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Appunti di Sociologia della Comunicazione – A.A.2019-20 – Parte I

SOCIOLOGIA DELLA COMUNICAZIONE

(PARTE PRIMA)

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Grossomodo tutti sanno o credono di sapere che cosa sono la sociologia o le scienze sociali in generale.

In linea di massima si ritiene che siano delle discipline che studiano l’uomo e la società, le istituzioni, le relazioni sociali e i fondamenti della vita sociale. 

 

In particolare la sociologia è comunemente definita come uno studio scientifico della società o, se volete, dell’azione sociale e dei rapporti intersoggettivi al fine di interpretarli. 

 

Da un punto di vista storico o, meglio, dei processi che la strutturano e la de-strutturano, la sociologia è una delle scienze empiriche (o, prasseologiche) del diciannovesimo secolo, nate, nell’alveo del positivismo come risposta ai cambiamenti innovativi e per buona parte imprevisti introdotti dalla modernità. 

 

Davanti a un mondo, che, da una parte, appariva sempre più piccolo e integrato e, dall’altra, a un’esperienza della realtà sempre più parcellizzata e dispersiva, la sociologia rappresentava la speranza non solo di capire che cosa univa tra di loro gli individui e i gruppi sociali, ma anche di rimediare alle molteplici forme di disgregazione culturale in atto. 

 

Va sottolineato che all’inizio e per molto tempo la sociologia fu una disciplina del mondo occidentale elaborata da una cultura permeata di eurocentrismo e istanze colonialiste.

 

Solo dopo due guerre mondiali e l’inizio del fenomeno della globalizzazione si diffuse, come disciplina, nel resto del mondo, non senza qualche difficoltà interpretativa che in alcuni casi giunse fino al suo rifiuto o a una sua radicale revisione.     

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In breve la sociologia rappresenta, da un lato, uno dei più efficaci paradigmi per la comprensione della complessità, che caratterizza il mondo moderno.

Dall’altro, costituisce uno degli strumenti più utilizzati per conoscere il modo di formarsi della cultura, dei valori, degli stili di vita e, insieme, di analisi dei nuovi mutamenti sociali, come sono la globalizzazione dei mercati, l’affermarsi delle società multietniche, l’incidenza dei mass-media sulle mode, i costumi e le abitudini, l’avanzare delle tecnologie digitali.

L’obiettivo di questa disciplina, dunque, è di illustrare le dinamiche che spiegano il divenire delle esperienze, le passioni e il fare degli uomini con la cultura dei segni, delle forme sociali e delle

 neo-tecnologie che dominano la modernità e le sue rappresentazioni.

Così come di educare gli uomini a decifrare i significati del mondo reale, l’importanza del vissuto, che si nascondono dietro le architetture della rappresentazione sociale e dei suoi simulacri.

In sostanza la sociologia si occupa della società come un prodotto umano e dell’uomo come un prodotto sociale.

Ne consegue che per questa disciplina, è l’esperienza del vissuto che scandisce il tempo della storia e la sua agenda sociale! 

Diciamo più in generale che la sociologia è la scienza che studia (con i propri metodi e strumenti d’indagine) i fondamenti e i processi di strutturazione e destrutturazione delle comunità, le manifestazioni della vita associata e le loro trasformazioni.
È per questo che, in passato, è stata anche definita come la scienza dei fenomeni sociali. 

Oggi, in particolare, le teorie sociologiche sono considerate come degli strumenti ideologici per adattare il comportamento degli uomini ai bisogni dell’epoca e ai suoi oggetti sociali. 

In un’ottica politica è come dire che le diverse sociologie, con cui si compone lo studio della società, sono diventate dei mezzi con i quali si legittima l’ordine sociale, sia esso improntato alla conservazione, che al progresso e all’innovazione.

Va specificato che, per le scienze sociali, i fenomeni sociali sono caratterizzato dalla proprietà di esistere al di fuori delle coscienze individuali, così gl’individui se li trovano di fronte come delle realtà che preesistono loro e che sono indifferenti alla loro presenza. 

 

In secondo luogo, i fenomeni sociali sono anche dotati di un certo potere imperativo e coercitivo in forza del quale s’impongono agli individui con o senza il loro consenso.   

 

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Il termine di sociologia fu coniato nel 1824 dal filosofo francese Auguste Comte (1798-1857) che, nel suo Corso di filosofia positiva, pubblicato nel 1839, la impiegò al posto di un’espressione che abbiamo già ricordato, quella di fisica sociale

Un’espressione che era stata coniata nella seconda metà del ‘700 per definire lo studio positivo delle leggi fondamentali proprie dei fenomeni sociali

Questa idea di una fisica sociale, come strumento per studiare gli uomini, nella seconda metà del diciottesimo secolo serviva a rivoluzionare un certo modo di vedere il mondo.

A capovolgere certezze centenarie e a seminare il dubbio là dove gli antichi saperi costituiti avevano i loro capisaldi, costruiti – il più delle volte – sulla sabbia dei luoghi comuni.

Il termine positivismo (che compare nel titolo del libro di Comte) fu impiegato per la prima volta da  Claude Henri conte di SaintSimon (1760-1825)  per definire un metodo esatto, dal punto di vista scientifico, con il quale fosse possibile affrontare i grandi temi con i quali la società e gli uomini devono in continuazione misurarsi.

L’idea da cui partì questo metodo di ricerca affonda nelle tesi dell’Illuminismo francese.

In prospettiva, possiamo dire che il positivismo contribuì a divulgare  i principi e la necessità di una organizzazione scientifica della società (soprattutto di quelle industriali) dando un senso ad un grandissimo fenomeno, sociale, politico ed economico, il fenomeno della tecnica, intesa come una scienza dei mezzi, che si materializza nella tecnologia e da vita alla civiltà industriale.

Per i positivisti la scienza è l’unico strumento di conoscenza reale (dunque, possibile) del mondo da cui ne consegue che solo i principi scientifici e le cause analizzabili con il metodo delle scienze possono dare origine alla conoscenza.

