ma mantengono il loro valore artistico.
Pensate ai resti della cultura greca e romana.
In altri termini, i siti sono spesso destinati a divenire indistruttibili luoghi di memoria e di culto.
Siti e senso del tempo: le rovine non sono altro che la punta di iceberg di ciò che ci viene restituito del passato. I nostri sforzi di tentare di comprendere le dinamiche di vita delle società del passato non sono che tentativi di fronte alla complessità delle infinite situazioni che potevano sussistere. Come si fa da poche pietre sconnesse che identificano un crollo in una fase tardo antica di una città romana a capire come essa effettivamente andò in rovina? Perché lì e non altrove? Perché in quel momento e non in un altro? E qual è esattamente il momento? Cosa e perché ha provocato l’abbandono di una città che fino ad un secolo prima era fiorente? Ma era davvero un secolo? Può un semplice frammento di ceramica raccontarmi i commerci, la vitalità economica e sociale di una città romana? Può l’assenza di quel frammento raccontarmi di quando e come quella vitalità è scomparsa? È stato un processo rapido o un lento declino? E in questo modo che lo studioso si pone dinanzi al senso del tempo, cercando di districarsi e di districarlo, di dipanarne la matassa.
Di capirci qualcosa.
In Cina un tempo non si costruiva senza il feng–shui, cioè senza aver prima fatto una previsione su come il luogo avrebbe accettato la costruzione e di come si sarebbe armonizzato con esso.
In pratica il feng–shui (alla lettera significa vento e acqua) è una dottrina per la protezione dei luoghi dalle influenze nefaste.
Feng shui significa “vento e acqua”, in onore ai due elementi che plasmano la terra e che col loro scorrere determinano le caratteristiche più o meno salubri di un particolare luogo. Secondo il taoismo esistono due principi generali che guidano lo sviluppo degli eventi naturali, essi sono il “Ch’i” e l’equilibrio dinamico di yin e yang. Lo yin è il principio umido oscuro e femminile, mentre lo yang è il principio caldo luminoso e maschile. Nel feng shui lo yin è rappresentato dall’acqua e lo yang è il vento inteso forse più come respiro, in fondo acqua e aria sono indispensabili per la vita.
Secondo i principi del feng shui, una casa per essere ben costruita dovrebbe essere quadrata o rettangolare senza angoli o parti mancanti e con forma regolare, dovrebbe avere un drago verde ad Est (delle piante alte che proteggano questo lato), una tigre bianca ad Ovest (possono esservi anche da questa parte delle piante, ma più basse), una tartaruga a Nord (una collina o un grosso masso) e la fenice rossa a Sud (può essere anche sotto forma simbolica, ad esempio un sasso con un filo rosso avvolto intorno). La parte sud dell’edificio è la più esposta alla luce ed al calore del sole (almeno nel nostro emisfero) quindi è considerata corrispondente al fuoco e allo yang. La parte nord della casa è considerata corrispondente all’acqua e alla carriera. Proprio perché l’acqua corrisponde all’elemento più Yin dell’oroscopo, è la direzione più indicata per il riposo. Uno dei suggerimenti del feng shui è dormire con la testa rivolta verso nord e i piedi verso sud.
Ciò detto, per costruire gli uomini hanno da sempre usato i materiali che esistevano sul posto, legno terra, pietre, al limite il ghiaccio.
Questo ci consente di dire che il modello archetipo della costruzione è la natura. Che l’estetica nasce come coscienza di questo processo. L’uomo che costruisce non è colui che crea, ma colui che rivela, che da un volto alla cosa.
Nell’architettura occidentale le pietre dei palazzi sono una firma del luogo.
Per esempio, in Francia, ci sono zone dove la pietra cambia di colore ogni cinquanta o sessanta chilometri e così le chiese, gli edifici pubblici e le case.
Ma c’è anche il caso contrario. Di pietre trasportate da enormi distanze.
Per le colossali costruzioni di Cuzco o di Machu Picchu gli Incas trasportarono dei blocchi di pietra per distanze valutate migliaia di chilometri.
In ogni caso di tutti i materiali da costruzione la terra è il materiale di un terzo delle costruzioni al mondo.
I vegetali – legno, foglie di palma, paglia – sono un altro dei materiali locali più usato, poi c’è la carta.
Nell’isola di Kiribati – in Micronesia – le grandi case comuni senza muri ( maneaba) sono formate da enormi tetti vegetali montati su pali che possono raggiungere i quindici metri.
Nella nostra cultura, di contro, sono comuni i muri in pietra secca, oggi li consideriamo romantici se non altro perché sappiamo che i muri in cemento armato li percepiamo come qualcosa che separa e isola.
A questo proposito i nuraghi sardi sono delle straordinarie costruzioni in pietra secca.
I nativi americani, di contro abitano nei tipi, tende coniche di pelle di bisonte.
Al di là delle apparenze la magia e la forza vitale dei luoghi è ciò che ne determina – per i poeti – la bellezza.
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Il tema dell’abitare e del costruire è un’occasione per aprire una piccola parentesi sull’homo faber
Questa espressione ci ricorda che la differenza più evidente tra gl’esseri umani e gli animali è il fatto che l’uomo è il solo che costruisce e fa uso di utensili complessi e, di più, usa utensili per costruire altri utensili.
Uno dei più grandi antropologi del ventesimo secolo, il francese André Leroi-Gourhan (1911-1986) è l’autore di una tesi oggi molto popolare e condivisa per la quale è la mano e la manualità che hanno preceduto lo sviluppo celebrale.
Una tecnica manuale semplice non richiede un cervello particolarmente sviluppato quanto una buona organizzazione delle aree celebrali. Per esempio gli scimpanzé si avvalgono spesso di utensili, ma essi sono trovati e non costruiti e di essi se ne fa un uso occasionale.
Il paragone con lo scimpanzé diventa però interessante se prendiamo in considerazione il fatto che questi usa le mani come strumenti per impastare, intrecciare, schiacciare, mentre altre funzioni sono affidate ai denti.
Siamo quindi in presenza di due poli, uno manuale e uno facciale, con funzioni separate.
Osservando invece l’evoluzione dell’uomo si rileva che l’acquisizione della posizione eretta coincide con una riduzione dei denti davanti.
Ciò induce a pensare che grazie alla maggiore libertà acquistata dalle mani, per via della posizione eretta, certe funzioni siano state affidate agli utensili e i denti abbiano perso la loro funzione originale.
In questa prospettiva gli utensili non appaiono come un elemento esterno, degli intrusi, ma il prodotto della mano stessa nel corso della sua evoluzione.
Dentro quest’ottica possiamo dire che non siamo diventati costruttori di utensili perché dotati di particolari capacità, al contrario, abbiamo accresciuto le nostre potenzialità intanto che apprendevamo l’uso degli utensili e miglioravamo la loro costruzione.
André Leroi-Gourhan amava dire: È ancora estremamente salutare, che la scienza dell’essere umano sia la più interdisciplinare di tutte le discipline. A partire dal momento in cui l’essere umano non può parlare per se stesso, perché è assente o perché è morto; o per la mancanza di documenti, vi sono ancora due testimonianze: quella dell’arte e quella della tecnica.
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A livello inconscio, per la maggior parte di noi l’architettura è associata all’idea di sedentarietà.
Di fatto, però, la sedentarietà sembra essere un epifenomeno in rapporto all’arco temporale dell’esistenza dell’umanità.
È un’idea condivisa che quando i primi uomini smisero di essere cacciatori-raccoglitori cominciarono anche a costruire le prime abitazioni, dunque a padroneggiare l’arte del costruire.
Il passaggio dal nomadismo alla sedentarietà induce, paradossalmente, a una visione funzionale e semplificata dell’architettura che, etimologicamente, rimanda al principio di costruzione.
Tra l’altro non si deve dimenticare che anche nelle società più sedentarie esiste una tradizione di architettura nomade per eccellenza, quella navale.
I due concetti, se osservati da questa prospettiva, non appaiono quindi così antitetici.
Per venire a noi i primi anni del ventunesimo secolo hanno visto lo sviluppo del nomadismo in architettura sotto vari aspetti.
La globalizzazione, che da anni coinvolge il mondo occidentale, ha generato la moltiplicazione di luoghi identici – il più delle volte fondata sui mall e le sue merci o su i suoi gangli di comunicazione, come gli aeroporti – dove l’uomo nomade ritrova un universo familiare.
(Un universo spesso assimilato ai “non-luoghi” e ai processi di banalizzazione dell’identità sia dal punto di vista cognitivo, sia della sensorialità come dell’emotività.)
In ogni modo questo processo di moltiplicazione dei luoghi si è portato dietro, inevitabilmente, importanti movimenti tra le popolazioni relegate ai confini del mondo occidentale.
Gli uomini sradicati e senza risorse, soprattutto oggi, ricostruiscono le loro vite in habitat abitativi precari e al limite dell’abitabilità, che possono essere spostati a seconda degli eventi politici ed economici.
A lato di tutto ciò i problemi ambientali e la domanda di spazio attraverso le ricerche architettoniche alternative fanno riscoprire le qualità delle costruzioni prive di fondamenta, spostabili velocemente.
Il nomadismo, come si può costatare, si presenta così in molte versioni e presenta una varietà di approcci architettonici spesso criticabili.
Come sappiamo i primi anni del nuovo secolo hanno conosciuto uno sviluppo edilizio senza precedenti.
L’affacciarsi sul mercato di paesi emergenti come la Cina, che oggi consuma circa il quaranta per cento del consumo mondiale dei materiali da costruzione e l’apertura verso il liberalismo di molti altri paesi appena usciti dal sottosviluppo sono alcune tra le ragioni che spiegano il boom costruttivo.
All’interno di questo ampio sviluppo le creazioni architettoniche differenti, per molti versi, annunciano il futuro. Dai tempi delle tende dei nomadi la tipologia delle costruzioni smontabili e trasportabili si è notevolmente ampliata.
La gamma dei materiali utilizzati è cresciuta enormemente grazie alle ricerche scientifiche più avanzate, ma anche a un uso dei materiali diverso da quello abituale.
C’è poi d’aggiungere che da tempo le costruzioni nomadi non hanno sempre dimensioni ridotte, come nel caso delle costruzioni destinate allo spettacolo, che presentano spesso i caratteri delle costruzioni nomadi.
Durante il Novecento, le ricerche sulle strutture nomadi si sono spesso concentrate sulle abitazioni d’emergenza.
Catastrofi naturali e guerre sono state le cause principali dello sviluppo di numerosi prototipi.
Uno dei primi fu la Dymaxion deployment unit (1940) dell’architetto e designer statunitense Richard B. Fuller (1895-1983) monopolizzata dalle necessità militari della Seconda guerra mondiale.
L’architetto finlandese Eero Saarinen (1910-1961) presentò nel 1942-43 negli Stati Uniti due progetti di case smontabili: la Unfolding house e alcuni moduli residenziali denominati PAC (Pre-Assembled Components).
l francese Jean Prouvé (1901-1984) propose nel 1944 per i rifugiati della Lorena il cosiddetto Padiglione 6x6, montabile in una giornata grazie a un preciso e conseguente processo di assemblaggio.
In qualche modo l’evoluzione dei ripari temporanei, più o meno elaborati, è proseguita fino ai nostri giorni. Il padiglione di Prouvé ha dimostrato di essere ancora moderno in occasione della sua esposizione alla Biennale di Venezia del 2000.
Diciamo che sono soprattutto le questioni teoriche e esistenziali poste dagli innovatori di allora, a essere ancora oggi al centro delle riflessioni,come la piccola dimensione, i limiti di spazio, l’appartenenza a molteplici luoghi e non più a uno solo, il carattere ripetitivo del processo costruttivo, l’apparente precarietà.
Tra le principali figure che si sono dedicate all’architettura d’emergenza vi è il giapponese Shigeru Ban.
Nel 1995, per aiutare le persone rimaste senza casa a causa del terremoto di Kobe, questo architetto ha ideato la Paper loghouse, un’abitazione minima la cui struttura portante è costituita da tubi in carta che poggiano su un quadrato di cassette di birra rinforzate da sacchi di sabbia, mentre il soffitto è coperto da un tetto di tela.
Si è trattato di una risposta al bisogno di abitare sia pure con un comfort ridotto.
Le Paper loghouse sono state installate prima nel parco Minamikomae a Kobe, poi in Ruanda e in Turchia, qui a causa di un terremoto.
La Paper tube structure ha permesso a Ban di edificare anche un centro comunitario, la Paper church (1995), e il padiglione giapponese per l’esposizione universale di Hannover del 2000.
Se Ban è stato sedotto dalla carta, materiale tradizionale in Giappone per le pareti divisorie, l’architetto iraniano Nader Khalili ha sperimentato come materiale da costruzione la terra.
Interessato ai problemi delle persone sfollate a causa delle guerre e delle catastrofi naturali, ha condotto delle ricerche sui metodi delle costruzioni tradizionali in terra.
Le strutture da lui progettate (con l’assistenza di Phil J. Vittore, un esperto in archi e cupole costruiti con materiali non convenzionali) permettono di ottenere il massimo dello spazio utilizzando il minimo del materiale sovente reperito sul posto.
Khalili ha mischiato terra e sacchi, con una tecnica che ha chiamato superadobe, per realizzare nel 1995 il suo Emergency sand-bag shelter.
Il processo costruttivo è semplice e rapido e necessita solo di poche persone.
Le caratteristiche del materiale e del sistema di costruzione rendono queste strutture resistenti ai terremoti, alle inondazioni e ad altre calamità; la terra offre inoltre un isolamento termico e acustico naturale.
Il sistema può servire a costruire anche edifici non residenziali, come scuole e ospedali, e persino strade o ponti: tali costruzioni presentano infatti il vantaggio, nel lungo periodo, di essere biodegradabili.
Questi edifici hanno rappresentato un notevole aiuto dopo il terremoto che ha colpito il Pakistan nell’ottobre 2005.
A differenza delle opere progettate da Ban, gli shelters di Khalili sono più effimeri che nomadi. Essi condividono con il tema del nomadismo l’assenza di radicamento al suolo e la possibilità di reimpiegare alcuni materiali in altri luoghi.
Numerosi altri esempi di edifici nomadi d’emergenza sono stati esposti nella mostra Crossing. Dialogues for emergency architecture, curata da Zhou Shou e Pan Qing, che si è tenuta al NAMOC, National Art Museum of China di Pechino nel maggio 2009.
A questa esposizione parteciparono, tra gl’altri, anche il Rintala Eggrtosson Architects e Sou Fujimoto, considerato una dei più creativi architetti giapponesi dell’ultima generazione.
Sami Rintala è un architetto finlandese, ha studiato architettura presso la Helsinki University of Technology. Il suo lavoro si basa sui principi della narrazione e dell’arte concettuale, l’obiettivo della sua poetica tende a un’interpretazione stratificata delle risorse fisiche, mentali e poetiche del luogo ai fini progettuali.
Aggiungiamo che in un mondo dove gli spazi vuoti si riducono ogni giorno, di fronte a metropoli con edifici che faticano a riqualificarsi, la nuova architettura nomade non si esprime più solo all’aria aperta o in aree vergini, ma negli edifici in abbandono.
Esplora i meandri della nostra civilizzazione urbana, in simbiosi con la tendenza alla scomparsa progressiva delle popolazioni rurali.
I traffici marittimi, sempre per restare nel tema del nomadismo, hanno ispirato un architetto come l’inglese Simon Allford dello studio AHMM di Londra. L’obiettivo della sua ricerca è quello di conferire una seconda vita ai container da trasporto, simbolo della globalizzazione e della circolazione delle merci. Secondo Allford riciclare i container trasformandoli in alloggi modulabili, corrispondenti a un’unità minima di abitazione, offre una soluzione al problema abitativo e permette di sfruttare territori urbani come le aree dei parcheggi. Nel 2003 Allford ha concretizzato le sue idee con il progetto MoMo (Mobile Modular apartments). Il container residenziale conosce oggi una grande popolarità. Paradossalmente, però, le abitazioni realizzate in container prefabbricati accolgono da qualche tempo immigrati illegali in soggiorno forzato.
Facciamo un passo avanti.
L’opzione più radicale del nomadismo architettonico lo dobbiamo alle nanotecnologie.
L’ultimo stadio del corpo trasformato in architettura può realizzarsi con le pelli abitabili, i nanodermi, futuro paradigma dell’abitazione umana se crediamo che l’inserimento nel paesaggio di una pelle nomade, abitabile e cambiabile, corrisponde a un mito che può diventare realtà.
Qui non si tenta più di vincere il clima, di lottare contro le forze della natura, ma di creare un clima interno che deve tutto a una tecnologia visivamente discreta, che viaggia senza limiti territoriali.
In tal modo spariranno tutte le megastrutture, gli involucri, le bolle, le costruzioni.
La visione dell’assenza di qualsiasi traccia architettonica corrisponde all’Eden ritrovato, dove l’uomo sarà necessariamente nomade.
L’acqua è inafferrabile, cosa esiste di più nomade dell’architettura liquida?
L’architettura liquida giunge, in via teorica, fino alla smaterializzazione, poiché è basata su relazioni tra elementi astratti, e l’effimero è il suo destino.
Il riferimento è a Zygmunt Bauman.
L’architetto non concepisce più un singolo edificio, ma definisce i principi che daranno origine a una serie infinita di essi. Agli antipodi della sedentarietà, l’architettura liquida si muove con la velocità del pensiero immateriale. Al di fuori del principio di continuità tradizionale, il cyberspazio permette a ogni schema di diventare opera architettonica: è architettura che contiene architettura.
L’architettura non è nomade solo per il cambiamento di luogo a cui può essere sottoposta: è nomade nella sua forma, spazialmente e temporalmente.
“Se abbiamo descritto architettura liquida come una sinfonia nello spazio, questa descrizione è ancora lontana da ciò che essa è. Una sinfonia, pur variando entro la sua durata, è ancora un oggetto fisso e può essere ripetuto. Alla sua massima espressione un’architettura liquida è più di questo. Si tratta di una sinfonia spaziale, ma è una sinfonia che non si ripete mai e continua a svilupparsi come un’estensione del nostro corpo, come riparo e protagonista del nostro Sé…
- Novak,Liquid architectures in cyberspace, inCyberspace. First steps, 1991.
Marcos Novak è un docente presso il Dipartimento di Architettura e Urbanistica della UCLA, a Los Angeles. È considerato, oltre che un architetto innovatore, un artista, un compositore e un teorico che impiega tecniche algoritmiche per la progettazione di ambienti intelligenti reali, virtuali e ibridi. Da tempo cerca di ridefinire il paradigma dell’architettura per includervi la cultura digitale. Ha creato il concetto di architetture liquide nel cyberspazio e ha fondato uno studio per un’architettura dematerialize, aperto al nuovo e al virtuale.
Per Jacques Attali, un filosofo francese autore di L’homme nomade (2003) è il neonomade il nuovo individuo che dominerà il mondo policentrico del futuro.
Il nomade classico porta su di se il peso di un’immagine carica di pregiudizi all’interno di una società che attribuisce importanza ai valori della sedentarietà, del territorio e dei legami ancestrali, compresi gli stili architettonici propri di ogni Paese d’origine.
Oggi, invece, i rappresentanti di un’élite, per la quale il mondo è un villaggio (McLuhan), dispongono di più luoghi di residenza, oppure possono trovare in tutti gli angoli del pianeta un ambiente di vita conforme alle loro esigenze.
In termini più sociologici possiamo dire che l’immagine prevale sul messaggio, l’apparenza domina il contenuto, che le rappresentazioni veicolano nuove pratiche architettoniche più o meno valide.
L’uomo, il cui nomadismo è legalmente autorizzato e socialmente apprezzato, che padroneggia le più moderne tecnologie, che il reddito o la nazionalità mettono al riparo dalla condizione di illegale o di richiedente asilo, abita un mondo multiverso che comincia a diventare troppo piccolo per lui.
La sedentarietà sembra essere, come abbiamo visto, una parentesi nell’arco temporale dell’esistenza umana: poco a poco l’uomo ridiventa nomade. L’urbanizzazione crescente testimonia il cambiamento fondamentale vissuto nel mattino di questo nuovo secolo. In questo senso la globalizzazione è una re-invenzione del nomadismo: un nomadismo di altro genere, contemporaneo all’avvento della società dell’informazione e della conoscenza.
Il nomadismo in questa prospettiva si definisce come una nuova modalità connessa al popolamento.
All’origine, questo, era associato alla ricerca di pascoli, allo spostamento degli animali. Nel nostro mondo globale tali bisogni appaiono obsoleti, anche se gl’uomini che vivono alla periferia dell’impero occidentale li ha riscoperti sotto la spinta della necessità.
Così, a mano a mano che nella nostra società segmentata riappare un’organizzazione di tipo tribale, i valori tradizionali dell’architettura si frammentano.
Il popolamento, sia negli spazi interstiziali delle città sia negli orizzonti infiniti del cyberspazio, si distribuisce secondo una ripartizione che tenta di sfuggire a ogni territorializzazione dello Stato, a ogni definizione spaziale.
Il costruire è così soggetto a un errare senza meta: abitare non esprime più il legame con la terra, il radicamento, ma la manifestazione di un bisogno umano elementare, il sogno di un’architettura istantanea.
Fine parte introduttiva.
RADICI FLUSSI & MODELLI D’INTEGRAZIONE.
Per abitare. Sono necessarie le radici?
I più importanti modelli culturali d’integrazione nell’ambito della cultura occidentale sono essenzialmente quattro.
Prima di esaminarli occorre ricordare che i modelli culturali, al di là dello storytelling, sono scorciatoie interpretative e che l’identità culturale, come quella etnica, sono leggende senza fondamento.
Il loro uso dunque è essenzialmente didascalico.
Il primo modello è quello endoculturale.
È il modello tipico delle culture chiuse e è di fatto un modello xenofobo.
L’Altro, lo straniero, il diverso sono emarginati e spesso rifiutati allo scopo di tutelare e proteggere la cultura, l’economia, la religione e le tradizioni locali.
Politicamente può essere considerato il modello culturale preferito dai totalitarismi e dai regimi conservatori.
In passato era caratteristico di molte società stabili e avvantaggiate sul piano economico.
Questo modello non è mai stato egemone nei medi e lunghi periodi.
Fuori dallo stato di eccezione è sempre fallito.
Le frontiere dell’ideologia endoculturale sono molteplici.
Sono quelle dello Stato, ma possono essere anche quelle della regione, della città, del quartiere.
La xenofobia, infatti, è un’ideologia che può essere agita contro chiunque è definito o ritenuto uno straniero, un diverso, un estraneo.
Va però anche ricordato che l’esperienza migratoria fa parte della storia dell’uomo e che nessun muro l’ha mai potuta fermare per molto.
Questo modello è – nei fatti – sostanzialmente uno strumento per relegare lo straniero in una condizione permanente di inferiorità e – se e quando è necessario – trasformarlo in un nemico, in responsabile dei problemi irrisolti della collettività ospitante.
La paura, che sta alla base dei processi reattivi dell’endocultura, non va giustificata come un semplice problema di psicologia delle masse, perché in realtà tradisce un profondo egoismo.
Tende, invocando lo statu quo, a non lasciare che certi vantaggi si deteriorino, come l’utilizzo a costi irrisori del lavoro dello straniero e dei suoi saperi che vengono dall’altrove.
Tende all’esclusione dello straniero dai diritti e dai vantaggi sociali.
Soprattutto considera lo straniero il capro espiatorio di riserva per ogni crisi locale o nazionale che non sia risolvibile diversamente.
La xenofobia che galleggia sul modello endoculturale lo ha formalmente marginalizzato in quelle aree geografiche e in quelle nazioni che non sono e che non devono neppure fingere di essere democratiche.
Il secondo modello è definito multiculturale o anche melting pot, come è chiamato negli USA dove si è diffuso e sviluppato a partire dalle prime decadi del Novecento, anche grazie alle inchieste sul campo della Scuola di Chicago.
È il primo modello che in qualche modo rifiuta la xenofobia esplicita.
Ancora oggi è molto popolare e diffuso.
Nella multiculturalità c’è una particolarità importante: l’elemento centrale non è l’individuo, ma la comunità etnica.
Questo modello predica la convivenza tra le culture, ma queste culture sono di fatto relegate in aree locali o urbane che facilmente, con il tempo e le pressioni esterne, si mutano in ghetti, elaborano spazi identitari distinti e facilmente riconoscibili.
A proposito di questo modello occorre evitare un equivoco diffuso che lo riguarda, perché la convivenza non significa uguaglianza.
Basta osservare come nel melting pot, prima o poi, le varie comunità che lo compongono rivendicano la diversità se non la superiorità della loro cultura e della loro way of life.
Può apparire una sottigliezza lessicale, ma in questo modello di multiculturalità la segregazione progressivamente si trasforma in separazione.
Le diversità diventano differenze.
I confini diventano frontiere da temere e rispettare, spesso invalicabili.
Diciamo che in questo modello alla ghettizzazione come espressione xenofoba si sostituisce la filosofia dei mille ghetti come piccole patrie.
Davanti a questo stato di cose, qual è il problema più sentito da parte dello “straniero”?
O egli rinuncia per sempre a se stesso, alla sua identità, cercando di assimilarsi ai “residenti”.
O è costretto a vivere dentro il ghetto della comunità d’origine con la sua cultura e le sue tradizioni che la lontananza finisce per alterare e che il più delle volte si trasforma in folclore.
Per usare un’espressione mediata dall’economia è come se le diverse comunità che si formano siano condannate, volenti o nolenti, se vogliono sopravvivere, a conquistare delle rendite di posizione.
Questo è il motivo per il quale nel melting pot ogni comunità ha le sue scuole, i suoi negozi, i suoi giornali e radio locali, le sue televisioni, i suoi circoli culturali e politici, le sue feste religiose.
Questo stato di cose – che accosta queste comunità a dei non-luoghi atipici – fa si che il migrante trovi nel ghetto della comunità che lo ospita la riproduzione – modello Svizzera in miniatura – della comunità di origine.
Sul piano psicologico sono circostanze che condannano il migrante alla nostalgia e alle sue forme patologiche, così come a forme di anomia del comportamento.
Ma, più grave ancora, queste circostanze lo obbligano prima o poi a adeguarsi a due autorità, quella della comunità che lo ospita e quella della sua comunità di origine, perché dal compromesso tra queste due comunità finisce per dipendere, in buona misura, la sua posizione sociale.
Uno dei pericoli reali delle politiche ispirate al melting pot è che esse finiscano per essere l’innesco di rivolte che nella loro fase gestativa sfuggono ai controlli istituzionali per poi esplodere in forme non convenzionali di conflitto.
Ma questo è il rischio di tutte quelle politiche che separano per comandare e comandano per imporre i loro interessi.
Una variante della multiculturalità più evoluta è rappresentata dal terzo modello, quello interculturale.
Per certi versi è un modello europeo che si è diffuso a partire dalla seconda metà del Novecento, con qualche variante, soprattutto in Inghilterra e in Francia.
Il punto di forza politico di questo modello riposa sul principio che tutte le culture hanno pari dignità e che esse si valorizzino confrontandosi.
In altri termini non ci sono gerarchie culturali, ma solo differenze.
L’individuo è sempre in diretta relazione con il suo gruppo comunitario, ma della identità del gruppo vengono sottolineati e valorizzati solo i contenuti non aggressivi, come la lingua le arti, il folclore e soprattutto la cucina.
In linea teorica la valorizzazione culturale non avviene mai a spese di un’altra cultura e a ogni cultura viene riconosciuto il diritto di esistere a parità di diritti.
Il rischio insito in questo modello è che si vengano a creare delle comunità immaginarie.
Delle comunità che sono solo una caricature o una tragedia di quelle originarie e che spesso ne cavalcano i limiti e le ossessioni.
Si pensi alla confusione d’identità dei beur francesi.
Beur, femminile beurette, è un neologismo politico che definisce i discendenti degli emigrati dall’Africa del Nord che si sono trasferiti in Francia.
Questa espressione è nata negli anni ’80, ma già qualche anno dopo era entrato nei vocabolari della lingua francese.
L’origine del termine è curiosa.
È stato inventato invertendo l’ordine delle sillabe della parola arabe, a-ra-beu, da cui beu-ra-a, poi beur per contrazione.
Questo termine viene usato per marcare una differenza culturale con la condizione di francese e in qualche modo esso suona offensivo per il riferimento implicito a beurre (burro).
I beurs hanno origine nei paesi del Maghreb francese – Algeria,Marocco, Tunisia, Libano e Egitto – e hanno di fatto creato un insieme di comportamenti, di stili di vita, di abbigliamento, di letteratura, cinema, cucina, umorismo.
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L’ultimo modello è quello che postula la cultura come route invece che root.
Che mette in primo piano la transculturalità, vale a dire la constatazione che la cultura come paradigma è un’astrazione, ma non gli individui che sono portatori di culture diverse e inestricabili tra di loro.
È il paradosso inglese. In Inghilterra gli inglesi riconoscono un aspetto della loro identità nel rito del tè. Gli indiani nel gioco del cricket.
Entrambi sono degli specialisti in quello che hanno acquisito dall’altro.
In questo modello l’elemento centrale è la libera circolazione delle persone, dei capitali, delle merci.
Ma soprattutto delle persone, nella loro unicità e irripetibilità, perché la dimensione esistenziale è un valore non negoziabile.
La fragilità di questo modello sta nel fatto che lascia scettici i poteri politico-decisionali, quindi non ha la protezione delle istituzioni.
Che non può molto contro l’immensa capacità di devastazione dei pregiudizi.
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A livello inconscio o dei luoghi comuni, per la maggior delle persone l’abitare è associato all’idea di sedentarietà.
Se però si osserva con attenzione la storia e la scena abitativa dell’uomo la sedentarietà sembra essere un fenomeno secondario in rapporto all’arco temporale dell’esistenza dell’umanità.
È opinione comune che quando i primi uomini smisero di essere cacciatori-raccoglitori, per diventare agricoltori, cominciarono anche a costruire le prime abitazioni stanziali e a padroneggiare l’arte del costruire.
Tra l’altro, in termini funzionali, non si deve dimenticare che anche nelle società più sedentarie esiste una tradizione di architettura nomade per eccellenza, quella navale.
Se osservati da questa prospettiva i due concetti, di nomadismo e sedentarietà, non appaiono quindi così antitetici.
In realtà la nostra convinzione su una vocazione stanziale dell’uomo occidentale nasce negli ultimi secoli, è una sedentarietà indotta e funzionale allo sviluppo e all’interesse della civiltà industriale e manifatturiera e dello Stato-Nazione.
Per venire ai nostri giorni, va anche osservato che fin dai primi anni del ventunesimo secolo c’è stato uno sviluppo del nomadismo sotto molti aspetti.
Un fenomeno che si è accentuato con le società post–moderne e la globalizzazione, un fenomeno che da anni caratterizza il mondo occidentale.
Anche se non se ne parla molto, nell’epoca dell’interconnessione globale, il nuovo nomadismo preme dall’interno contro l’organizzazione sociale, giuridica e economica della forma di Stato fondato sulla sedentarietà.
Sotto un altro aspetto e non meno importante, la globalizzazione ha prodotto la moltiplicazione di luoghi identici nella loro fittizia unicità.
Un’identità fondata sui luoghi del commercio, come sono i mall o i centri commerciali, la merce e i luoghi di consumo, gli snodi di comunicazione, come gli aeroporti – dove l’uomo nomade ritrova un mondo fittizio e familiare.
Dove il viaggiatore-consumatore trova il suo nuovo bush.
Un mondo assimilato ai non-luoghi e ai processi di banalizzazione dell’identità sia dal punto di vista cognitivo, sia dal punto di vista della sensorialità e dell’emotività, ma gratificante dal punto di vista dei consumi,soprattutto di quelli che appaiono esotici.
Questo processo di moltiplicazione dei luoghi si è portato dietro inevitabilmente importanti trasformazioni anche tra le popolazioni relegate ai confini del mondo occidentale.
Gli uomini sradicati e senza risorse, le masse migranti, tentano incessantemente di ricostruire le loro vite in habitat abitativi precari e al limite dell’abitabilità.
Altri non-luoghi che possono essere spostati o eliminati a seconda degli eventi politici ed economici.
In altri termini, il nomadismo, come si può costatare, si presenta in molte versioni e presenta una varietà di approcci abitativi innovativi, spesso criticabili.
All’interno di questo sviluppo l’ampia gamma delle modalità architettoniche differenti ci annunciano un futuro costituito da un paesaggio urbano ancora inimmaginabile.
Di esso conosciamo solo quello ridisegnato dai neo-nomadi giornalieri che hanno profondamente cambiato fisionomia e aspetto alle città.