Come mostra la storia di questa corrente di pensiero oltre che nel discorso delle scienze dell’uomo, il paradigma del positivismo (nel corso dell’Ottocento) penetrò nella medicina, nella politica, nella giurisprudenza, nell’insegnamento, nell’economia, nella filosofia e in molte altre discipline ancora.
In estrema sintesi il concetto di sociologia rimanda dunque a un discorso sull’individuo come membro della società, cioè, ad una disciplina che studia il fondamento dei rapporti intersoggettivi come se fossero una scienza, cercandone un senso, una ragione, un obiettivo sociale.

Addenda

Nella scia delle teorie formulate da Auguste Comte incontriamo Herbert Spencer (1820-1903), un filosofo inglese di orientamento positivista, con grandi interessi per la psicologia, considerato il padre della filosofia evoluzionistica.

Spencer è l’autore di un trattato di sociologia in cui, per la prima volta, le teorie di Charles Darwin (1809-1892) sull’evoluzione sono applicato alle scienze sociali.

L’evoluzionismo – come visione del mondo – ha avuto, nell’ambito del discorso sociologico, il merito di focalizzare l’attenzione sul legame tra passato, presente e futuro.

Possiamo dire che ha sottratto il passato al suo destino di storia morta, facendolo apparire come un materiale vivente, o con un’immagine positivista, come il materiale geologico con cui l’uomo costruisce il suo presente, cerca d’immaginare il suo avvenire e gli dà un senso che non ha l’arbitrio di un destino ineluttabile . 

Insieme a Spencer ricordiamo John Stuart Mill (1806-1873), filosofo ed economista inglese, studioso di un particolare capitolo delle forme economiche: le forme espresse dall’utilitarismo. 

L’utilitarismo è una dottrina che elabora i modelli di comportamento economico che guidano le scelte individuali.
Di per sé le tesi sull’utilitarismo sono molto antiche, si possono far risalire a Epicuro, vale a dire, al quarto secolo circa prima dell’era comune.

L’utilitarismo elaborato da Mill tende a legare il bene con l’utile e a trasformare l’etica e le forme della morale, in una scienza della condotta umana.

Mill in Inghilterra è ricordato con simpatia, soprattutto dalle femministe, perché fu uno strenuo partigiano del diritto delle donne al voto.

Sempre per restare nell’ambito dell’utilitarismo inglese ricordiamo un altro suo padre nobile,  Jeremy Bentham (1748-1832).

Bentham è un filosofo riformatore fautore, in sede politica e legislativa, di un grande disegno organico di riforme sociali fondate sull’equità per tutti.
Questo filosofo è conosciuto nei paesi di lingua inglese come il filosofo della felicità, per aver posto questo sentimento a guida e a motore dell’azione degli uomini.
Le sue tesi possono essere riassunte in questo principio: Il dovere dei legislatori, vale a dire dei parlamenti e dei governi, è quello di assicurare il massimo della felicità possibile al maggior numero possibile di individui. 

Va ricordato che la parola felicità compare come un diritto inalienabile dei cittadini insieme alla vita e alla libertà nella Dichiarazione d’Indipendenza Americana del 4 luglio 1776. 

 

È una prova della grande popolarità delle tesi di Bentham (quando era ancora in vita) nell’area dei paesi di lingua inglese. 

 

Tornando a Mill.
Per questo filosofo la sola conoscenza possibile è quella empirica e è il metodo della logica che deve guidarla.

Cioè, un metodo per creare inferenze (l’inferenza in logica è un processo per trarre conclusioni dai fatti presi in esame) fondato sull’induzione e la deduzione e, in sub-ordine, sull’abduzione (che è una sorte di sillogismo debole).

Un metodo improntato ad un realismo metodologico a-ideologico.
Temi che Mill affronta in un libro famoso, intitolato Sistema della logica deduttiva e induttiva, uscito a Londra nel 1843.

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Rivediamo quello che abbiamo detto da un’altra prospettiva, più antropologica.

Nelle cosiddette società primitive o tribali non esisteva il problema di dover conoscere e riflettere sui fondamenti dell’ordine sociale.
I rapporti interpersonali all’interno di queste comunità erano basati principalmente sui vincoli di sangue, di latte, di parentela e, non da ultimo, su legami di natura magica o sacra.

Erano società semplici, con strutture organizzative elementari, poco dinamiche, con scambi e contatti ridotti con le altre realtà sociali esterne ad esse, anche se spesso improntati a una certa conflittualità.

Questo stato di cose andò in crisi per due circostanze:

– La prima è la crescita demografica, che si ebbe grazie alla diffusione delle culture cerealicole a cominciare da quella regione che oggi viene definita della “mezzaluna fertile”, che corrisponde grossomodo all’area medio-orientale e, conseguentemente, con la nuova complessità sociale che questa crescita comportò.

 

Nella storia dell’uomo la cosiddetta svolta cerealicola anticipa la nascita delle città.  Fece aumentare i tassi di natalità e stabilizzò i nuclei familiari che poterono contare sulla certezza di potersi nutrirsi. 

 

– La seconda circostanza si ebbe con il diffondersi dei commerci, dei viaggi di esplorazione e dei trasporti, che misero in crisi le obsolete strutture di tipo ancestrale.

Questo mutamento gli storici lo fanno risalire, per quanto riguarda l’area del Mediterraneo, al ottavo/settimo prima dell’era comune, a partire dalla Grecia, che allora esprimeva un modello di società evoluta.
Sono gli anni che vedono la nascita della città-stato, delle polis.

 

Città che, sia pure in forma embrionale, svilupparono al loro interno delle configurazioni sociali complesse, in continua trasformazione e spesso concorrenti tra di loro.

Da un punto di vista funzionale, in queste cittàstato l’organizzazione civile cominciò a formarsi faticosamente intorno a due temi contrapposti, quello della solidarietà sociale e quello dell’interesse economico.
La considerazione più importante è che queste micro-società diventarono con il tempo dinamiche, improntate, cioè, a un costante mutamento. 