Lo stesso mercato del lavoro nelle sue forme post-moderne ha assunto come proprio modello ideale, spesso sottopagato e senza garanzie previdenziali, quello della mobilità e della flessibilità.
C’è rilevare che le ricerche sulle strutture nomadi si sono spesso concentrate sulle abitazioni d’emergenza.
Catastrofi naturali e guerre sono state le cause prime e principali dello sviluppo dei numerosi prototipi.
Uno di questi fu la Dymaxion deployment unit (1940) dell’architetto e designer statunitense Richard B. Fuller (1895-1983) monopolizzata dalle necessità militari della Seconda guerra mondiale.
È una capanna circolare di circa venti metri di diametro.
In realtà Fuller è più conosciuto come il padre della cupola geodetica, che tanto affascinò i giovani degli anni ’60.
Successivamente l’architetto finlandese Eero Saarinen (1910-1961) presentò nel 1942-43 due progetti di case smontabili: la Unfolding house e alcuni moduli residenziali denominati PAC (Pre-Assembled Components).
ll francese Jean Prouvé (1901-1984) nel 1944 propose per i rifugiati della Lorena il cosiddetto Padiglione 6x6, montabile in una giornata grazie a un preciso e semplificato processo di assemblaggio.
Il padiglione di Prouvé, tra l’altro, ha dimostrato di non essere ancora obsoleto in occasione della sua esposizione alla Biennale di Venezia del 2000.
In breve l’evoluzione dei ripari temporanei, più o meno elaborati, è proseguita ininterrotta fino ai nostri giorni.
Tra le nuove figure di progettisti non-europei che si sono dedicate all’architettura d’emergenza occorre ricordare il giapponese Shigeru Ban.
Nel 1995, per aiutare le persone sfollate a causa del terremoto di Kobe, questo architetto ha ideato la Paper loghouse, un’abitazione minima la cui struttura portante è costituita da tubi in carta che poggiano su un quadrato di cassette di birra rinforzate da sacchi di sabbia, mentre il soffitto è coperto da un tetto di tela.
Si è trattato di una risposta al bisogno di abitare sia pure con un comfort ridotto.
Se Ban è stato sedotto dalla carta, materiale tradizionale in Giappone per le pareti divisorie, l’architetto iraniano Nader Khalili ha sperimentato come materiale da costruzione la terra.
Interessato ai problemi dei profughi a causa delle guerre e delle catastrofi naturali, ha condotto delle ricerche sui metodi delle costruzioni tradizionali in terra.
Le strutture da lui progettate (con l’assistenza di Phil J. Vittore, un esperto in archi e cupole costruiti con materiali non convenzionali) permettono di ottenere il massimo dello spazio utilizzando il minimo del materiale, sovente reperito sul posto.
Khalili ha mischiato terra e sacchi, con una tecnica che ha chiamato superadobe, per realizzare nel 1995 il suo Emergency sand-bag shelter.
Questo processo costruttivo è semplice e rapido e necessita solo di poche persone.
Le caratteristiche del materiale e del sistema di costruzione rendono queste strutture resistenti ai terremoti, alle inondazioni e ad altre calamità. La terra offre inoltre un isolamento termico e acustico naturale.
Il sistema può servire a costruire anche edifici non residenziali, come scuole e ospedali, e persino strade o ponti.
Tali costruzioni non sono di lunga durata, ma presentano il vantaggio di essere biodegradabili.
Lo shelter di Khalili si è dimostrato di notevole aiuto dopo il terremoto che ha colpito il Pakistan nell’ottobre 2005.
A differenza delle opere progettate da Ban, gli shelters di Khalili sono più effimeri che nomadi. Essi condividono con il tema del nomadismo l’assenza di radicamento al suolo e la possibilità di reimpiegare alcuni materiali in altri luoghi.
Dobbiamo anche aggiungere che in un mondo dove gli spazi vuoti si riducono ogni giorno, di fronte a metropoli con edifici che faticano a riqualificarsi, la nuova architettura nomade non si esprime più solo all’aria aperta o in aree vergini, ma negli edifici urbani in abbandono.
Su un altro registro, i traffici marittimi, per restare nel tema del nomadismo, hanno ispirato un architetto come l’inglese Simon Allford, dello studio AHMM di Londra.
L’obiettivo della sua ricerca è quello di conferire un secondo fine ai container da trasporto, simbolo della globalizzazione e della circolazione delle merci.
Per Allford riciclare i container trasformandoli in alloggi modulabili, corrispondenti a un’unità minima di abitazione, offre una soluzione al problema abitativo e permette di sfruttare territori urbani come le aree dei parcheggi.
Da qualche anno, però, le abitazioni realizzate in container prefabbricati, proprio grazie alla loro natura, accolgono soprattutto immigrati illegali in soggiorno forzato.
Per Jacques Attali, un filosofo francese autore di L’homme nomade (2003) il neonomade è il nuovo individuo che dominerà il mondo policentrico del futuro.
Il nomade, come l’abbiamo conosciuto fino a oggi porta su di se il peso di un’immagine carica di pregiudizi all’interno di una società che attribuisce importanza ai valori della sedentarietà, del territorio e dei legami ancestrali.
Valori, aggiungiamo, che sono visivamente espressi negli stili architettonici e nell’urbanistica propri di ogni Paese d’origine.
Oggi, invece, i rappresentanti di un’élite, per la quale il mondo è un villaggio globale (McLuhan), dispongono di più luoghi di residenza, oppure possono trovare in tutti gli angoli del pianeta un ambiente di vita adeguato alle loro esigenze.
L’uomo, il cui nomadismo è legalmente autorizzato e socialmente spesso invidiato, che padroneggia le più moderne tecnologie, che il reddito o la nazionalità mettono al riparo dalla condizione di illegale o di richiedente asilo, abita un mondo multiverso che comincia addirittura a rivelarsi troppo piccolo.
La sedentarietà, in altri termini, appare, in questa prospettiva, come una parentesi nell’arco temporale della storia umana.
Paradossalmente, poco a poco l’uomo occidentale sta ridiventando nomade.
Lo ridiventa nello stesso momento in cui rifiuta di comprendere i flussi migratori che si attestano sempre più frequenti e consistenti nell’area temperata del pianeta terra.
In questo quadro la globalizzazione è l’espressione di in una re-invenzione del nomadismo: un nomadismo di nuovo genere, contemporaneo all’avvento della società dell’informazione e della conoscenza.
Così, a mano a mano che nella nostra società classista e segmentata riappaiono convenienti le forme del nomadismo, i valori tradizionali dell’abitare si decompongono.
L’abitare non esprime più il legame con la terra, il radicamento, ma la manifestazione di un bisogno umano elementare, il sogno di un’architettura che offra alla vita corrente nuove prospettive di unicità.
Rientriamo in argomento da un punto di vista più sociologico.
Anche se non ce rendiamo conto lo sviluppo tecnologico agevola il nomadismo accrescendone le libertà e le potenzialità e diminuendone i rischi.
Basta pensare alle opportunità dell’iPod, del telefono cellulare, di internet, dei tablet – tutto appare come concepito per agevolare l’uomo nomade che non si riconosce più nella casa come centro della sua esistenza.
Della nuova sedentarietà tra i vantaggi più evidenti per l’uomo occidentale c’è la possibilità di poter essere sempre in contatto con chiunque, di non spostarsi per lavorare, ma di poter lavorare spostandosi, di poter raggiungere luoghi e informazioni remote in tempo reale.
Se lo osserviamo da questo punto di vista il nomadismo ( dei dannati della terra e dei nuovi signori della mobilità) appare come una delle caratteristiche sociali più vistose e tragiche della cosiddetta società globale.
Il nomade, infatti, non accumula, contrariamente a ciò che hanno sempre cercato di fare i sedentari.
Gli oggetti nomadi che possiede sono la conoscenze e le tecniche.
Gli utensili sono trovati sul posto, nei mall o nei centri commerciali.
La pubblicità di quello di Pechino recita, otto piani, più di mille negozi.
In quest’ottica, del resto, da tempo ciò che conta per l’uomo moderno – sotto l’aspetto economico, sociale e politico –sono le informazioni che possiede, le conoscenze di cui dispone e le tecniche che padroneggia.
Per chi fino a ieri deteneva i mezzi di produzione manufatturiera, l’economia del mondo globale lo ha di fatto spinto ai margini dell’epoca, perché il profitto non dipende più dalla produzione di oggetti e beni materiali.
I nuovi padroni commerciano in idee.
Ciò che conta non sono più i macchinari per la produzione, ma le idee le informazioni che possono essere vendute, il know-how che può essere scambiato, la velocità e la mobilità che gli può essere conferita.
Queste idee si riflettono bene anche su gli obiettivi della guerra moderna.
Essa non si fa più per un confino o una frontiera, ma è un azione aggressiva e spesso priva di regole per un luogo specifico, la ricchezza di un territorio, un punto di dominio.
È una guerra senza confini, una guerra che ha i tratti della disorganicità, ricca di scontri veloci e di rappresaglie.
Come dicono gli analisti queste guerre sono di fatto interminabili e spesso a bassa intensità, confuse e pervasive e non possono mai essere vinte o perse del tutto.
In altre parole assomigliano molto al terrorismo.
Dal punto di vista dell’identità dei luoghi il nomade è colui a cui appartiene il paradigma della deterritorializzazione.
Da una parte rifiuta i vincoli localistici, dall’altra percepisce il mondo come un campo d’azione.
Questa figura ha molte facce, le due contrapposte sono quella del migrante che insegue una speranza di pace, di impiego, di vita migliore, e quella dell’uomo d’affari che si sposta continuamente per i suoi profitti e il suo piacere.
Il nomade di oggi è sempre sul punto di cambia casa, lavoro, amicizie, speranze, stringe rapporti che non sono mai stabili, segue un destino indipendente da quello degl’altri membri della sua comunità d’origine.
In una, non radica la sua esistenza in un luogo determinato e stabile, ma la colloca, con una metafora, al di là del confine, in un altrove sempre mutevole e provvisorio, innalzando la nuova precarietà a way of life.
Dunque, i nomadi per forza e i neo-nomadi sono indifferenti ai confini, alle frontiere, alle barriere che limitano la circolazione e, in particolare, ai criteri che governano un territorio per quanto riguarda le norme.
Va dunque rilevato e riflettuto sul fatto che il nomade – per necessità o per interesse – rifiuta ogni confine e dunque ogni criterio di territorio e di diritto da osservare.
È un non–cittadino e in questa veste non è né uno straniero, né un nemico in senso classico.
Egli non sta né di qua, né di là del confine, ma come dicono i giuristi attraverso di esso.
Per questo i nomadi sono sempre stati combattuti e allontanati dagli Stati.
Sono sempre stati considerati ospiti indesiderati, spesso ghettizzati o costretti a assimilarsi.
Il migrante, per sua natura, non può trovare una collocazione nelle categorie giuridiche tradizionali e non ha di fatto ne diritti e ne doveri propri a chi è radicato in una dimensione territoriale.
Analogamente a quello che avveniva nell’alto Medioevo la globalizzazione tende con non poche difficoltà a far proprio un paradigma legato alla persona.
Il soggetto nomade, infatti – lontano da ogni ipotesi di cittadinanza tradizionale – dovrebbe essere riconosciuto portatore di un diritto proprio identificabile con la sua stessa identità etnica, religiosa, linguistica e sociale.
Con una metafora il confine, in questa prospettiva, non è dissolto ma ristretto fino a coincidere con il soggetto.
L’alternativa è ancora un’utopia, è l’assunzione di un paradigma opposto.
Un paradigma che postuli non già il mantenimento dei confini, ma una loro dissoluzione o, meglio, un suo superamento.
FINE
COSTRUIRE E ABITARE.
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(NOTA BENE. Questa parte è solo introduttiva. Va letta come introduzione ai modelli d’integrazione e al tema del nomadismo).
Molti autori e molte scuole di antropologia hanno sottolineato come la cultura dell’abitare plasmi la nostra visione del mondo (Levi-Strauss, Bourdieu, Illich, De Certeau ).
Se ciò è corretto, non solo il mondo può essere percepito attraverso l’esperienza abitativa, ma questo viene addirittura strutturato e dotato di significato secondo la propria peculiare visione della “domesticità”.
In questo senso e da tempo le scienze sociali non si limitano più a studiare l’abitare e il costruire, ma attraverso la formazione di equipe interdisciplinari partecipano in maniera determinante all’elaborazione di nuove esperienze urbane che mirano, da una parte, a attivare una collaborazione responsabile tra abitanti e tecnici nella gestione urbana, dall’altra, alla progettazione/riqualificazione del territorio e della città.
Va aggiunto che spesso queste forme innovative non vengano stimolate dalle politiche sociali dei governi e in molti casi, sono addirittura osteggiate con le ragioni le più diverse.
Basti pensare all’esecuzione di sgomberi e sfratti di spazi e luoghi occupati e/o auto-gestiti da movimenti sociali, gruppi antagonisti, homeless, così come al diffuso buldozzing state of mind, come lo definì a suo tempo lo storico e filosofo delle tecnologie, l’americano Lewis Mumford (1895-1990) che caratterizza l’azione istituzionale nei confronti di quartieri spontanei o considerati clandestini.
Abitare, nel suo significato più ampio, non si limita più all’oggetto-casa, né si esaurisce nell’analisi della “vita corrente” che l’attraversa, ma è un processo che ha a che fare con l’esperienza quotidiana delle persone.
A parte ciò, appartiene alle abitudini giovanili (soprattutto nei paesi caldi) abitare un insieme di spazi esterni prossimi all’abitazione (il cortile, il giardino, la piazza, la strada) e per chi è inurbato anche una pluralità di “spazi di vita collettiva” variamente ubicati e diffusi (il supermercato, i mezzi di trasporto pubblici, i parchi metropolitani, la rete (più o meno discontinua) di luoghi, condivisa da una comunità di pratiche come sono quelle sportive, culturali, politiche).
In questo senso, oggi, nell’esperienza dell’abitare incontriamo non solo lo spazio della casa, ma anche quello più ampio, aperto e relazionale dei paesaggi urbani, dei quartieri sottoposti a continua trasformazione, degli spazi sempre più connotati da differenti culture e modelli abitativi.
Già Lewis Mumford aveva messo in evidenza come le città non sono solo semplici contenitori capaci di garantire nel tempo la coerenza e la continuità della cultura urbana, ma rappresentano il luogo della mescolanza, della mobilità, degli incontri, delle sfide.
In questo senso si può affermare che nella modernità il melting pot è il tratto costitutivo che rende le città luoghi “socializzati” in cui vivere.
Per questo – come insegna la storia sociale – lo straniero, il rifugiato, lo schiavo, persino l’invasore hanno sempre svolto un ruolo cruciale nell’evoluzione delle forme urbane.
Basti pensare all’elementare circostanza che lo straniero che viene in pace introduce cibi, idiomi, lingue, suoni, colori, forme, significati…notizie.
Una nota su Heidegger.
Costruire, abitare, pensare, è il titolo di una conferenza che Martin Heidegger, uno dei più discussi filosofi del secolo scorso, tenne nel 1951, in occasione di un ciclo di colloqui sul tema: Uomo e spazio organizzato dalla città di Darmstadt.
La seconda guerra mondiale aveva distrutto interi quartieri di molte città, gli sfollati erano dappertutto e la crisi degli alloggi era solo un aspetto della crisi dell’intera Germania. Heidegger in conclusione del suo intervento sostenne, sorprendendo chi lo stava ascoltando, che la vera crisi degli alloggi dipendeva dal fatto che non abbiamo ancora imparare a abitare. Abitare veramente e autenticamente. Avere un’abitazione, a dispetto dell’ovvio, non significa automaticamente saper abitare, e prima ancora: che cosa significa abitare?
Vediamo alcune sue considerazioni tratte dal testo di questa conferenza che si trova nel volume Saggi e discorsi (1976).
Per cominciare occorre comprendere – egli scrive – che giungiamo all’abitare solo attraverso il costruire. Non per caso il costruire ha nell’abitare il suo fine. Tuttavia non tutte le costruzioni sono delle abitazioni. Un ponte e un aeroporto, uno stadio e una centrale elettrica sono costruzioni, ma non abitazioni, così come una stazione, un’autostrada, una diga, un mercato coperto.
Eppure, anche questi tipi di costruzioni rientrano nell’ambito del nostro abitare. Un ambito che però va oltre l’uso che facciamo di queste costruzioni. Il camionista è a casa propria sull’autostrada, tuttavia questa non è il luogo dove alloggia. L’operaia è a casa propria nella filanda, ma non ha lì la sua abitazione. L”ingegnere che dirige una centrale elettrica vi si trova come a casa propria, però non vi abita.
Queste costruzioni (sempre più numerose nella modernità) albergano (nel senso di ospitano) l’uomo.
O, meglio, egli le abita e tuttavia non abita in esse se, per abitare in un posto, intendiamo avervi il proprio alloggio. D’altra parte le costruzioni che non sono abitazioni rimangono pur sempre anch’esse determinate in riferimento all’abitare, nella misura in cui sono al servizio dell’abitare dell’uomo.
L’abitare (in sostanza) è il fine che sta alla base di ogni costruire.
Va anche rilevato che l’abitare e il costruire stanno tra loro nella relazione del fine al mezzo.
Ma finché vediamo la cosa entro i limiti di questa prospettiva, scrive Heiddeger, assumiamo l’abitare e il costruire come due attività separate. Di fatto il costruire non è soltanto un mezzo e uno strumento per l’abitare, il costruire è già in se stesso un abitare. Ma chi ce lo dice?
Chi ci dà una misura con cui possiamo misurare l’essenza dell’abitare e del costruire?
La parola, che ci parla dell’essenza delle cose e fa parte del linguaggio.
(Noi abitiamo il linguaggio!)
Che cosa significa dunque costruire?
L’antica parola tedesca per bauen (costruire) è buan e significa abitare, ma vuol dire anche, rimanere, trattenersi. Il significato autentico del verbo bauen (costruire) è andato perduto.
Se tuttavia ascoltiamo ciò che il linguaggio ci dice con la parola bauen (costruire) apprendiamo tre cose: 1. Costruire è propriamente abitare. 2. L’abitare è il modo in cui gli uomini sono sulla terra.
- Il costruire come abitare si dispiega nel costruire che coltiva, che fa crescere.
Prosegue Heidegger: Non è che noi abitiamo perché abbiamo costruito. Ma costruiamo e abbiamo costruito perché abitiamo. L’abitare ci appare in tutta la sua ampiezza quando pensiamo che nell’abitare risiede l’essere dell’uomo, inteso come il soggiornare dei mortali sulla terra.
Per ricapitolare. L’essenza o il fine del costruire è il far abitare. Ma solo se abbiamo la capacità di abitare, possiamo costruire.
Dunque, costruire e pensare sono sempre, secondo il loro modo di porsi, indispensabili per l’abitare. Entrambi sono però anche insufficienti all’abitare almeno fino a che attendono separatamente alle proprie attività, senza dialogare l’un l’altro.
Alla domanda, che cos’è l’architettura? Auguste Perret, un architetto francese del Novecento, di cui ricordiamo il progetto di ricostruzione del centro di Le Havre, distrutto come buona parte della città dai bombardamenti della seconda guerra mondiale e dichiarato dall’UNESCO come un esempio eccezionale di urbanistica del dopoguerra (è inserito dal 2005 tra i patrimoni dell’umanità), rispose:
L’architettura è l’arte di organizzare lo spazio.
È una definizione che appare scontata, ma non è così.
Frank Lloyd Wright sosteneva che solo nella parusia della modernità, cioè, nel disvelarsi dell’essenza del moderno, l’architettura può aspirare a essere ciò che ha sognato per secoli: un’idea che s’invera nello spazio abitativo.
Tuttavia, se consideriamo l’idea di spazio per abitare nella storia dell’architettura costatiamo che esso non è mai stato fino alla modernità un oggetto di riflessione autonomo.
Marco Vitruvio Pollone, architetto e scrittore romano, vissuto nell’ultimo secolo prima dell’era comune, ha riflettuto con acume su quelli che sono i fondamenti dell’architettura, vale a dire, la disposizione, la simmetria, l’impianto e l’orientamento degli edifici, ma non dice nulla sulla natura dello spazio. Lo stesso Andrea Palladio, che lo ripensa e lo ridisegna in chiave rinascimentale, non ne parla se non in modo marginale. Perché? Perché a partire da Vitruvio e fino al Rinascimento lo spazio è un dato immediato della conoscenza sul quale appare superfluo soffermarsi.
Sono stati i filosofi della modernità a aprire una riflessione su ciò che rappresenta lo spazio per l’uomo, tra loro ricordiamo Arthur Schopenhauer (1778-1860), Martin Heidegger e, soprattutto, Walter Benjamin (1892-1940).
Per Schopenhauer lo spazio è l’idea stessa che contiene l’architettura come una manipolazione della materia.
Nella sua visione del mondo, l’architettura va pensata come una sorta di volontà di potenza che vince la pesantezza. Una volontà che ha nei muri, nelle architravi e nelle colonne la sua grammatica estetica.
Va aggiunto che per questo filosofo era la musica a celebrare l’essenza in sé dei fenomeni e dunque a rappresentare il mondo, a tal punto che arrivò a immaginare l’architettura come una forma di musica congelata.
Una nota. I Passages e la modernità: Walter Benjamin.
Una grande importanza teorica e biografica riveste la metropoli nell’opera di Walter Benjamin. Egli ha dedicato ben quattordici anni alla sua opera incompiuta sui Passages di Parigi (1926-1940), la città che per lui (come per Siegfried Kracauer) costituiva l’emblema della modernità.
Nelle sue intenzioni questo studio doveva costituire una storia originaria della modernità (Urgeschichte der Moderne) così come questa si rappresentava negli eventi e nella cultura della capitale francese fra l’ascesa del re borghese Luigi Filippo al tramonto della fragile repubblica con l’impero di Luigi Bonaparte.
La lirica di Charles Baudelaire, le prime architetture in ferro e vetro a scopi commerciali (fra cui i Passages stessi, gallerie urbane adibite alla vendita di articoli di lusso), la moda e la cultura urbana, l’arte della caricatura, gli sventramenti urbani ad opera del prefetto Haussmann, la storia delle sette e dei movimenti sociali, questi ed altri erano i reperti della cultura che per Benjamin rappresentavano i sogni e gli ideali del secolo borghese, presto destinati alla disillusione e al declino.
Se si tiene presente questo contesto, è evidente che il passage fondamentale che Benjamin intendeva rappresentare era proprio il veloce transito sulla scena storica della Zivilisation borghese nelle sue forme primordiali, infantili per così dire, destinate a mutare completamente con l’affermarsi del capitalismo monopolistico e del regime bonapartista.
È questa dunque un’epoca di soglia (per usare un’espressione dello stesso Benjamin, presa dal surrealismo), tra forme di vita che ancora appaiono pre-industriali e l’affermarsi della società del consumo di massa, con la conseguente pervasività della forma di merce in tutti gli ambiti di vita. È in questo contesto che Benjamin ricerca i fenomeni originari (Urphänomene) politici e culturali dell’assetto sociale che andrà incontro al drammatico declino nel Novecento, con l’instaurarsi dei regimi reazionari di massa.
Fenomeni originari, immagini dialettiche (anche monadi): questi sono i concetti fondamentali della nuova forma di storiografia culturale che Benjamin intendeva elaborare, con lo scopo di destare la società europea novecentesca prima della sua catastrofe finale, che avverrà con la seconda guerra mondiale.
Quel che caratterizzava in maniera fondamentale la storia originaria di Benjamin era il tentativo di costruire una storiografia che fosse in grado di decifrare gli eventi del passato come ancora inconclusi, incompiuti. Allo storico toccava il compito di riconoscere l’impulso utopico da loro ancora custodito e attualizzare le sue potenzialità critiche per il presente.
La Parigi della seconda metà dell’ottocento, capitale del XIX secolo, la metropoli simbolo del moderno per Benjamin, viene letta soprattutto attraverso lo sguardo della poesia allegorica di Baudelaire.
È Baudelaire l’eroe della vita moderna di Benjamin. La metropoli di Baudelaire è per Benjamin la prima, fondamentale esperienza di metropoli.
Quel che caratterizza in maniera peculiare il poeta francese è di essere il testimone dello scontento nel cuore della borghesia: egli è un asociale, un personaggio ai margini della sua classe sociale che esprime il suo disagio latente.
Benjamin coglie nell’ingegno allegorico di Baudelaire la lucidità di chi aveva saputo scorgere dietro la scintillante fantasmagoria dei tempi, l’ombra cupa del dominio permanente del capitale. Lo splendore delle fantasmagorie urbane con le loro premesse di progresso e di benessere provocava in lui la tipica risposta della malinconia allegorica.
Alla base della sensibilità di Baudelaire non c’è più – come per il barocco studiato in precedenza da Benjamin – la perdita di fiducia per l’azione divina nella storia, ma, nel contesto mondano della Parigi del Secondo Impero, l’anarchia del capitale finanziario, il carattere feticistico della merce nel contesto della produzione capitalistica, che impedisce agli uomini di avere pieno controllo sui loro destini individuali e sociali.
Parigi appariva dunque a Baudelaire, come ai poeti barocchi tedeschi, non come il dispiegarsi di un’eterna vita, ma piuttosto il processo di un inarrestabile decadimento in quanto egli intuiva, sia pure in maniera istintiva e anarchica, l’ingiustizia e la precarietà dei fondamenti dell’ordinamento sociale. È in questo contesto che la sensibilità allegorica si secolarizza, pur mantenendo – come è caratteristico della fase tarda del pensiero di Benjamin – il suo originario significato teologico.
……
Da un punto di vista più didascalico osserviamo questo.
Nel Novecento l’architettura – come spazio abitato – è stato interpretato soprattutto da due teorie, quella funzionalista e quella semiotica.
Il funzionalismo era concepito in un rapporto diretto con i bisogni degli individui e scaturiva da una realtà pensata in modo empirico e oggettivo.
Ma è proprio così stretto il rapporto tra bisogni e tecnica?
A rileggere la storia del costruire le cose non stanno proprio così.
Per fare un esempio di scuola, oggi sappiamo che la funzione di sostegno e di controspinta dei contrafforti delle cattedrali gotiche è in larga parte una grande illusione. Perché allora venivano progettati e costruiti?
Perché con l’avvento del gotico era cambiata la percezione di quella volontà di assoluto che stava trasformando il mondo medioevale.
Per venire più verso di noi.
Se proviamo a considerare l’inadeguatezza delle case giapponesi al clima dell’arcipelago costateremo che in questa cultura è la concezione dello spazio più di quanto lo sia quello del clima a determinare la forma delle abitazioni, facendole apparire ai nostri occhi inadeguate alle variazioni climatiche.
Se proprio dobbiamo trovare un debito funzionale che i giapponesi hanno con la natura del l’habitat, lo troviamo nella carta sismica del territorio.
Riconoscere lo spazio come la causa prima della forma di architettura c’indirizza, invece, nel campo della semiotica. (La semiotica, in senso proprio, è in realtà una disciplina e non una teoria). In altri termini possiamo pensare a una semiotica dei luoghi con l’aiuto di certi criteri come sono, la chiusura, l’accessibilità, la gerarchia, la scala, l’orientamento, la densità o l’evanescenza, i motivi geometrici, la stabilità, eccetera.
Naturalmente l’architettura non è un linguaggio vero e proprio, ciò non toglie che si possa parlare di un linguaggio dell’architettura nel senso che essa è strutturata come un linguaggio. .
In un contesto sociologico lo nozione di spazio in architettura si può intendere in due modi.
Nel senso che esso può rappresentare l’argomento discriminante che permette di differenziare le culture, le epoche, gli stili.
Oppure – nella prospettiva della vita corrente – lo spazio è ciò che può favorire gli effetti di costrizione, di liberazione, di incitamento, d’inibizione, di adattamento, di sottomissione alle forme del potere.
Basti pensare all’effetto di riverenza che incute l’architettura pubblica (regale, militare o religiosa) e come esso sia sempre stato, indifferentemente rispetto agli stili e alle epoche, deliberatamente perseguito.
Sono pulsioni che spingono soprattutto verso la fobia degli spazi chiusi o aperti con i loro risvolti psicologici e sociali.
Per venire all’idea di casa (nella cultura occidentale) la prima cosa da notare è che la casa antica, greco-romana in particolare, e la casa moderna si organizzano a partire da principi inversi.
Per noi moderni (e urbanizzati) la casa è un’esperienza centrifuga, fatta di stanze che si aprono con porte e finestre che danno sull’esterno.
La casa antica invece è centripeta. Le stanze guardano verso l’interno e non hanno aperture verso l’esterno, si affacciano di regola verso una corte interna a peristili – cioè, con un giro ininterrotto di colonne – che servono al passaggio coperto.
Allo stesso modo se l’architettura delle chiese è simile a quella delle sale dei palazzi – alla lettera, delle basiliche – e non a quella dei templi pagani è perché in esse domina un’altra concezione dello spazio. (Basilica significa la “casa del re”). Ce la spiega il loro destino.
I templi greci e romani non rappresentano affatto dei luoghi di riunione, di ecclesia, alla lettera di assemblea del popolo, cioè, destinati all’incontro. In essi potevano entrare solo gli dei, i sacerdoti, i religiosi.
Al contrario, fin dal primo momento l’adunata dei fedeli è stato lo scopo delle basiliche, cioè dei luoghi di culto cristiani.
Diciamo che lo spazio architettonico a seconda delle culture, dei luoghi e dei tempi storici ha privilegiato sia il pieno (come nel caso dei templi greco-romani o indiani) che il vuoto (come nel gotico o nei templi giapponesi e in genere in molte costruzioni dell’Estremo Oriente).
Scrisse Walter Gropius, quando era alla direzione del Bauhaus a Weimar: Le relazioni spaziali, le proporzioni e i colori controllano le funzioni psicologiche vitali e reali dell’uomo.
Da parte sua Maurice Merleau-Ponty nella Fenomenologia della percezione (1945) osserva che i viventi, con la loro semplice presenza, danno allo spazio un senso che il mondo di per se non ha.
Tradotto in un linguaggio più semplice significa che esistere vuol dire occupare uno spazio (abitarlo), determinandolo con l’esistenza, le forme del vissuto, le condizioni dell’esserci. Significa occuparlo con il corpo, gli oggetti, l’azione, l’emozioni, le cognizioni.
In una prospettiva fenomenologica ne consegue che lo spazio geometrico e lo spazio fisico si modellano e dipendono dal modo con cui il soggetto si muove nell’ambiente.
……….
Gli spazi dell’architettura possono essere aperti o chiusi.
Nella tradizione culturale europea l’aprire viene prima del chiudere o, se si preferisce, il chiuso presuppone l’aperto.
È in questo senso che l’architetto Benoit Goetz ha scritto che lo spazio in generale non è niente altro che una grande apertura sul nulla.
Nelle scienze sociali ci sono due teorie per concepire, da un punto di vista fenomenologico, lo spazio dell’abitare umano.
La prima attribuisce una funzione fondatrice (primaria) al muro, la seconda l’attribuisce al tetto.
Questo dualismo distingue di fatto gli edifici in due gruppi.
La casa occidentale deriva da un muro, la casa in Micronesia è frutto di un tetto. I castelli sono un muro, i templi in Giappone sono un tetto, eccetera.
Qual è la differenza? Il muro rinvia a dei limiti oggettivi, a uno stare delimitato. Il tetto, invece, rimanda a una protezione con una forte componente psicologica.
A questo proposito va osservato come nella cultura occidentale avere o non avere una casa determina l’inclusione o l’esclusione sociale, tanto che noi chiamiamo chi vive ramingo, un senzatetto. Ramingo alla lettera è colui che vaga di ramo in ramo, come gli uccelli.
Questo dualismo di muro contrapposto a tetto nasce nella preistoria, forse perché le caverne del neolitico rappresentano entrambi le cose. La parte verso l’entrata può essere considerata un tetto, la parte in fondo – quella generalmente dipinta – era un muro.
In realtà sotto il muro c’è la soglia o il limite, la linea che anticipa il volume, come è facile constatare anche dal mito di fondazione di Roma, circa sette secoli prima dell’era comune.
Il 21 aprile del 753, prima dell’era comune, è il giorno della fondazione di Roma, secondo lo storico Marco Terenzio Varrone. Per lo scrittore Onorato Servio, vissuto nel quinto secolo, Roma significherebbe la città del fiume, ma potrebbe derivare dal ficus ruminalis fiorente a fronte del fiume Albula, poi detto Tevere, oppure dall’etrusco ruma che significa mammella, un riferimento alla lupa che allattò Romolo e Remo.