Al contrario, le società primitive erano società statiche, lente, fondate su valori considerati sacri, che si ritenevano divini, eterni e indiscutibili.
In particolare, la città-stato greca è estremamente articolata, fluida e in qualche misura laica.
Dalla polis derivò la politikà, la tecnica degli affari pubblici, la politica. 

Questa politica possiamo definirla come una tecnica che studia i problemi relativi alla polis dal punto di vista dell’esercizio del potere nel contesto di una forma di Stato nascente.   

 
Problemi che erano la conseguenza e il riflesso di due preoccupazioni principali.
– Come elaborare le forme di legittimazione e di delega per coloro che dovevano guidare la polis, in pratica, esercitarne il governo

È quello che oggi chiamiamo il tema della rappresentanza

 

– Come trovare e definire quelle regole che, se osservate da tutti, garantiscono la pace sociale e fanno prosperare il cosiddetto bene comune.   

 

Diciamo che è dallo sviluppo di queste considerazioni che, molti secoli dopo, nacque e si sviluppò la teoria contrattualistica della società.
Uno dei principali artefici di questa teoria fu il filosofo inglese, Thomas Hobbes (1588-1679).

Hobbes aveva studiato a Oxford, ma la sua formazione fu caratterizzata dai suoi continui contatti con l’ambiente culturale europeo.

Visse a lungo a Parigi, dove conobbe Cartesio.

La sua opera più importante è il Leviatano, pubblicato nel 1651.

In linea generale la filosofia di Hobbes rappresentò, nel XVII secolo, un’alternativa alla filosofia di Cartesio, non solo perché la filosofia di quest’ultimo era legata ai principi della metafisica, mentre quella di Hobbes era fondata su presupposti materialistici, ma anche perché i due filosofi scorgeranno nell’esercizio della ragione capacità diverse.

La filosofia di Hobbes ha come obiettivo quello di porre i fondamenti per una società pacifica e ordinata che lui pensava fosse possibile solo grazie al potere assoluto dello Stato.

Hobbes era convinto che fosse inutile una filosofia basata sul ragionamento astratto, perciò cercò di elaborare una filosofia puramente razionale, una filosofia che escludesse il soprannaturale, che in qualche modo liquidasse ciò che, senza prove reali, era stato affermato dagli autori antichi.

Una filosofia che prendesse spunto esclusivamente dalle leggi della natura.

Egli fu il primo filosofo a dichiarare, in modo chiaro e convincente, l’assoluta necessità di una scienza politica, considerato che l’uomo è un animale egoista che dev’essere governato.

Il punto di partenza di questa teoria contrattualistica è l’affermazione che il mondo dell’agire umano è retto da leggi analoghe a quelle che governano l’ordine naturale.

 

In questo modo si può arrivare a sviluppare una scienza della società umana che ha la stessa oggettività e coerenza delle scienze esatte, come la geometria o la fisica.

Una considerazione da cui deriva il convincimento che la società e il potere politico non sono affatto naturali per l’uomo, ma costituiscono un compromesso per mettere fine allo stato d’insicurezza permanente che caratterizza la convivenza senza regole.   

Per Hobbes le origini della società devono di conseguenza essere fondate su un patto, su di una specie di contratto liberamente sottoscritto da chi vive in quella società.

Poi, attraverso la rappresentanza politica, gli uomini – per sottrarsi al disordine dello stato di natura come condizione a-sociale, caratterizzata dalla lotta di tutti contro tutti (homo homini lupus) –  accettano (come male minore) di sottoporsi al governo di un sovrano assoluto.

Può apparire – per certi versi – una teoria semplicistica, ma non va sottovalutata, soprattutto alla luce delle implicazioni che ne derivarono.

Le due principali sono:
1 – Se pensiamo la società in questo modo essa diventa una costruzione storica, un prodotto positivo, privo, in sé, di una sua necessità ontologica (a limite teleologica) o di un destino, cioè, di “un dover essere così”…per volere di Dio o di un ente superiore.

2 – Poi, come sosterranno le correnti illuministiche settecentesche, se la società scaturisce da un patto tra gli uomini, questo patto si può anche rivedere e, magari, riformulare più o meno radicalmente.
Nulla in teoria esclude, ne dedussero i movimenti riformisti, che la revisione di questo patto possa avvenire anche con una rivoluzione

Un’utopia condivisa da molti uomini dell’Ottocento europeo e da tutti i movimenti politici d’ispirazione socialista.

L’altro grande protagonista di quel pensiero della politica che trasformerà per sempre la cultura occidentale è Charles-Louis di Montesquieu (1689-1755), filosofo e saggista francese.

Con Hobbes rappresenta il fondatore della dottrina politica moderna, il primo a formulare la teoria della divisione dei poteri.

La sua opera maggiore, De l’esprit des lois, fu pubblicata a Ginevra nel 1748.

Di lui vanno ricordate anche le Lettres persanes, che uscirono anonime a Amsterdam nel 1721, in cui tratta, in modo letterario, utilizzando la forma del romanzo epistolare, molti motivi tipici del suo pensiero politico, come la polemica contro le dispute religiose e l’intolleranza, la funzione morale e sociale della religione, il rifiuto del dispotismo, la difesa dei parlamenti come garanzia di libertà.

Ne l’Esprit des lois egli scrive: “…molte cose guidano gli uomini: il clima, la religione, le leggi, le massime di governo, le tradizioni, i costumi, le usanze. Dalla confluenza di queste cose si forma uno spirito generale, che ne è il risultato e che noi non possiamo ignorare”.

Per il suo tempo egli distingue tre tipi di governo possibile: repubblicano, monarchico, dispotico.

In tutte queste forme di governo, però, c’è una contrapposizione tra nobili e popolo.

I nobili costituiscono una classe che per difendere i propri privilegi tende a reprimere il popolo.

Da qui la necessita di una scienza della politica che distingua e renda autonomi i tre poteri che possono difendere la libertà e l’equità sociale.

Sono:

– il potere legislativo.

– il potere esecutivo.

– il potere giurisdizionale o giudiziario.

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Proviamo adesso, ad intrecciare la domanda relativa a quando è nata la sociologia con quella che si interroga sulle ragioni della sua comparsa. 

Questo perché è importante capire, prima di procedere, il motivo per il quale la sociologia e, in generale, tutte le scienze sociali e/o empiriche (prasseologiche) hanno avuto la loro culla nel corso dell’Ottocento. 

 
Sono discipline che, ognuna nel suo specifico campo di studi, ereditano, sia pure in misura diversa, il patrimonio della filosofia classica e in un certo modo, le sue illusioni e i suoi progetti.

Nel complesso queste discipline rappresentano un tentativo di reagire ad una crisi di portata epocale, la crisi della dottrina metafisica, cioè, di quel discorso ideale sulle cose del mondo che la filosofia greca pone oltre la fisica e oltre gli aspetti materiali della mondanità.

Diciamo che la metafisica è una dottrina filosofica che si auto-definisce come una scienza della realtà assoluta, capace di fornire una spiegazione delle cause prime della realtà prescindendo da qualsiasi dato dell’esperienza. 

In breve la metafisica era considerata quella parte della filosofia che, andando oltre gli elementi contingenti dell’esperienza sensibile, si occupava degli aspetti ritenuti più autentici, sacri e fondamentali della realtà. 

Questa crisi della conoscenza classica è parallela alla nascita dell’idea di modernità che, per convenzione, la maggior parte degli storici fa risalire alla Rivoluzione francese, vale a dire al 1789.

Ricordiamo come una delle prime definizioni di modernità appare per la prima volta in un testo di Honoré de Balzac (1799-1850) per indicare la presa di coscienza della singolarità e dell’unicità dell’epoca, in materia letteraria ed artistica, in rapporto al passato.  

 

Per estensione, poi, la modernità diventò il carattere proprio di un mondo, di una società, di un’epoca, che sanno che il passato non rinvia più a nulla e che a volte trae in inganno. .  

 

C’è un’idea di modernità che ci interessa in modo particolare.  È quella che coinvolge il mondo delle arti. 

Nasce in Francia con il Secondo Impero (1852-1870) in opposizione alla cultura e all’arte accademicain seguito definita stile pompier –  un’arte indipendente che si proclama realista e che conobbe un grande successo nella sua evoluzione impressionista

 

In nome della modernità, come mostrano gli avvenimenti storici, il realismo da vita ad una serie di rotture

 

– In politica con il radicalismo, perché i pittori realisti o naturalisti sono repubblicani e si oppongono ai disegni imperiali di Napoleone III. 

 

– Nell’estetica, perché questi artisti detestano le grandi scenografie mitologiche e le maestose mitografie dei pittori accademici, rivendicando la bellezza semplice della natura

 

– Nell’ambito della questione sociale, perché questi artisti provengono – salvo qualche eccezione – dal popolo, difendono la democrazia e detestano la cultura aristocrazia al potere. 

Perfino nel modo di pensare l’ambiente sono in qualche modo innovativi, rivalutando la campagna contro il moltiplicarsi degli appetiti dell’industria manufatturiera e del capitale che sta cambiando la geografia e la storia del territorio. 

En passant.  Sul tema della modernità ricordiamo che qualche anno fa un sociologo di origini polacche, Zygmunt Bauman ha introdotto il concetto di  modernità liquida (il saggio omonimo Liquid Modernity è del 2000, la traduzione italiana del 2006) nel tentativo di spiegare la postmodernità.

Questa modernità liquida è una metafora di quel potere che è capace di dissolvere le tradizioni, le istituzioni e perfino la stessa morale, tipico del capitalismo globalizzato.

Si caratterizza per l’impossibilità degl’uomini di individuare dei punti di riferimento stabili – necessari alla costruzione di una propria identità sociale – e nell’ansia che ne consegue.  Un’ansia che vediamo affiorare nelle nuove forme della precarietà economica e nella crisi dei valori morali.

Proseguiamo.

Dal punto di vista delle scienze sociali la crisi della conoscenza classica si colloca tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento.

Sono gli anni in cui si conclude anche la parabola dell’Illuminismo, che aveva mostrato come il mondo che abitiamo fosse più complesso di quello che sembrava e ancora per buona parte inspiegabile.

Una inspiegabilità che metteva in luce come, con il proseguire della conoscenza sperimentale, tutte le idee semplici ed astratte e tutte le raccomandazioni della fede religiosa non servissero più a nulla.
In altre parole, con la Rivoluzione francese giorno dopo giorno l’antico affresco del mondo, che era stato dipinto a cominciare dalla filosofia greca, va in pezzi dando vita a tutta una serie di tentativi per porvi rimedio.

Generalmente si chiamano conservatori o reazionari gli sforzi impiegati a ricomporlo e progressisti o rivoluzionari quelli impiegati per approdare a nuovi e più avanzati equilibri.

Ma, c’è anche un fatto nuovo, decisivo per il mondo Occidentale, l’avanzare prepotente in tutti i campi della vita corrente, dagli affari alla politica, dalla morale al governo delle nazioni, di una nuova classe sociale, quella che aveva vinto la Rivoluzione francese e che adesso esigeva che le venissero riconosciuti quei diritti per i quali aveva preso le armi: la borghesia.   

 

Il 14 luglio 1789 il popolo di Parigi prende d’assalto la Bastiglia, ma nel suo diario Luigi XVI, quello stesso giorno scrive una sola parola: Rien. 

Siccome le idee non cascano dal cielo, ma si formano e si sviluppano tra gli uomini, una tale rottura epocale – che questo aneddoto descrive in modo vivido e che da vita alla modernità e a tutte le sue convulsioni – è soprattutto il risultato dell’azione in tutti i campi della vita corrente di questa nuova classe in ascesa.