La cronaca del 21 aprile ci racconta di Romolo che traccia il solco primordiale, successivamente prosegue la fondazione stabilendo il cosiddetto pomerium, la fascia perimetrale di terreno all’esterno del solco fino a realizzare un vero e proprio muro dalla base del colle Palatino, circondato dagli altri sei colli Celio, Esquilino, Aventino, Campidoglio, Quirinale e Viminale. Secondo Cornelio Tacito il muro andava dall’Ara Maxima di Ercole all’Ara Consi, un altare consacrato al dio dei granai Conso nel lato meridionale dell’area dove è sorto poi il Circo Massimo. Da qui il muro proseguiva verso la zona dove è l’Arco di Costantino, per chiudersi presso il Tempio di Vesta nel Foro Romano. I ritrovamenti archeologici hanno confermato l’anno in relazione agli insediamenti alle falde del Palatino, dove appunto è stato tracciato il solco della città quadrata. In particolare, al di sotto di un muro, è venuto alla luce un fossato con tre vasi e due frammenti di fibule di bronzo, databili alla seconda metà dell’ottavo secolo prima delle’era comune, potrebbero essere stati collocati lì durante i riti connessi proprio con la costruzione del muro più antico. Inoltre, accanto al santuario di Vesta nel Foro Romano, a noi giunto nella ricostruzione dei primi del terzo secolo è stato scoperto, un ambiente di trecentoquarantacinque metri quadrati e un cortile di duecento venti drenato da una canaletta. Un locale così grande in quel punto non può non essere il palazzo reale. È durato almeno fino al 64 dopo l’era comune, cioè, circa otto secoli.
In ogni modo non è impossibile immaginare dei tetti senza mura – li troviamo in Asia, nel Pacifico, le stessa tende berbere sono solo dei tetti – di contro un muro senza tetto non rappresenta un’abitazione.
Dal punto di vista delle metafore della sociabilità possiamo dire che chi costruì un muro all’origine dell’architettura era incline a pensare che il più grande nemico dell’uomo fosse l’uomo stesso.
Prima di proseguire apriamo una piccola parentesi.
Ci sono due contenenti che inverano i due limiti assoluti del simbolico. Il ventre materno e il sepolcro.
Diciamo che c’è un tragitto etimologico – messo in luce in particolare da Gustav Jung – che va dal fondo delle caverne alla coppa. Ce lo ricorda l’etimologia.
Kusthos in greco significa la cavità o il grembo.
Keuthos indica il seno della terra.
Kust in armeno e Kostha in sanscrito significano il basso ventre.
Sempre in sanscrito Kutos è la volta o la cantina, Kutis il cofanetto e infine Kuathos il bicchiere o il calice.
La cavità, per definizione, come afferma la psico-analisi è, nell’immaginario simbolico, una rappresentazione dell’organo femminile.
È facile costatare che ogni cavità è percepita – almeno a livello inconscio – come sessualmente determinata, in questo senso è legittima la narrazione di un percorso metaforico che porta dal grembo alla coppa.
Lungo questo percorso uno dei primi e importanti punti è costituito dall’insieme caverna–casa nella duplice accezione di ambiente e contenente e, insieme, di riparo e granaio.
Ecco perché la produzione simbolica tende a rendere ambivalente la paura della caverna e del buio, capovolgendone il senso, metamorfolizzandola nel suo contrario, rendendola un antro delle meraviglie, un rifugio, un simbolo terreno del paradiso.
E è precisamente in questa chiave che la psicologia legge il celebre racconto persiano di Alì Babà e dei quaranta ladroni.
Questa ambivalenza – per l’analisi psicoanalitica di derivazione freudiana – è una conseguenza del trauma della nascita e dell’idea del ventre materno come rifugio.
A parte questo, la grotta – nel folclore – appare spesso come una matrice universale, un simbolo dell’intimità, come lo sono l’uovo, la crisalide, il bozzolo o la tomba. Non è dunque per caso che in molte religioni compaiono due importanti elementi architettonici simbolici, la volta e la cripta.
Per i cristiani, in particolare, il tempio dell’ecclesia è allo stesso tempo rifugio, catacomba, sepolcro, reliquiario, tabernacolo.
Luogo dove riposano le sante specie (cioè, l’olio santo, l’acqua e il vino consacrati) e al tempo stesso grembo dove avviene il miracolo della nascita di Dio.
Dunque la caverna è la cavità geografica perfetta o, con una formula più poetica, un mondo chiuso
dove lavora la materia alla luce del crepuscolo.
Aggiungiamo che la ricerca etnografica da tempo ha confermato queste osservazioni.
Per esempio, la capanna cinese è considerata il luogo dove la sposa regna in comunicazione diretta con il suolo familiare, essa è una matrice (matrix in latino è l’utero). Nell’immaginario orientale il focolare è un luogo femminile, mentre il fuoco che in esso si accende è l’elemento maschile.
In chiave semasiologica si può notare che nel mondo esiste una forte tendenza alla femminilizzazione delle dimore, non è per caso che abbiamo le camere, le stanze, le capanne, le cappelle. Nella lingua francese, in particolare, il carattere femminile delle cappelle è molto evidente, tanto che sono di regola chiamate Notre–Dame e sono quasi sempre consacrate alla Vergine.
La semasiologia è una branca della lessicologia (cioè, della disciplina che studia lo strutturarsi del lessico) che analizza i significati in senso generale, si veda il concetto di signifié di Ferdinand de Saussure, e ne astrae i significati che lo indicano in un determinato sistema linguistico. Viene spesso studiata assieme all’onomasiologia, che percorre lo stesso percorso in direzione opposta.
A questo punto della nostra analisi appare evidente una forte correlazione tra la casa che gli individui immaginano e i tratti salienti della loro personalità.
C’è poi da dire che dai psicanalisti ai teologi delle tre religioni del libro, dai Dogon agli aborigeni australiani, tutti riconoscono nella casa un doppione microcosmico del corpo umano.
Così come non è un caso che i bambini vedono nelle finestre, gli occhi della casa. Nella porta, la bocca o che molti adulti definiscano le cantine come le sue viscere o le camere da letto come un nido.
In breve la casa, nella sua interezza, è più di un luogo dove abitiamo, è un vero e proprio organismo che vive e si trasforma nel tempo. Essa raddoppia e sottolinea la personalità di chi vi dimora. Non è solo un luogo fisico costruito e abitato, disegna anche una sua rappresentazione simbolica o, meglio, una matrice di soggettività di cui non è difficile coglierne la narrazione.
L’azione simbolica “agita” dalla casa sulla vita psichica degli individui si riflette immediatamente anche su quella sociale, andando a rappresentare un paradigma che riunisce e in parte sovrappone la sfera intrapsichica, quella interpersonale e quella socio-politica.
Questo spiega perché quando si perde la “casa” si perdono o si frammentano con essa anche le sue funzioni organizzatrici e compensatrici, portando alla frantumazione e all’estraneazione della relazione individuale-personale, familiare-coniugale, socio-economico e culturale-politico.
Molti mediatori culturali, a questo proposito, ritengono che è questa destrutturazione che nei rifugiati e nei profughi porta al cosiddetto disorientamento nostalgico.
Un’altra funzione importante della casa è quella di fornire una base coerente alla storia delle famiglie.
Una storia che non ha un valore obiettivo, ma che ordina e rende emotivamente condivisi e coerenti tutti i momenti che gli individui vi hanno vissuto, da quelli peggiori a quelli migliori.
In questo modo essi sono resi intelligibili e comprensibili, danno, agli attori di quegli stessi eventi, un senso di continuità e di prevedibilità.
Consentono loro una narrazione consolatoria.
Quando gli individui o i nuclei familiari perdono la propria casa e acquistano la qualifica di rifugiati o di homeless s’infrange proprio questa continuità e è precisamente questa dimensione che l’assistenza socio-terapeutica dovrebbe aiutare a ricostruire. .
Per restare in argomento, cambiando la prospettiva con la quale si affronta il tema dell’abitare, si può notare come il grande romanzo sociale europeo dell’800, in particolare francese – si veda per tutti Honoré de Balzac – comincia sempre con una descrizione minuziosa della casa.
Una tale descrizione, per esempio, è l’incipit del romanzo Eugénie Grandet (1833):
In alcune province si trovano case la cui vista ispira una malinconia simile a quella dei chiostri più tetri, delle lande più desolate, delle rovine più tristi: in queste case vi sono forse qualche volta e il silenzio del chiostro, e l’aridità delle lande, e le rovine. Vita e movimento vi sono così tranquilli che un forestiero le riterrebbe inabitate, se d’un tratto non incontrasse lo sguardo smorto e freddo di una persona immobile, la cui figura, mezzo monastica, sporge da parapetto della finestra al rumore di un passo insolito. Tale melanconia esiste anche in una casa di Samur, in cima alla via montagnosa che mena al castello nella parte alta della città.
Ancora più articolata e suggestiva è la descrizione della pensione di Madame Vauquer nel romanzo Papà Goriot del 1834:
Naturalmente destinato all’esercizio di una pensione borghese, il pianterreno si compone di una prima stanza che riceve luce dalle due finestre sulla strada e a cui si accede per mezzo di una porta a vetri. Questo salotto comunica con la sala da pranzo, la quale è separata dalla cucina dal vano di una scala, che ha gradini di legno e di piastrelle colorate e lucidate. Non si può immaginare visione più triste di quel salotto ammobiliato con poltrone e sedie ricoperte di stoffa di crine a righe alterne, lucide e opache. Nel mezzo s’erge un tavolo rotondo dal ripiano di marmo, ornato di uno di quei vassoi di porcellana bianca decorato di filetti d’oro mezzo sbiaditi che oggi si trovano dappertutto. Quella stanza, malamente pavimentata, ha uno zoccolo di legno ad altezza di gomito e il resto delle pareti è rivestito di carta verniciata…
Il camino di pietra, che col suo focolare sempre pulito testimonia come vi si accenda il fuoco solo nelle grandi occasioni, è ornato da due vasi colmi di fiori artificiali, stinti sotto la loro campana di vetro, che fanno compagnia a una pendola di marmo azzurrastro, di pessimo gusto. La prima stanza emana un odore che non ha nome nel linguaggio, e che bisognerebbe chiamare odor di pensione: tanfo di rinchiuso, di muffa, di rancido; fa rabbrividire, è umido all’olfatto, penetra attraverso gli indumenti; ha il sentore di un locale in cui si sia mangiato; puzza di gabinetto, di cucina, d’ospizio di vecchi…
La sala, interamente foderata di pannelli di legno, un tempo era dipinta di un colore che oggi è divenuto indefinibile e che forma un fondo sul quale il sudiciume ha deposto vari strati, tracciandovi bizzarre figure. Alle pareti si appoggiano alcune credenze polverose, sulle quali si elevano caraffe panciute e opache, allacciatovaglioli di zinco e pile di piatti di grossa porcellana a bordi turchini, fabbricati a Tournai. In un angolo uno scaffaletto a caselle numerate raccoglie i tovaglioli, sudici o macchiati di vino, di ciascun pensionante. In quel locale si possono trovare quei mobili indistruttibili, messi al bando dovunque, ma sistemati laggiù come i rottami della civiltà degli Incurabili…
Per spiegare fino a che punto questo mobilio sia vecchio, screpolato, marcito, vacillante, corroso, monco, lurido, invalido e moribondo, bisognerebbe farne una descrizione che ritarderebbe troppo l’interesse della presente storia e che i lettori frettolosi non ci perdonerebbero.
Il pavimento rosso è pieno di avvallamenti prodotti dallo strofinio e dalle verniciature. Insomma, laggiù regna la miseria senza poesia, una miseria tirchia, concentrata, spelacchiata. Se ancora non è lorda di fango, ha tuttavia qualche macchia; e se non ha buchi né cenci, le manca poco per crollare imputridita. Questa stanza è in tutto il suo splendore nel momento in cui, verso le sette del mattino, il gatto della signora Vauquer, precedendo la padrona, balza sulle credenze, annusa il latte contenuto in varie scodelle ricoperte da un piatto e fa sentire il suo ron ron mattutino.
Subito dopo appare la vedova…
Sul piano stilistico, in generale, possiamo dire che la descrizione degli ambienti è una caratteristica del realismo ottocentesco o, se si preferisce, un’ossessione della mentalità borghese.
Del resto, sono gli odori della casa che compongono la sensazione dell’intimità: aromi di cucina, profumi dell’alcova, tanfi dei corridoi, sentore di benzoino o di pasciulì degli armadi materni…
Nonostante la riscoperta degli odori, connessa nella modernità alla enorme diffusione di oggetti profumati e di pratiche aromatiche, non si è ancora diffusa nel mondo occidentale la consapevolezza dell’importanza dell’olfatto per la nostra specie. D’altra parte la vita moderna, contraddistinta dalla cura maniacale del corpo e dal moltiplicarsi di sostanze chimiche presenti nei cibi, nelle bevande e nel nostro ambiente, non fa che indebolire la nostra sensibilità olfattiva allontanandoci sempre più dai profumi naturali.
Condizionati da una cultura visivo-acustica, che da duemilacinquecento anni ha determinato il nostro modo di sentire e di pensare, abbiamo relegato l’olfatto tra i sensi minori e ne abbiamo dimenticato l’attitudine cognitiva. A differenza della vista e dell’udito, i sensi nobili, l’odorato, denigrato dalla filosofia e trascurato dalla ricerca scientifica, ha finito per occupare l’ultimo posto nella gerarchia de sensorio. La scarsa permeabilità linguistica, la variabilità, la fugacità, l’intimità delle sensazioni che fornisce, l’eccessiva compromissione con le emozioni ci hanno indotti a ignorare il modo in cui gli odori influenzano i nostri comportamenti sociali, sessuali, emozionali, alimentari e a sottovalutarne il ruolo fondamentale nella conoscenza del mondo circostante.
Un naso impegnato a odorare porta il marchio dell’animalità, è associato al piacere, al desiderio e all’istinto e per questo guardato con sospetto e con diffidenza. Platone lo accostava alla lussuria e ai piaceri frivoli e Kant, il più anosmico dei filosofi, lo definiva il senso più ingrato e apparentemente meno necessario. Dal canto loro, Charles Darwin e Sigmund Freud hanno suggerito che l’atrofia del naso umano sarebbe il prezzo da pagare per l’origine della specie e della sua civiltà, e soprattutto dell’evoluzione dei costumi e della repressione culturale. È evidente, infatti, come nella cultura occidentale non ci sia spazio per l’educazione olfattiva. Ci insegnano a leggere e a scrivere, a riconoscere forme, colori e suoni, ma non ci educano a distinguere gli odori che compongono la nostra vita corrente. Così l’odorato ha finito col rappresentare l’esatto contrario dell’intelletto e la sua marginalizzazione è divenuta il contrassegno dell’umanità civilizzata. Ma paradossalmente, a sottolineare l’ambiguità di questo senso, nell’immaginario sociale e in molte espressioni colloquiali che riflettono il senso comune l’olfatto ha un nesso privilegiato con la conoscenza, è sinonimo di buon senso, di acume intellettuale (sagace deriva dal latino sagire, fiutare) di quel sesto senso o senso della conoscenza intuitiva celebrato dal più olfattivo dei filosofi, Friedrich Nietzsche, che non esitava ad affermare .
Uscendo dall’antropsicologia e ritornando a Bachelard, egli scrive che lo spazio è sempre percepito come una dimensione della sicurezza, al contrario del tempo che spalanca le porte dell’angoscia.
Anche per questo l’archetipo del costruito comincia sempre con una copertura, cioè, con un tetto.
I muri vengono in seguito.
La tenda – che sia la yourte mongola, la koté lappone, il tipi dei nativi americani – intesa come un riparo è, in questo contesto, una forma ancora più originaria della capanna.
Nel linguaggio comune avere un tetto significa avere una casa. Non si dice la stessa cosa dei muri.
Essere sotto un tetto significa essere protetti, trovarsi tra quattro mura significa essere rinchiusi.
Un tetto senza mura può essere logico (come nel caso di una tenda), un muro senza tetto non è che una barriera, un recinto, una concentrazione.
Possiamo dire che costruire tetti è un tratto specificatamente umano.
Gli animali, di contro, scavano delle gallerie, costruiscono dei nidi o delle dighe, ma non fanno tetti.
Nella preistoria stare in una caverna non significava propriamente abitare, era piuttosto un modo per essere radicati in un luogo, un modo per mettere le radici.
Agl’occhi dell’uomo del neolitico erano il luogo e la terra che configuravano l’abitare. In questo senso la caverna è il “posto” dell’innocenza perduta, una culla e una tomba, allo stesso tempo.