Ecco perché, come scienza della società, la sociologia non poteva nascere in un altro momento

Questa disciplina era funzionale ad un modo diverso di vedere il mondo, rispondeva alle aspettative di una classe sociale alla ricerca di un’identità all’altezza della sua storia, fino al punto che non solo ne esprimeva i suoi caratteri, ma arrivava a rafforzarla nelle sue consapevolezze e nelle sue determinazioni e, in prospettiva, nei suoi errori.  

La sociologia, soprattutto all’inizio, ha poi contribuito a divulgare, perlomeno tra le classi dominanti, due grandi miti dell’Ottocento:

il mito della tecnica, più specificatamente, della macchina.

 

– il mito del progresso (o, dell’idea di progresso), come speranza di un futuro radioso per un numero d’individui sempre più numeroso.

Questo secondo mito rappresenta una fiducia, per molti illimitata, per altri ingenua, nell’avanzamento continuo e instancabile della scienza e con essa delle condizioni materiali e spirituali dell’umanità.

(Ha avuto anche i suoi detrattori, molti illustri, come furono Jean-Jacques Rousseau e Giacomo Leopardi).

Abbiamo ricordato come il positivismo abbia in qualche modo orientato, nel corso dell’Ottocento, le principali ricerche intorno al tema della società e delle sue leggi, mentre alle sue spalle si scolorivano e si dissolvevano le strutture e i valori tradizionali dell’Ancien Régime. 

In questo contesto maturarono molte ricerche e si aprirono, spesso in modo caotico, confronti e dibattiti su concetti, teorie o riflessioni che oggi appaiono popolari, ma che allora sembravano irriverenti, improponibili, blasfemi o addirittura intoccabili.

Per esempio:

Si cominciarono ad affrontare i temi del rispetto culturale dell’Altro, come individuo, e dei popoli come una forma sociale d’identità d’accettare e comprendere.

Si cominciò a valorizzare la cooperazione internazionale come strumento per un sentire comune delle differenze culturali, sociali e politiche.

Si cominciò a sviluppare l’idea di nazione e di solidarietà sociale.

Si diffuse il principio dell’assistenza agli indigenti e ai malati.  L’idea di consenso come base di ogni democrazia.  La pratica del suffragio elettorale per eleggere i parlamenti.

Si cominciò a riconoscere l’identità femminile e il diritto al voto delle donne.

Molti paesi introdussero il divorzio che, implicitamente, trasformava il matrimonio da sacramento divino a semplice contratto tra un uomo e una donna. 

Si cominciò a riflettere sul controllo delle nascite.

Sono in buona sostanza temi che ancora oggi costituiscono (o, dovrebbero costituire) la spina dorsale delle democrazie occidentali.

Con il ventunesimo secolo, poi, i temi culturali che dominano il mondo sono ancora una volta cambiati radicalmente.

Oggi si parla di contemporaneità.
Secondo i sociologi e i politologi questa società contemporanea si caratterizza per almeno tre aspetti:

– Una spinta globale all’interconnessione attraverso dei sistemi di rete sempre più estesi all’intero pianeta.

– Una evoluzione degli stili di vita sempre più rapidi e profondi che sono, per la prima volta nella storia dell’uomo direttamente legati all’innovazione tecnologica.

– Una trasformazione dell’ambiente e dell’habitat di un’ampiezza senza precedenti dovuta a dei fattori evolutivi di natura sociale, culturale, economica e tecnologica.

Quello che più conta, poi, è un’altra cosa ancora.
Si stima che questi mutamenti siano di natura irreversibile e che coinvolgano direttamente tutti, sia pure in modi differenti, a partire dal quotidiano, cioè, dal nostro modo di concepire la convivenza umana. 


Alcune note sul concetto di cultura.

Prendiamo in considerazione adesso un concetto chiave degli studi sociologici, il concetto di cultura.

Prima di esaminarlo in dettaglio vediamo come l’UNESCO l’ha definita nella “Dichiarazione di Messico City” sulle politiche culturali del luglio-agosto 1982.
La cultura nel suo significato più ampio è considerata come l’insieme dei tratti distintivi, spirituali, materiali, intellettuali ed affettivi, che caratterizzano una società, un gruppo sociale o un individuo. 

Subordinata alla natura essa ingloba, oltre che l’ambiente, le arti e le lettere, i modi di vita, i diritti fondamentali dell’essere umano, i sistemi di valore, le tradizioni, le credenze (in buona sostanza le religioni) e le scienze.
Di fatto, a livello politico internazionale si volle riaffermare il principio che ogni società umana possiede una propria cultura, che si distingue dalle altre.

 

Questa cultura deve saper ammettere l’esistenza delle altre culture e al limite accoglierle.

 

In questo contesto, il multiculturalismo rappresenta l’espressione di una speranza, che le culture siano riconosciute, s’incontrino, si mescolino, si misurino e, soprattutto, si trasformino e si evolvano.
Quello che è problematico è che in questa fase della mondializzazione (globalizzazione) nessuno sa ancora dire se questa evoluzione si muove verso una maggiore diversità, verso delle nuove diversità o verso una omologazione più o meno importante di essa.

In ogni modo la definizione di cultura nelle scienze sociali è sempre stata al centro di dibattiti, di polemiche e di prese di posizioni politiche.

Il motivo è facile da comprendere, i suoi diversi significati non riflettono solo una diversa visione del concetto di cultura in sé, ma una differente valutazione della realtà sociale.
Al centro del significato di cultura ha poi, con il tempo, guadagnato importanza da una parte il concetto di vita corrente (vale a dire dei ruoli, delle aspettative, delle credenze, dei miti, dei riti e di tutte le pratiche che strutturano l’agire quotidiano), dall’altra, la sua natura di congegno cognitivo per dare un significato al mondo che abitiamo e farne emergere le identità che lo compongono, sia pure nelle loro diversità.
Gli sviluppi recenti degli studi sulla cultura hanno poi posto l’attenzione sui limiti delle definizioni di natura statica, perché se da una parte sono in grado di descriverla, dall’altra tendono ad acuire le differenze, facendo apparire le culture delle entità astratte, nelle quali risulta svalutato, in primo luogo, lo spazio delle autonomie individuali o delle subculture.
James Clifford, un antropologo americano della corrente definita de-costruttivista (insegna storia della conoscenza in California), ha introdotto, sulla scia di queste osservazioni, l’ipotesi che la cultura non è un bagaglio di modelli definiti, ma un insieme di possibilità e vincoli che strutturano la realtà in un processo dinamico, processo che si nutre di una continua ibridazione anche con le altre culture.

In sostanza si è passati da una visione di cultura come “roots” (radici) ad una come “routes” (percorsi).

 

Un’altra definizione di cultura, per molti versi simile a quella di Clifford, è quella elaborata dell’antropologo americano Clifford Geertz (1926-2006), il quale accomuna, per analogia, l’idea di cultura a una rete di significati che gli individui hanno creato e continuano incessantemente a ricreare in una continua metamorfosi.

Una rete nella quale essi sono allo stesso tempo i protagonisti e coloro che la subiscono.

In sostanza, la cultura è sempre stata al centro del discorso sociologico anche se l’interesse non è tanto verso la comparazione con le altre culture, ma piuttosto al ruolo che essa gioca all’interno del sistema sociale.

Un approccio critico alla cultura è quello rappresentato dalla Scuola di Francoforte (tra coloro che ne fecero parte ricordiamo perlomeno Adorno, Horkheimer e Marcuse) che ha elaborato i concetti di industria culturale e di cultura di massa.


La scuola di Francoforte rappresenta un gruppo di studiosi che indirizzarono i loro sforzi intellettuali, intorno agli anni Trenta, verso i temi della filosofia e della sociologia.  

Il luogo nel quale svilupparono le loro ricerche fu l’Istituto di ricerche sociali, con sede appunto a Francoforte.

Il tema principale, oggetto di studio dell’Istituto, fu la cosiddetta teoria critica della società.   

Questa espressione sta ad indicare l’elaborazione di una teoria tesa a criticare l’ideologia capitalistica, evidenziandone le falle interne con l’intento di offrire modelli d’interpretazione alternativi.

 

Theodor Adorno, come la maggior parte dei suoi colleghi, dovette abbandonare Francoforte in seguito alle politiche repressive naziste, per fuggire prima a Parigi e successivamente a New York. Assieme a Horkheimer scrisse il libro Dialettica dell’Illuminismo.  

 

Il pensiero sociologico che elaborò ruota attorno a tre punti:

– il concetto di razionalità strumentale, ovvero l’abuso interessato degli ideali illuministi da parte del capitalismo, con lo scopo di aumentare il consenso e il controllo sugli individui.

 

– l’industria culturale, cioè la sistematica opera di omologazione e appiattimento delle diversità tra gli individui al fine creare bisogni sempre più uguali, con l’aiuto determinante dei mass-media.

 

– il mito della personalità autoritaria, riprendendo le idee di Horkheimer, che dà alla famiglia una grande responsabilità nella creazione del consenso.

 

La Scuola di Francoforte focalizzò la sua attenzione sul concetto di industria culturale per indicare la produzione omologante di modelli culturali attraverso i media e l’industria che favorirebbero una cultura e una società massificata, ossia uniformata, senza stimoli, priva di creatività. 

Una cultura destinata a raggiungere il maggior numero di persone, e quindi funzionalmente omogeneizzante.

 

Pressappoco negli stessi anni, un’altra importante scuola di sociologia, quella di Chicago, partendo dall’analisi dei modelli culturali degli emigrati studiò i processi d’ibridazione culturale arrivando a mettere in luce la loro relativa dinamicità e autonomia nell’ambito di quel fenomeno che va sotto il nome di melting pot

 

La scuola dell’ecologia sociale urbana, meglio nota come Scuola di Chicago dalla sua sede, è stata la prima scuola di sociologia degli USA. 

La nascita ufficiale della scuola risale al 1924, quando Robert Park si insediò nel Dipartimento di sociologia dell’università.

 

Questa scuola da subito affrontò uno studio sistematico della città dal punto di vista sociologico attraverso la ricerca sul campo dei caratteri della società urbana.

 

In particolare Robert Park, studiò la diversa incidenza di fenomeni come la devianza, la criminalità, il divorzio, il suicidio tra le aree urbane e quelle rurali, arrivando a dimostrare che i rapporti sociali e culturali sono strettamente condizionati dall’ambiente di appartenenza.

 

Dagli anni venti fino alla fine degl’ anni trenta, la sociologia urbana fu prevalentemente sinonimo del lavoro della scuola di Chicago.

 

Nel secondo dopoguerra la sua attività accademica si è spesso mescolata con la politica, in particolare quella dei conservatori repubblicani.  Un fatto che ne ha offuscato la fama.  


In linea di massima dire che gli sviluppi più recenti della sociologia della cultura, in relazione soprattutto alle trasformazioni sociali, si concentrano oggi su due concetti fondamentali: globalizzazione e postmodernità, in un contesto nel quale la cultura viene concepita come una rete di significati continuamente riformulata dalle interazioni e dalle pratiche sociali.

Un altro approccio recente a questi temi è quello dell’analisi della cultura all’interno di quel fenomeno definito della post-modernità.

Tra gli autori più autorevoli c’è Zygmunt Bauman, un filosofo e sociologo polacco molto popolare per le sue tesi sulla società liquida, con le quali, come abbiamo già accennato, arriva a criticare la cultura contemporanea definendola asservita ai consumi e all’immagine/spettacolo.

Com’è facile intuire, ogni definizione di cultura riflette gli orientamenti e gli obiettivi di chi la propone, non è dunque un caso che siano un centinaio almeno quelle più conosciute.

Quello che è essenziale comprendere è che la cultura, essendo acquisita e non trasmessa biologicamente, non può essere ricondotta ad una base biologica o psicologica, così come non può essere considerata una semplice dimensione sociale.

Questo perché non è tanto la socialità che contraddistingue l’uomo, ma il fatto culturale in sé o, se si preferisce, la sociabilità, che possiamo definire come un’attitudine culturale a vivere in società.   