Ancora, le culture stanziali privilegiano gli spazio interni, di contro, l’habitat dei nomadi si confonde con lo spazio e il paesaggio.
Un aneddoto racconta che nell’immediato dopoguerra alcune famiglie di zingari ungheresi furono costrette dalla politica riformista filosovietica a fermarsi e a vivere in un villaggio a loro destinato.
Nel giro di qualche giorno scardinarono tutte le porte d’ingresso.
Con il termine nomadismo si intende oggi qualunque forma di esistenza sociale che implichi spostamenti periodici necessari alla sopravvivenza e alla riproduzione del gruppo umano.
Sia che si tratti di gruppi che vivono della raccolta di vegetali selvatici e/o della cattura di selvaggina. Che praticano l’allevamento mediante lo spostamento periodico delle greggi di animali addomesticati. O che conducono una vita mobile solo parzialmente finalizzata alla ricostruzione delle basi materiali dell’esistenza, ci troviamo in tutti i casi in presenza del fenomeno del nomadismo
In questo senso, tanto le forme quanto i ruoli strutturali assunti dal nomadismo all’interno
della storia umana sono molteplici e riguardano gruppi spesso molto diversi tra di loro dal punto di vista dell’organizzazione economica, politica e sociale.
Oggi, in particolare, il termine nomadismo è riferibile tanto allo stile di vita degli ultimi cacciatori-raccoglitori delle foreste pluviali e delle aree desertiche del pianeta, quanto a quello delle comunità di pastori nordafricani e asiatici, ma anche a quei gruppi generalmente chiamati peripatetici, gruppi senza fissa dimora come gli zingari asiatici ed europei, i girovaghi e i vagabondi presenti un po’ ovunque nel mondo.
L’ethos – cioè, lo stile di vita – dei nomadi consiste sostanzialmente nell’essere sempre sul punto di partire. In questo senso il territorio per loro è inteso come un insieme di traiettorie e di punti costituiti dalle fonti dell’acqua, del cibo, di riparo, di riunione.
Più importante ancora è il fatto che i nomadi occupano un territorio che spesso riunisce più luoghi senza che essi ne riconoscano la proprietà, né l’assetto amministrativo o politico.
Si può dire che i nomadi obbediscano al nomos – nel significato di usanza – e non alla polis, la città.
In questo modo, fuori dalla città-stato i nomadi sono fuori anche dalla politica e spesso, di conseguenza, dalla vita civile.
L’architettura nomadica, poi, è trasportabile, provvisoria, effimera, in qualche modo sembra esprimere la precarietà della vita sulla terra. Vale a dire, è un architettura che non costruisce per l’eternità o solo per valorizzare il capitale investito, ma si adegua e risponde alla logica del ricovero.
In questo senso, la cultura giapponese che deve convivere con i terremoti conosce bene la precarietà a tal punto da averla mutata in una filosofia. Lo vediamo a proposito del santuario d’Isé, che è periodicamente distrutto e ricostruito.
Il santuario di Ise è un santuario scintoista consacrato alla dea Amaterasu Omikami, situato nella città di Ise nella Prefettura di Mie in Giappone.
Ufficialmente conosciuto semplicemente come Jingū (il Santuario), è in effetti un enorme complesso costituito da oltre un centinaio di santuari autonomi, suddivisi in due zone principali. Gekū o “Santuario esterno” è collocato nella città di Yamada, mentre Naikū o “Santuario interno” è situato nella città di Uji è dedicato alla dea Amaterasu Omikami.
I due complessi sono situati a sei chilometri di distanza e sono congiunti da una via di pellegrinaggio che passa attraverso il vecchio distretto di Furuichi.
In accordo con la cronologia, i santuari furono originariamente costruiti nei primi anni dell’era comune, ma molti storici ne collocano la costruzione secoli dopo, nel 690, anno in cui nella maggior parte delle ipotesi il Grande Santuario raggiunse la sua forma attuale.
I santuari del complesso vengono smantellati e ricostruiti, sempre identici, una volta ogni vent’anni, con spese enormi.
Gli edifici attuali, costruiti nel 2013, sono la sessantaduesima ricostruzione, la prossima è in programma per il 2033.
Il santuario di Ise ha anche un tesoro nazionale tra di essi c’è il Sacro Specchio raffigurante Amaterasu, che rende il santuario il più importante sito sacro dello Shintoismo.
L’accesso all’area dove è custodito lo Specchio è strettamente limitato, i laici e tanto meno i turisti, non possono vedere altro se non i tetti degli edifici centrali, nascosti dietro tre alte recinzioni di legno.
L’uomo abita la natura, ma l’abita per emanciparsi da essa, distaccarsene.
Il cristianesimo, per esempio, desacralizza i siti pagani e questa è anche la ragione perché le chiese si benedicono prima di essere costruite e non dopo.
Con l’età romantica un luogo può diventare un sito quando le sue costruzioni sono distrutte, non possono essere abitate, ma mantengono il loro valore artistico.
Pensate ai resti della cultura greca e romana.
In altri termini, i siti sono spesso destinati a divenire indistruttibili luoghi di memoria e di culto.
Siti e senso del tempo: le rovine non sono altro che la punta di iceberg di ciò che ci viene restituito del passato. I nostri sforzi di tentare di comprendere le dinamiche di vita delle società del passato non sono che tentativi di fronte alla complessità delle infinite situazioni che potevano sussistere. Come si fa da poche pietre sconnesse che identificano un crollo in una fase tardo antica di una città romana a capire come essa effettivamente andò in rovina? Perché lì e non altrove? Perché in quel momento e non in un altro? E qual è esattamente il momento? Cosa e perché ha provocato l’abbandono di una città che fino ad un secolo prima era fiorente? Ma era davvero un secolo? Può un semplice frammento di ceramica raccontarmi i commerci, la vitalità economica e sociale di una città romana? Può l’assenza di quel frammento raccontarmi di quando e come quella vitalità è scomparsa? È stato un processo rapido o un lento declino? E in questo modo che lo studioso si pone dinanzi al senso del tempo, cercando di districarsi e di districarlo, di dipanarne la matassa.
Di capirci qualcosa.
In Cina un tempo non si costruiva senza il feng–shui, cioè senza aver prima fatto una previsione su come il luogo avrebbe accettato la costruzione e di come si sarebbe armonizzato con esso.
In pratica il feng–shui (alla lettera significa vento e acqua) è una dottrina per la protezione dei luoghi dalle influenze nefaste.
Feng shui significa “vento e acqua”, in onore ai due elementi che plasmano la terra e che col loro scorrere determinano le caratteristiche più o meno salubri di un particolare luogo. Secondo il taoismo esistono due principi generali che guidano lo sviluppo degli eventi naturali, essi sono il “Ch’i” e l’equilibrio dinamico di yin e yang. Lo yin è il principio umido oscuro e femminile, mentre lo yang è il principio caldo luminoso e maschile. Nel feng shui lo yin è rappresentato dall’acqua e lo yang è il vento inteso forse più come respiro, in fondo acqua e aria sono indispensabili per la vita.
Secondo i principi del feng shui, una casa per essere ben costruita dovrebbe essere quadrata o rettangolare senza angoli o parti mancanti e con forma regolare, dovrebbe avere un drago verde ad Est (delle piante alte che proteggano questo lato), una tigre bianca ad Ovest (possono esservi anche da questa parte delle piante, ma più basse), una tartaruga a Nord (una collina o un grosso masso) e la fenice rossa a Sud (può essere anche sotto forma simbolica, ad esempio un sasso con un filo rosso avvolto intorno). La parte sud dell’edificio è la più esposta alla luce ed al calore del sole (almeno nel nostro emisfero) quindi è considerata corrispondente al fuoco e allo yang. La parte nord della casa è considerata corrispondente all’acqua e alla carriera. Proprio perché l’acqua corrisponde all’elemento più Yin dell’oroscopo, è la direzione più indicata per il riposo. Uno dei suggerimenti del feng shui è dormire con la testa rivolta verso nord e i piedi verso sud.
Ciò detto, per costruire gli uomini hanno da sempre usato i materiali che esistevano sul posto, legno terra, pietre, al limite il ghiaccio.
Questo ci consente di dire che il modello archetipo della costruzione è la natura. Che l’estetica nasce come coscienza di questo processo. L’uomo che costruisce non è colui che crea, ma colui che rivela, che da un volto alla cosa.
Nell’architettura occidentale le pietre dei palazzi sono una firma del luogo.
Per esempio, in Francia, ci sono zone dove la pietra cambia di colore ogni cinquanta o sessanta chilometri e così le chiese, gli edifici pubblici e le case.
Ma c’è anche il caso contrario. Di pietre trasportate da enormi distanze.
Per le colossali costruzioni di Cuzco o di Machu Picchu gli Incas trasportarono dei blocchi di pietra per distanze valutate migliaia di chilometri.
In ogni caso di tutti i materiali da costruzione la terra è il materiale di un terzo delle costruzioni al mondo.
I vegetali – legno, foglie di palma, paglia – sono un altro dei materiali locali più usato, poi c’è la carta.
Nell’isola di Kiribati – in Micronesia – le grandi case comuni senza muri ( maneaba) sono formate da enormi tetti vegetali montati su pali che possono raggiungere i quindici metri.
Nella nostra cultura, di contro, sono comuni i muri in pietra secca, oggi li consideriamo romantici se non altro perché sappiamo che i muri in cemento armato li percepiamo come qualcosa che separa e isola.
A questo proposito i nuraghi sardi sono delle straordinarie costruzioni in pietra secca.
I nativi americani, di contro abitano nei tipi, tende coniche di pelle di bisonte.
Al di là delle apparenze la magia e la forza vitale dei luoghi è ciò che ne determina – per i poeti – la bellezza.
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Il tema dell’abitare e del costruire è un’occasione per aprire una piccola parentesi sull’homo faber
Questa espressione ci ricorda che la differenza più evidente tra gl’esseri umani e gli animali è il fatto che l’uomo è il solo che costruisce e fa uso di utensili complessi e, di più, usa utensili per costruire altri utensili.
Uno dei più grandi antropologi del ventesimo secolo, il francese André Leroi-Gourhan (1911-1986) è l’autore di una tesi oggi molto popolare e condivisa per la quale è la mano e la manualità che hanno preceduto lo sviluppo celebrale.
Una tecnica manuale semplice non richiede un cervello particolarmente sviluppato quanto una buona organizzazione delle aree celebrali. Per esempio gli scimpanzé si avvalgono spesso di utensili, ma essi sono trovati e non costruiti e di essi se ne fa un uso occasionale.
Il paragone con lo scimpanzé diventa però interessante se prendiamo in considerazione il fatto che questi usa le mani come strumenti per impastare, intrecciare, schiacciare, mentre altre funzioni sono affidate ai denti.
Siamo quindi in presenza di due poli, uno manuale e uno facciale, con funzioni separate.
Osservando invece l’evoluzione dell’uomo si rileva che l’acquisizione della posizione eretta coincide con una riduzione dei denti davanti.
Ciò induce a pensare che grazie alla maggiore libertà acquistata dalle mani, per via della posizione eretta, certe funzioni siano state affidate agli utensili e i denti abbiano perso la loro funzione originale.
In questa prospettiva gli utensili non appaiono come un elemento esterno, degli intrusi, ma il prodotto della mano stessa nel corso della sua evoluzione.
Dentro quest’ottica possiamo dire che non siamo diventati costruttori di utensili perché dotati di particolari capacità, al contrario, abbiamo accresciuto le nostre potenzialità intanto che apprendevamo l’uso degli utensili e miglioravamo la loro costruzione.
André Leroi-Gourhan amava dire: È ancora estremamente salutare, che la scienza dell’essere umano sia la più interdisciplinare di tutte le discipline. A partire dal momento in cui l’essere umano non può parlare per se stesso, perché è assente o perché è morto; o per la mancanza di documenti, vi sono ancora due testimonianze: quella dell’arte e quella della tecnica.
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A livello inconscio, per la maggior parte di noi l’architettura è associata all’idea di sedentarietà.
Di fatto, però, la sedentarietà sembra essere un epifenomeno in rapporto all’arco temporale dell’esistenza dell’umanità.
È un’idea condivisa che quando i primi uomini smisero di essere cacciatori-raccoglitori cominciarono anche a costruire le prime abitazioni, dunque a padroneggiare l’arte del costruire.
Il passaggio dal nomadismo alla sedentarietà induce, paradossalmente, a una visione funzionale e semplificata dell’architettura che, etimologicamente, rimanda al principio di costruzione.
Tra l’altro non si deve dimenticare che anche nelle società più sedentarie esiste una tradizione di architettura nomade per eccellenza, quella navale.
I due concetti, se osservati da questa prospettiva, non appaiono quindi così antitetici.
Per venire a noi i primi anni del ventunesimo secolo hanno visto lo sviluppo del nomadismo in architettura sotto vari aspetti.
La globalizzazione, che da anni coinvolge il mondo occidentale, ha generato la moltiplicazione di luoghi identici – il più delle volte fondata sui mall e le sue merci o su i suoi gangli di comunicazione, come gli aeroporti – dove l’uomo nomade ritrova un universo familiare.
(Un universo spesso assimilato ai “non-luoghi” e ai processi di banalizzazione dell’identità sia dal punto di vista cognitivo, sia della sensorialità come dell’emotività.)
In ogni modo questo processo di moltiplicazione dei luoghi si è portato dietro, inevitabilmente, importanti movimenti tra le popolazioni relegate ai confini del mondo occidentale.
Gli uomini sradicati e senza risorse, soprattutto oggi, ricostruiscono le loro vite in habitat abitativi precari e al limite dell’abitabilità, che possono essere spostati a seconda degli eventi politici ed economici.
A lato di tutto ciò i problemi ambientali e la domanda di spazio attraverso le ricerche architettoniche alternative fanno riscoprire le qualità delle costruzioni prive di fondamenta, spostabili velocemente.
Il nomadismo, come si può costatare, si presenta così in molte versioni e presenta una varietà di approcci architettonici spesso criticabili.
Come sappiamo i primi anni del nuovo secolo hanno conosciuto uno sviluppo edilizio senza precedenti.
L’affacciarsi sul mercato di paesi emergenti come la Cina, che oggi consuma circa il quaranta per cento del consumo mondiale dei materiali da costruzione e l’apertura verso il liberalismo di molti altri paesi appena usciti dal sottosviluppo sono alcune tra le ragioni che spiegano il boom costruttivo.
All’interno di questo ampio sviluppo le creazioni architettoniche differenti, per molti versi, annunciano il futuro. Dai tempi delle tende dei nomadi la tipologia delle costruzioni smontabili e trasportabili si è notevolmente ampliata.
La gamma dei materiali utilizzati è cresciuta enormemente grazie alle ricerche scientifiche più avanzate, ma anche a un uso dei materiali diverso da quello abituale.
C’è poi d’aggiungere che da tempo le costruzioni nomadi non hanno sempre dimensioni ridotte, come nel caso delle costruzioni destinate allo spettacolo, che presentano spesso i caratteri delle costruzioni nomadi.
Durante il Novecento, le ricerche sulle strutture nomadi si sono spesso concentrate sulle abitazioni d’emergenza.
Catastrofi naturali e guerre sono state le cause principali dello sviluppo di numerosi prototipi.
Uno dei primi fu la Dymaxion deployment unit (1940) dell’architetto e designer statunitense Richard B. Fuller (1895-1983) monopolizzata dalle necessità militari della Seconda guerra mondiale.
L’architetto finlandese Eero Saarinen (1910-1961) presentò nel 1942-43 negli Stati Uniti due progetti di case smontabili: la Unfolding house e alcuni moduli residenziali denominati PAC (Pre-Assembled Components).
l francese Jean Prouvé (1901-1984) propose nel 1944 per i rifugiati della Lorena il cosiddetto Padiglione 6x6, montabile in una giornata grazie a un preciso e conseguente processo di assemblaggio.
In qualche modo l’evoluzione dei ripari temporanei, più o meno elaborati, è proseguita fino ai nostri giorni. Il padiglione di Prouvé ha dimostrato di essere ancora moderno in occasione della sua esposizione alla Biennale di Venezia del 2000.
Diciamo che sono soprattutto le questioni teoriche e esistenziali poste dagli innovatori di allora, a essere ancora oggi al centro delle riflessioni,come la piccola dimensione, i limiti di spazio, l’appartenenza a molteplici luoghi e non più a uno solo, il carattere ripetitivo del processo costruttivo, l’apparente precarietà.