Con la sociabilità, soprattutto in etologia, si intende il modo con cui gli individui della stessa specie si organizzano in società e sviluppano la socialità.

 

Mentre la socializzazione è l’insieme dei processi grazie ai quali gli individui sono integrati nella società in modo tale da condividerne le norme e i valori.

 

In questa prospettiva l’acculturazione può anche essere definita un modo specifico dei processi di socializzazione.

La socializzazione, in realtà, è un fenomeno complesso che possiamo riassumere sottolineando il fatto che è un processo di apprendimento che permette agli individui di acquisire i modelli culturali della società nella quale vive.
Di per sé, poi, la socializzazione serve anche a definire l’insieme dei meccanismi attraverso i quali l’individuo interiorizza le norme e i valori del suo gruppo di appartenenza e costruisce la sua identità sociale.
Nelle scienze sociali si distingue tra una socializzazione primaria ed una secondaria.

La prima è quella che si elabora all’interno della famiglia, della scuola o con i mezzi di comunicazione.

La seconda è quella che si sviluppa a partire dalle grandi tappe della vita, matrimonio, nascite, lutti, eccetera.

La socializzazione è importante perché è profondamente legata sia con i processi d’interazione sociale, che con il fenomeno della riproduzione sociale.


La riproduzione sociale è quel meccanismo sociologico di mantenimento della posizione sociale e dei modi di agire, di pensare e di sentire di una famiglia o di un gruppo chiuso.

 

Un esempio può illustrarla meglio della definizione.   

I figli delle famiglie medio-basse hanno la tendenza a non intraprendere studi molto lunghi o costosi. 

Questo fenomeno (di riproduzione sociale) è determinato dalla ineguale ripartizione del capitale economico, culturale e sociale tra le classi. 

 

Di contro, le famiglie delle classi dominanti cercano di mantenere il loro posto nello spazio sociale e, di conseguenza, sono portate a usufruire dell’istruzione migliore o elitaria al fine di riprodurre e aumentare il loro capitale culturale. 


L’analisi del concetto di cultura, da un punto di vista storiografico, è stato nel corso del Novecento, in particolare tra gli anni ’30 e la fine della seconda guerra mondiale, uno dei dibattiti centrali delle scienze sociali.

Uno dei libri più interessanti di questo periodo è Patterns of Culture, edito nel 1934 e scritto da Ruth Benedict, un’antropologa americana, allieva di Franz Boas (1858-1942), un etnologo tedesco che lavorò anche negli Stati Uniti, e che, con Edward Burnett Tylor, è considerato uno dei fondatori della moderna antropologia culturale.

In sintesi, a quali conclusioni si arrivò in questi anni?
– che il comportamento culturale è determinato socialmente.   

 

– che la natura umana non stabilisce in modo univoco le risposte che l’uomo da ai propri bisogni. 

 

– che la cultura è costituita non tanto da comportamenti individuali, quanto da comportamenti di gruppo, per cui è essenziale, per le scienze sociali, analizzare la struttura e il processo di formazione di questi comportamenti. 

È in questo contesto che Ruth Benedict nel 1929 definì la cultura come quella “totalità che include tutti gli abiti o i comportamenti acquisiti dall’uomo in quanto membro della società.”

Apriamo una breve parentesi su alcune distinzioni che possiamo fare all’interno del termine cultura dal punto di vista delle sue configurazioni. 
La prima è quella che distingue tra cultura dominante, subcultura, controcultura

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Se intendiamo per cultura dominante la cultura egemone in un dato momento e in una data area, la subcultura è un aggregato tendenzialmente omogeneo di conoscenze, valori, credenze, stili di vita e modelli di vita capaci di contraddistinguere un gruppo sociale.

Fattori come la classe sociale, l’età, la provenienza etnica, la religione, la lingua, il luogo di residenza e perfino l’orientamento ideologico e politico possono, infatti, combinarsi tra di loro e creare identità culturali in grado di differenziarsi significativamente dalla cultura dominante. 

Gli studiosi delle subculture hanno notato che i membri di una subcultura tendono spesso a differenziarsi dal resto della società con uno stile di vita (che si manifesta nel modo di vestire, mangiare, celebrare le festività, i gerghi, ecc…) che possiede dei caratteri simbolici, alternativi a quelli dominanti

 

In questo senso lo studio delle subculture si rivolge allo studio dei simbolismi collegati a queste forme di espressione esteriore e sul modo di come queste vengono percepite dai membri della società dominante. 

Di fatto, tanto più una collettività è differenziata tanto più facilmente sarà possibile rintracciare al suo interno delle subculture che producono propri valori.
Tuttavia, più questi valori sviluppandosi si strutturano, più diventa problematico e complesso il fenomeno dell’integrazione sociale, in sostanza, lo sviluppo di una stabilità e di una convivenza pacifica. 

In Europa fino a qualche tempo fa si distinguevano principalmente due modelli d’integrazione sociale, quello francese, fondato sui principi laici dell’illuminismo, e quello inglese, basato sul rispetto formale delle differenze.

Negli Stati Uniti d’America, dove da molto tempo si sono mescolate subculture provenienti dalle più svariate parti del mondo come una conseguenza dei numerosi processi migratori che hanno interessato questa nazione, si definisce melting pot il fenomeno della convivenza che si è faticosamente realizzata.

Una convivenza con caratteri suoi propri, al tempo stesso fragili, funzionali e spesso contradditori.

Va notato che l’uso dell’espressione subcultura non implica necessariamente una situazione conflittuale con la cultura dominante.  Nel maggior numero dei casi ne rappresenta soltanto una variante o un elemento locale ereditato storicamente.

L’espressione di controcultura è, invece, più recente, indica una radicalizzazione delle diversità, essa va intesa come un rifiuto etico e comportamentale dell’insieme dei valori e delle norme dominanti.
Nella seconda metà del Novecento è stata soprattutto un fenomeno legato alla contestazione giovanile, oggi invece ha caratteri più ampi con compromissioni linguistiche, religiose, politiche, economiche, aggravato dal fenomeno della globalizzazione.