Tra le principali figure che si sono dedicate all’architettura d’emergenza vi è il giapponese Shigeru Ban.
Nel 1995, per aiutare le persone rimaste senza casa a causa del terremoto di Kobe, questo architetto ha ideato la Paper loghouse, un’abitazione minima la cui struttura portante è costituita da tubi in carta che poggiano su un quadrato di cassette di birra rinforzate da sacchi di sabbia, mentre il soffitto è coperto da un tetto di tela.
Si è trattato di una risposta al bisogno di abitare sia pure con un comfort ridotto.
Le Paper loghouse sono state installate prima nel parco Minamikomae a Kobe, poi in Ruanda e in Turchia, qui a causa di un terremoto.
La Paper tube structure ha permesso a Ban di edificare anche un centro comunitario, la Paper church (1995), e il padiglione giapponese per l’esposizione universale di Hannover del 2000.
Se Ban è stato sedotto dalla carta, materiale tradizionale in Giappone per le pareti divisorie, l’architetto iraniano Nader Khalili ha sperimentato come materiale da costruzione la terra.
Interessato ai problemi delle persone sfollate a causa delle guerre e delle catastrofi naturali, ha condotto delle ricerche sui metodi delle costruzioni tradizionali in terra.
Le strutture da lui progettate (con l’assistenza di Phil J. Vittore, un esperto in archi e cupole costruiti con materiali non convenzionali) permettono di ottenere il massimo dello spazio utilizzando il minimo del materiale sovente reperito sul posto.
Khalili ha mischiato terra e sacchi, con una tecnica che ha chiamato superadobe, per realizzare nel 1995 il suo Emergency sand-bag shelter.
Il processo costruttivo è semplice e rapido e necessita solo di poche persone.
Le caratteristiche del materiale e del sistema di costruzione rendono queste strutture resistenti ai terremoti, alle inondazioni e ad altre calamità; la terra offre inoltre un isolamento termico e acustico naturale.
Il sistema può servire a costruire anche edifici non residenziali, come scuole e ospedali, e persino strade o ponti: tali costruzioni presentano infatti il vantaggio, nel lungo periodo, di essere biodegradabili.
Questi edifici hanno rappresentato un notevole aiuto dopo il terremoto che ha colpito il Pakistan nell’ottobre 2005.
A differenza delle opere progettate da Ban, gli shelters di Khalili sono più effimeri che nomadi. Essi condividono con il tema del nomadismo l’assenza di radicamento al suolo e la possibilità di reimpiegare alcuni materiali in altri luoghi.
Numerosi altri esempi di edifici nomadi d’emergenza sono stati esposti nella mostra Crossing. Dialogues for emergency architecture, curata da Zhou Shou e Pan Qing, che si è tenuta al NAMOC, National Art Museum of China di Pechino nel maggio 2009.
A questa esposizione parteciparono, tra gl’altri, anche il Rintala Eggrtosson Architects e Sou Fujimoto, considerato una dei più creativi architetti giapponesi dell’ultima generazione.
Sami Rintala è un architetto finlandese, ha studiato architettura presso la Helsinki University of Technology. Il suo lavoro si basa sui principi della narrazione e dell’arte concettuale, l’obiettivo della sua poetica tende a un’interpretazione stratificata delle risorse fisiche, mentali e poetiche del luogo ai fini progettuali.
Aggiungiamo che in un mondo dove gli spazi vuoti si riducono ogni giorno, di fronte a metropoli con edifici che faticano a riqualificarsi, la nuova architettura nomade non si esprime più solo all’aria aperta o in aree vergini, ma negli edifici in abbandono.
Esplora i meandri della nostra civilizzazione urbana, in simbiosi con la tendenza alla scomparsa progressiva delle popolazioni rurali.
I traffici marittimi, sempre per restare nel tema del nomadismo, hanno ispirato un architetto come l’inglese Simon Allford dello studio AHMM di Londra. L’obiettivo della sua ricerca è quello di conferire una seconda vita ai container da trasporto, simbolo della globalizzazione e della circolazione delle merci. Secondo Allford riciclare i container trasformandoli in alloggi modulabili, corrispondenti a un’unità minima di abitazione, offre una soluzione al problema abitativo e permette di sfruttare territori urbani come le aree dei parcheggi. Nel 2003 Allford ha concretizzato le sue idee con il progetto MoMo (Mobile Modular apartments). Il container residenziale conosce oggi una grande popolarità. Paradossalmente, però, le abitazioni realizzate in container prefabbricati accolgono da qualche tempo immigrati illegali in soggiorno forzato.
Facciamo un passo avanti.
L’opzione più radicale del nomadismo architettonico lo dobbiamo alle nanotecnologie.
L’ultimo stadio del corpo trasformato in architettura può realizzarsi con le pelli abitabili, i nanodermi, futuro paradigma dell’abitazione umana se crediamo che l’inserimento nel paesaggio di una pelle nomade, abitabile e cambiabile, corrisponde a un mito che può diventare realtà.
Qui non si tenta più di vincere il clima, di lottare contro le forze della natura, ma di creare un clima interno che deve tutto a una tecnologia visivamente discreta, che viaggia senza limiti territoriali.
In tal modo spariranno tutte le megastrutture, gli involucri, le bolle, le costruzioni.
La visione dell’assenza di qualsiasi traccia architettonica corrisponde all’Eden ritrovato, dove l’uomo sarà necessariamente nomade.
L’acqua è inafferrabile, cosa esiste di più nomade dell’architettura liquida?
L’architettura liquida giunge, in via teorica, fino alla smaterializzazione, poiché è basata su relazioni tra elementi astratti, e l’effimero è il suo destino.
Il riferimento è a Zygmunt Bauman.
L’architetto non concepisce più un singolo edificio, ma definisce i principi che daranno origine a una serie infinita di essi. Agli antipodi della sedentarietà, l’architettura liquida si muove con la velocità del pensiero immateriale. Al di fuori del principio di continuità tradizionale, il cyberspazio permette a ogni schema di diventare opera architettonica: è architettura che contiene architettura.
L’architettura non è nomade solo per il cambiamento di luogo a cui può essere sottoposta: è nomade nella sua forma, spazialmente e temporalmente.
“Se abbiamo descritto architettura liquida come una sinfonia nello spazio, questa descrizione è ancora lontana da ciò che essa è. Una sinfonia, pur variando entro la sua durata, è ancora un oggetto fisso e può essere ripetuto. Alla sua massima espressione un’architettura liquida è più di questo. Si tratta di una sinfonia spaziale, ma è una sinfonia che non si ripete mai e continua a svilupparsi come un’estensione del nostro corpo, come riparo e protagonista del nostro Sé…
- Novak,Liquid architectures in cyberspace, inCyberspace. First steps, 1991.
Marcos Novak è un docente presso il Dipartimento di Architettura e Urbanistica della UCLA, a Los Angeles. È considerato, oltre che un architetto innovatore, un artista, un compositore e un teorico che impiega tecniche algoritmiche per la progettazione di ambienti intelligenti reali, virtuali e ibridi. Da tempo cerca di ridefinire il paradigma dell’architettura per includervi la cultura digitale. Ha creato il concetto di architetture liquide nel cyberspazio e ha fondato uno studio per un’architettura dematerialize, aperto al nuovo e al virtuale.
Per Jacques Attali, un filosofo francese autore di L’homme nomade (2003) è il neonomade il nuovo individuo che dominerà il mondo policentrico del futuro.
Il nomade classico porta su di se il peso di un’immagine carica di pregiudizi all’interno di una società che attribuisce importanza ai valori della sedentarietà, del territorio e dei legami ancestrali, compresi gli stili architettonici propri di ogni Paese d’origine.
Oggi, invece, i rappresentanti di un’élite, per la quale il mondo è un villaggio (McLuhan), dispongono di più luoghi di residenza, oppure possono trovare in tutti gli angoli del pianeta un ambiente di vita conforme alle loro esigenze.
In termini più sociologici possiamo dire che l’immagine prevale sul messaggio, l’apparenza domina il contenuto, che le rappresentazioni veicolano nuove pratiche architettoniche più o meno valide.
L’uomo, il cui nomadismo è legalmente autorizzato e socialmente apprezzato, che padroneggia le più moderne tecnologie, che il reddito o la nazionalità mettono al riparo dalla condizione di illegale o di richiedente asilo, abita un mondo multiverso che comincia a diventare troppo piccolo per lui.
La sedentarietà sembra essere, come abbiamo visto, una parentesi nell’arco temporale dell’esistenza umana: poco a poco l’uomo ridiventa nomade. L’urbanizzazione crescente testimonia il cambiamento fondamentale vissuto nel mattino di questo nuovo secolo. In questo senso la globalizzazione è una re-invenzione del nomadismo: un nomadismo di altro genere, contemporaneo all’avvento della società dell’informazione e della conoscenza.
Il nomadismo in questa prospettiva si definisce come una nuova modalità connessa al popolamento.
All’origine, questo, era associato alla ricerca di pascoli, allo spostamento degli animali. Nel nostro mondo globale tali bisogni appaiono obsoleti, anche se gl’uomini che vivono alla periferia dell’impero occidentale li ha riscoperti sotto la spinta della necessità.
Così, a mano a mano che nella nostra società segmentata riappare un’organizzazione di tipo tribale, i valori tradizionali dell’architettura si frammentano.
Il popolamento, sia negli spazi interstiziali delle città sia negli orizzonti infiniti del cyberspazio, si distribuisce secondo una ripartizione che tenta di sfuggire a ogni territorializzazione dello Stato, a ogni definizione spaziale.
Il costruire è così soggetto a un errare senza meta: abitare non esprime più il legame con la terra, il radicamento, ma la manifestazione di un bisogno umano elementare, il sogno di un’architettura istantanea.
Fine parte introduttiva.
RADICI FLUSSI & MODELLI D’INTEGRAZIONE.
Per abitare. Sono necessarie le radici?
I più importanti modelli culturali d’integrazione nell’ambito della cultura occidentale sono essenzialmente quattro.
Prima di esaminarli occorre ricordare che i modelli culturali, al di là dello storytelling, sono scorciatoie interpretative e che l’identità culturale, come quella etnica, sono leggende senza fondamento.
Il loro uso dunque è essenzialmente didascalico.
Il primo modello è quello endoculturale.
È il modello tipico delle culture chiuse e è di fatto un modello xenofobo.
L’Altro, lo straniero, il diverso sono emarginati e spesso rifiutati allo scopo di tutelare e proteggere la cultura, l’economia, la religione e le tradizioni locali.
Politicamente può essere considerato il modello culturale preferito dai totalitarismi e dai regimi conservatori.
In passato era caratteristico di molte società stabili e avvantaggiate sul piano economico.
Questo modello non è mai stato egemone nei medi e lunghi periodi.
Fuori dallo stato di eccezione è sempre fallito.
Le frontiere dell’ideologia endoculturale sono molteplici.
Sono quelle dello Stato, ma possono essere anche quelle della regione, della città, del quartiere.
La xenofobia, infatti, è un’ideologia che può essere agita contro chiunque è definito o ritenuto uno straniero, un diverso, un estraneo.
Va però anche ricordato che l’esperienza migratoria fa parte della storia dell’uomo e che nessun muro l’ha mai potuta fermare per molto.
Questo modello è – nei fatti – sostanzialmente uno strumento per relegare lo straniero in una condizione permanente di inferiorità e – se e quando è necessario – trasformarlo in un nemico, in responsabile dei problemi irrisolti della collettività ospitante.
La paura, che sta alla base dei processi reattivi dell’endocultura, non va giustificata come un semplice problema di psicologia delle masse, perché in realtà tradisce un profondo egoismo.
Tende, invocando lo statu quo, a non lasciare che certi vantaggi si deteriorino, come l’utilizzo a costi irrisori del lavoro dello straniero e dei suoi saperi che vengono dall’altrove.
Tende all’esclusione dello straniero dai diritti e dai vantaggi sociali.
Soprattutto considera lo straniero il capro espiatorio di riserva per ogni crisi locale o nazionale che non sia risolvibile diversamente.
La xenofobia che galleggia sul modello endoculturale lo ha formalmente marginalizzato in quelle aree geografiche e in quelle nazioni che non sono e che non devono neppure fingere di essere democratiche.
Il secondo modello è definito multiculturale o anche melting pot, come è chiamato negli USA dove si è diffuso e sviluppato a partire dalle prime decadi del Novecento, anche grazie alle inchieste sul campo della Scuola di Chicago.
È il primo modello che in qualche modo rifiuta la xenofobia esplicita.
Ancora oggi è molto popolare e diffuso.
Nella multiculturalità c’è una particolarità importante: l’elemento centrale non è l’individuo, ma la comunità etnica.
Questo modello predica la convivenza tra le culture, ma queste culture sono di fatto relegate in aree locali o urbane che facilmente, con il tempo e le pressioni esterne, si mutano in ghetti, elaborano spazi identitari distinti e facilmente riconoscibili.
A proposito di questo modello occorre evitare un equivoco diffuso che lo riguarda, perché la convivenza non significa uguaglianza.
Basta osservare come nel melting pot, prima o poi, le varie comunità che lo compongono rivendicano la diversità se non la superiorità della loro cultura e della loro way of life.
Può apparire una sottigliezza lessicale, ma in questo modello di multiculturalità la segregazione progressivamente si trasforma in separazione.
Le diversità diventano differenze.
I confini diventano frontiere da temere e rispettare, spesso invalicabili.
Diciamo che in questo modello alla ghettizzazione come espressione xenofoba si sostituisce la filosofia dei mille ghetti come piccole patrie.
Davanti a questo stato di cose, qual è il problema più sentito da parte dello “straniero”?
O egli rinuncia per sempre a se stesso, alla sua identità, cercando di assimilarsi ai “residenti”.
O è costretto a vivere dentro il ghetto della comunità d’origine con la sua cultura e le sue tradizioni che la lontananza finisce per alterare e che il più delle volte si trasforma in folclore.
Per usare un’espressione mediata dall’economia è come se le diverse comunità che si formano siano condannate, volenti o nolenti, se vogliono sopravvivere, a conquistare delle rendite di posizione.
Questo è il motivo per il quale nel melting pot ogni comunità ha le sue scuole, i suoi negozi, i suoi giornali e radio locali, le sue televisioni, i suoi circoli culturali e politici, le sue feste religiose.
Questo stato di cose – che accosta queste comunità a dei non-luoghi atipici – fa si che il migrante trovi nel ghetto della comunità che lo ospita la riproduzione – modello Svizzera in miniatura – della comunità di origine.
Sul piano psicologico sono circostanze che condannano il migrante alla nostalgia e alle sue forme patologiche, così come a forme di anomia del comportamento.
Ma, più grave ancora, queste circostanze lo obbligano prima o poi a adeguarsi a due autorità, quella della comunità che lo ospita e quella della sua comunità di origine, perché dal compromesso tra queste due comunità finisce per dipendere, in buona misura, la sua posizione sociale.
Uno dei pericoli reali delle politiche ispirate al melting pot è che esse finiscano per essere l’innesco di rivolte che nella loro fase gestativa sfuggono ai controlli istituzionali per poi esplodere in forme non convenzionali di conflitto.
Ma questo è il rischio di tutte quelle politiche che separano per comandare e comandano per imporre i loro interessi.
Una variante della multiculturalità più evoluta è rappresentata dal terzo modello, quello interculturale.
Per certi versi è un modello europeo che si è diffuso a partire dalla seconda metà del Novecento, con qualche variante, soprattutto in Inghilterra e in Francia.
Il punto di forza politico di questo modello riposa sul principio che tutte le culture hanno pari dignità e che esse si valorizzino confrontandosi.
In altri termini non ci sono gerarchie culturali, ma solo differenze.
L’individuo è sempre in diretta relazione con il suo gruppo comunitario, ma della identità del gruppo vengono sottolineati e valorizzati solo i contenuti non aggressivi, come la lingua le arti, il folclore e soprattutto la cucina.
In linea teorica la valorizzazione culturale non avviene mai a spese di un’altra cultura e a ogni cultura viene riconosciuto il diritto di esistere a parità di diritti.
Il rischio insito in questo modello è che si vengano a creare delle comunità immaginarie.
Delle comunità che sono solo una caricature o una tragedia di quelle originarie e che spesso ne cavalcano i limiti e le ossessioni.
Si pensi alla confusione d’identità dei beur francesi.
Beur, femminile beurette, è un neologismo politico che definisce i discendenti degli emigrati dall’Africa del Nord che si sono trasferiti in Francia.
Questa espressione è nata negli anni ’80, ma già qualche anno dopo era entrato nei vocabolari della lingua francese.
L’origine del termine è curiosa.
È stato inventato invertendo l’ordine delle sillabe della parola arabe, a-ra-beu, da cui beu-ra-a, poi beur per contrazione.
Questo termine viene usato per marcare una differenza culturale con la condizione di francese e in qualche modo esso suona offensivo per il riferimento implicito a beurre (burro).
I beurs hanno origine nei paesi del Maghreb francese – Algeria,Marocco, Tunisia, Libano e Egitto – e hanno di fatto creato un insieme di comportamenti, di stili di vita, di abbigliamento, di letteratura, cinema, cucina, umorismo.
***
L’ultimo modello è quello che postula la cultura come route invece che root.
Che mette in primo piano la transculturalità, vale a dire la constatazione che la cultura come paradigma è un’astrazione, ma non gli individui che sono portatori di culture diverse e inestricabili tra di loro.
È il paradosso inglese. In Inghilterra gli inglesi riconoscono un aspetto della loro identità nel rito del tè. Gli indiani nel gioco del cricket.
Entrambi sono degli specialisti in quello che hanno acquisito dall’altro.
In questo modello l’elemento centrale è la libera circolazione delle persone, dei capitali, delle merci.
Ma soprattutto delle persone, nella loro unicità e irripetibilità, perché la dimensione esistenziale è un valore non negoziabile.
La fragilità di questo modello sta nel fatto che lascia scettici i poteri politico-decisionali, quindi non ha la protezione delle istituzioni.
Che non può molto contro l’immensa capacità di devastazione dei pregiudizi.
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A livello inconscio o dei luoghi comuni, per la maggior delle persone l’abitare è associato all’idea di sedentarietà.
Se però si osserva con attenzione la storia e la scena abitativa dell’uomo la sedentarietà sembra essere un fenomeno secondario in rapporto all’arco temporale dell’esistenza dell’umanità.
È opinione comune che quando i primi uomini smisero di essere cacciatori-raccoglitori, per diventare agricoltori, cominciarono anche a costruire le prime abitazioni stanziali e a padroneggiare l’arte del costruire.
Tra l’altro, in termini funzionali, non si deve dimenticare che anche nelle società più sedentarie esiste una tradizione di architettura nomade per eccellenza, quella navale.
Se osservati da questa prospettiva i due concetti, di nomadismo e sedentarietà, non appaiono quindi così antitetici.
In realtà la nostra convinzione su una vocazione stanziale dell’uomo occidentale nasce negli ultimi secoli, è una sedentarietà indotta e funzionale allo sviluppo e all’interesse della civiltà industriale e manifatturiera e dello Stato-Nazione.
Per venire ai nostri giorni, va anche osservato che fin dai primi anni del ventunesimo secolo c’è stato uno sviluppo del nomadismo sotto molti aspetti.
Un fenomeno che si è accentuato con le società post–moderne e la globalizzazione, un fenomeno che da anni caratterizza il mondo occidentale.
Anche se non se ne parla molto, nell’epoca dell’interconnessione globale, il nuovo nomadismo preme dall’interno contro l’organizzazione sociale, giuridica e economica della forma di Stato fondato sulla sedentarietà.
Sotto un altro aspetto e non meno importante, la globalizzazione ha prodotto la moltiplicazione di luoghi identici nella loro fittizia unicità.
Un’identità fondata sui luoghi del commercio, come sono i mall o i centri commerciali, la merce e i luoghi di consumo, gli snodi di comunicazione, come gli aeroporti – dove l’uomo nomade ritrova un mondo fittizio e familiare.
Dove il viaggiatore-consumatore trova il suo nuovo bush.
Un mondo assimilato ai non-luoghi e ai processi di banalizzazione dell’identità sia dal punto di vista cognitivo, sia dal punto di vista della sensorialità e dell’emotività, ma gratificante dal punto di vista dei consumi,soprattutto di quelli che appaiono esotici.
Questo processo di moltiplicazione dei luoghi si è portato dietro inevitabilmente importanti trasformazioni anche tra le popolazioni relegate ai confini del mondo occidentale.
Gli uomini sradicati e senza risorse, le masse migranti, tentano incessantemente di ricostruire le loro vite in habitat abitativi precari e al limite dell’abitabilità.
Altri non-luoghi che possono essere spostati o eliminati a seconda degli eventi politici ed economici.
In altri termini, il nomadismo, come si può costatare, si presenta in molte versioni e presenta una varietà di approcci abitativi innovativi, spesso criticabili.
All’interno di questo sviluppo l’ampia gamma delle modalità architettoniche differenti ci annunciano un futuro costituito da un paesaggio urbano ancora inimmaginabile.
Di esso conosciamo solo quello ridisegnato dai neo-nomadi giornalieri che hanno profondamente cambiato fisionomia e aspetto alle città.
Lo stesso mercato del lavoro nelle sue forme post-moderne ha assunto come proprio modello ideale, spesso sottopagato e senza garanzie previdenziali, quello della mobilità e della flessibilità.
C’è rilevare che le ricerche sulle strutture nomadi si sono spesso concentrate sulle abitazioni d’emergenza.
Catastrofi naturali e guerre sono state le cause prime e principali dello sviluppo dei numerosi prototipi.
Uno di questi fu la Dymaxion deployment unit (1940) dell’architetto e designer statunitense Richard B. Fuller (1895-1983) monopolizzata dalle necessità militari della Seconda guerra mondiale.
È una capanna circolare di circa venti metri di diametro.
In realtà Fuller è più conosciuto come il padre della cupola geodetica, che tanto affascinò i giovani degli anni ’60.
Successivamente l’architetto finlandese Eero Saarinen (1910-1961) presentò nel 1942-43 due progetti di case smontabili: la Unfolding house e alcuni moduli residenziali denominati PAC (Pre-Assembled Components).
ll francese Jean Prouvé (1901-1984) nel 1944 propose per i rifugiati della Lorena il cosiddetto Padiglione 6x6, montabile in una giornata grazie a un preciso e semplificato processo di assemblaggio.
Il padiglione di Prouvé, tra l’altro, ha dimostrato di non essere ancora obsoleto in occasione della sua esposizione alla Biennale di Venezia del 2000.
In breve l’evoluzione dei ripari temporanei, più o meno elaborati, è proseguita ininterrotta fino ai nostri giorni.
Tra le nuove figure di progettisti non-europei che si sono dedicate all’architettura d’emergenza occorre ricordare il giapponese Shigeru Ban.
Nel 1995, per aiutare le persone sfollate a causa del terremoto di Kobe, questo architetto ha ideato la Paper loghouse, un’abitazione minima la cui struttura portante è costituita da tubi in carta che poggiano su un quadrato di cassette di birra rinforzate da sacchi di sabbia, mentre il soffitto è coperto da un tetto di tela.
Si è trattato di una risposta al bisogno di abitare sia pure con un comfort ridotto.
Se Ban è stato sedotto dalla carta, materiale tradizionale in Giappone per le pareti divisorie, l’architetto iraniano Nader Khalili ha sperimentato come materiale da costruzione la terra.
Interessato ai problemi dei profughi a causa delle guerre e delle catastrofi naturali, ha condotto delle ricerche sui metodi delle costruzioni tradizionali in terra.
Le strutture da lui progettate (con l’assistenza di Phil J. Vittore, un esperto in archi e cupole costruiti con materiali non convenzionali) permettono di ottenere il massimo dello spazio utilizzando il minimo del materiale, sovente reperito sul posto.
Khalili ha mischiato terra e sacchi, con una tecnica che ha chiamato superadobe, per realizzare nel 1995 il suo Emergency sand-bag shelter.
Questo processo costruttivo è semplice e rapido e necessita solo di poche persone.
Le caratteristiche del materiale e del sistema di costruzione rendono queste strutture resistenti ai terremoti, alle inondazioni e ad altre calamità. La terra offre inoltre un isolamento termico e acustico naturale.
Il sistema può servire a costruire anche edifici non residenziali, come scuole e ospedali, e persino strade o ponti.
Tali costruzioni non sono di lunga durata, ma presentano il vantaggio di essere biodegradabili.
Lo shelter di Khalili si è dimostrato di notevole aiuto dopo il terremoto che ha colpito il Pakistan nell’ottobre 2005.
A differenza delle opere progettate da Ban, gli shelters di Khalili sono più effimeri che nomadi. Essi condividono con il tema del nomadismo l’assenza di radicamento al suolo e la possibilità di reimpiegare alcuni materiali in altri luoghi.
Dobbiamo anche aggiungere che in un mondo dove gli spazi vuoti si riducono ogni giorno, di fronte a metropoli con edifici che faticano a riqualificarsi, la nuova architettura nomade non si esprime più solo all’aria aperta o in aree vergini, ma negli edifici urbani in abbandono.
Su un altro registro, i traffici marittimi, per restare nel tema del nomadismo, hanno ispirato un architetto come l’inglese Simon Allford, dello studio AHMM di Londra.
L’obiettivo della sua ricerca è quello di conferire un secondo fine ai container da trasporto, simbolo della globalizzazione e della circolazione delle merci.
Per Allford riciclare i container trasformandoli in alloggi modulabili, corrispondenti a un’unità minima di abitazione, offre una soluzione al problema abitativo e permette di sfruttare territori urbani come le aree dei parcheggi.
Da qualche anno, però, le abitazioni realizzate in container prefabbricati, proprio grazie alla loro natura, accolgono soprattutto immigrati illegali in soggiorno forzato.
Per Jacques Attali, un filosofo francese autore di L’homme nomade (2003) il neonomade è il nuovo individuo che dominerà il mondo policentrico del futuro.
Il nomade, come l’abbiamo conosciuto fino a oggi porta su di se il peso di un’immagine carica di pregiudizi all’interno di una società che attribuisce importanza ai valori della sedentarietà, del territorio e dei legami ancestrali.
Valori, aggiungiamo, che sono visivamente espressi negli stili architettonici e nell’urbanistica propri di ogni Paese d’origine.
Oggi, invece, i rappresentanti di un’élite, per la quale il mondo è un villaggio globale (McLuhan), dispongono di più luoghi di residenza, oppure possono trovare in tutti gli angoli del pianeta un ambiente di vita adeguato alle loro esigenze.
L’uomo, il cui nomadismo è legalmente autorizzato e socialmente spesso invidiato, che padroneggia le più moderne tecnologie, che il reddito o la nazionalità mettono al riparo dalla condizione di illegale o di richiedente asilo, abita un mondo multiverso che comincia addirittura a rivelarsi troppo piccolo.
La sedentarietà, in altri termini, appare, in questa prospettiva, come una parentesi nell’arco temporale della storia umana.
Paradossalmente, poco a poco l’uomo occidentale sta ridiventando nomade.
Lo ridiventa nello stesso momento in cui rifiuta di comprendere i flussi migratori che si attestano sempre più frequenti e consistenti nell’area temperata del pianeta terra.
In questo quadro la globalizzazione è l’espressione di in una re-invenzione del nomadismo: un nomadismo di nuovo genere, contemporaneo all’avvento della società dell’informazione e della conoscenza.
Così, a mano a mano che nella nostra società classista e segmentata riappaiono convenienti le forme del nomadismo, i valori tradizionali dell’abitare si decompongono.
L’abitare non esprime più il legame con la terra, il radicamento, ma la manifestazione di un bisogno umano elementare, il sogno di un’architettura che offra alla vita corrente nuove prospettive di unicità.
Rientriamo in argomento da un punto di vista più sociologico.
Anche se non ce rendiamo conto lo sviluppo tecnologico agevola il nomadismo accrescendone le libertà e le potenzialità e diminuendone i rischi.
Basta pensare alle opportunità dell’iPod, del telefono cellulare, di internet, dei tablet – tutto appare come concepito per agevolare l’uomo nomade che non si riconosce più nella casa come centro della sua esistenza.
Della nuova sedentarietà tra i vantaggi più evidenti per l’uomo occidentale c’è la possibilità di poter essere sempre in contatto con chiunque, di non spostarsi per lavorare, ma di poter lavorare spostandosi, di poter raggiungere luoghi e informazioni remote in tempo reale.
Se lo osserviamo da questo punto di vista il nomadismo ( dei dannati della terra e dei nuovi signori della mobilità) appare come una delle caratteristiche sociali più vistose e tragiche della cosiddetta società globale.
Il nomade, infatti, non accumula, contrariamente a ciò che hanno sempre cercato di fare i sedentari.
Gli oggetti nomadi che possiede sono la conoscenze e le tecniche.
Gli utensili sono trovati sul posto, nei mall o nei centri commerciali.
La pubblicità di quello di Pechino recita, otto piani, più di mille negozi.
In quest’ottica, del resto, da tempo ciò che conta per l’uomo moderno – sotto l’aspetto economico, sociale e politico –sono le informazioni che possiede, le conoscenze di cui dispone e le tecniche che padroneggia.
Per chi fino a ieri deteneva i mezzi di produzione manufatturiera, l’economia del mondo globale lo ha di fatto spinto ai margini dell’epoca, perché il profitto non dipende più dalla produzione di oggetti e beni materiali.
I nuovi padroni commerciano in idee.
Ciò che conta non sono più i macchinari per la produzione, ma le idee le informazioni che possono essere vendute, il know-how che può essere scambiato, la velocità e la mobilità che gli può essere conferita.
Queste idee si riflettono bene anche su gli obiettivi della guerra moderna.
Essa non si fa più per un confino o una frontiera, ma è un azione aggressiva e spesso priva di regole per un luogo specifico, la ricchezza di un territorio, un punto di dominio.
È una guerra senza confini, una guerra che ha i tratti della disorganicità, ricca di scontri veloci e di rappresaglie.
Come dicono gli analisti queste guerre sono di fatto interminabili e spesso a bassa intensità, confuse e pervasive e non possono mai essere vinte o perse del tutto.
In altre parole assomigliano molto al terrorismo.
Dal punto di vista dell’identità dei luoghi il nomade è colui a cui appartiene il paradigma della deterritorializzazione.
Da una parte rifiuta i vincoli localistici, dall’altra percepisce il mondo come un campo d’azione.
Questa figura ha molte facce, le due contrapposte sono quella del migrante che insegue una speranza di pace, di impiego, di vita migliore, e quella dell’uomo d’affari che si sposta continuamente per i suoi profitti e il suo piacere.
Il nomade di oggi è sempre sul punto di cambia casa, lavoro, amicizie, speranze, stringe rapporti che non sono mai stabili, segue un destino indipendente da quello degl’altri membri della sua comunità d’origine.
In una, non radica la sua esistenza in un luogo determinato e stabile, ma la colloca, con una metafora, al di là del confine, in un altrove sempre mutevole e provvisorio, innalzando la nuova precarietà a way of life.
Dunque, i nomadi per forza e i neo-nomadi sono indifferenti ai confini, alle frontiere, alle barriere che limitano la circolazione e, in particolare, ai criteri che governano un territorio per quanto riguarda le norme.
Va dunque rilevato e riflettuto sul fatto che il nomade – per necessità o per interesse – rifiuta ogni confine e dunque ogni criterio di territorio e di diritto da osservare.
È un non–cittadino e in questa veste non è né uno straniero, né un nemico in senso classico.
Egli non sta né di qua, né di là del confine, ma come dicono i giuristi attraverso di esso.
Per questo i nomadi sono sempre stati combattuti e allontanati dagli Stati.
Sono sempre stati considerati ospiti indesiderati, spesso ghettizzati o costretti a assimilarsi.
Il migrante, per sua natura, non può trovare una collocazione nelle categorie giuridiche tradizionali e non ha di fatto ne diritti e ne doveri propri a chi è radicato in una dimensione territoriale.
Analogamente a quello che avveniva nell’alto Medioevo la globalizzazione tende con non poche difficoltà a far proprio un paradigma legato alla persona.
Il soggetto nomade, infatti – lontano da ogni ipotesi di cittadinanza tradizionale – dovrebbe essere riconosciuto portatore di un diritto proprio identificabile con la sua stessa identità etnica, religiosa, linguistica e sociale.
Con una metafora il confine, in questa prospettiva, non è dissolto ma ristretto fino a coincidere con il soggetto.
L’alternativa è ancora un’utopia, è l’assunzione di un paradigma opposto.
Un paradigma che postuli non già il mantenimento dei confini, ma una loro dissoluzione o, meglio, un suo superamento.
FINE