Un altro modo di dividere le varie componenti della cultura in sociologia è quello di distinguere tra cultura materiale e cultura non-materiale
La cultura materiale, in questo contesto, è la cultura delle cose, composta da oggetti, manufatti, prodotti diversi, merci, a cui si possono contrapporre i significati, i valori, i simboli, i linguaggi, e tutti quei prodotti umani non-materiali.

È una distinzione di comodo, perché sia le cose materiali che i valori immateriali hanno senso solo se è noto il significato culturale che viene loro attribuito. 

Consideriamo, ora, un compito importante che svolge la cultura dal punto di vista della sociologia: la funzione di mediazione.

Questo perché le forme espressive che attraverso il linguaggio e le forme della comunicazione si configurano come rappresentazioni della realtà, (siano esse rappresentazioni religiose, artistiche, scientifiche, filosofiche, giuridiche, o del comportamento) costituiscono altrettanti modi attraverso i quali l’individuo riesce a mediare il rapporto con se stesso, gli altri, il suo mondo e le cose.

Tecnicamente la mediazione è il processo con il quale il pensiero generalizza i dati dei sensi e estrae dalla conoscenza sensoriale ( che è una sorta di conoscenza immediata) una conoscenza astratta e intellettuale, che possiamo definire una conoscenza mediata. 
In questo senso la cultura ha una implicita e fondamentale funzione perché la mediazione s’impone agli uomini come il fondamento della prevedibilità sociale  

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Passiamo al tema delle strutture sociali.
L’importanza delle strutture sociali deriva dalla considerazione che non è possibile isolare una dimensione autonoma della soggettività come se fosse un’identità sociale.

Non è possibile perché gli attori sociali (individuali e collettivi) rappresentano, allo stesso tempo il motore e il prodotto che identificano queste strutture.

Nel loro significato sociologico il termine fu coniato da Herbert Spencer nel 1858.

Egli mise in luce il fatto che in una struttura sociale, le parti che la compongono s’identificano con le relazioni fra le persone e come, per conseguenza, l’insieme organizzato delle parti può essere inteso come una rappresentazione della società nel suo complesso. 

Spencer identificò poi nella durata una delle caratteristiche più importanti di una struttura sociale.
Vale a dire, tutte le strutture sociali hanno una vita più o meno lunga e, in genere, la loro durata depone a favore della loro importanza. 

Spencer si pose anche una domanda: Le strutture sociali si basano sul consenso o sulla coercizione

Da convinto funzionalista e liberista – la società era per lui un organismo vivente nel quale tutte le parti contribuiscono, nessuna esclusa, a mantenerlo in vita – per cui le strutture sociali non dovrebbero produrre conflitti e non dovrebbero fondarsi sulla coercizione.

Di diverso avviso, tra i suoi contemporanei, erano i movimenti politici d’ispirazione socialista, per i quali, invece, la società è l’esito di un perenne conflitto tra le classi. 

 

Oggi a questa domanda, se ne sovrappone un’altra: In che modo le strutture sociali sono in grado di favorire il mutamento sociale?

 

Una società che non muta, infatti, è una società che non cresce o cresce male e, così facendo, tende a ripiegarsi su se stessa o a implodere.

Va infatti tenuto presente che la società è condizionata dall’ambiente naturale e dalle forme di sociabilità che riesce a sviluppare. 

Di più, le sue strutture sociali sono condizionate anche dalla storia sociale dei suoi attori, siano essi gli individui che i gruppi o i collettivi. 

Va anche sottolineato che le strutture sociali dipendono in modo stretto dalla qualità dell’ambiente naturale nel quale si realizza lo sviluppo della società. 

È un tema che in passato e a diverso titolo è stato analizzato da molti autori, tra i quali Èmile Durkheim, Max Weber e Georg Simmel.

Diciamo che l’ambiente naturale è il complesso delle possibilità nei confronti delle quali si sviluppa l’azione degli uomini, sia come individui che intesi come gruppi agenti o comunità.

Come sappiamo per esperienza nulla di pre-definito è offerto dalla natura all’uomo.

C’è solo la sua capacità all’adattamento naturale e, a diferenza degli animali, le sue capacità di agire su di esso.
In breve, va considerato che le strutture pubbliche e politiche – che contribuisco a disegnare le forme urbane, i loro servizi e a tracciare le vie di comunicazione –  influiscono in maniera rilevante nel condizionare lo spazio sociale della persona, la sua libertà di scelta e di movimento e il suo grado d’interazione sociale.

 

Su questi temi, in questi ultimi anni e per le ragioni più diverse, si è diffusa una nuova sensibilità che ha per obiettivo l’equilibrio tra l’uomo e il mondo. 

 

Sensibilità che ha messo in luce la grande responsabilità dell’azione umana sia nella conservazione che nella distruzione dell’ambiente e del clima. 

 

Da qui la constatazione che l’adattamento non può essere all’insegna del mero sfruttamento della natura, ma deve tener conto del fatto che gli interessi dell’uomo non possono infliggere all’ambiente dei danni irreparabili o superiori ai vantaggi

 

Vediamo adesso qualcosa a proposito di un altro importante elemento che ci lega alla natura:

il tempo.

Il tempo rappresenta una delle dimensioni della realtà che abitiamo o, meglio, dello spazio sociale.
Di conseguenza, la temporalità, che determina ciò che è iscritto nel tempo, deve essere considerata come un carattere essenziale, costitutivo delle relazioni sociali.

Il tempo, in sostanza, è un’infrastruttura strategica dell’azione e dell’interazione sociale.   

Rappresenta e rende visibile il carattere processuale e storico di ogni attività umana, con una particolarità, drammatizzandola, perché il tempo è irreversibile.   

In sociologia, il primo a parlare di tempo sociale è stato Durkheim nel 1912.
Con questa espressione si sottolinea la dipendenza del tempo individuale da quello più ampio del gruppo o della comunità che funzionalmente lo comprende.

Ma, qual è la funzione del tempo sociale?
Attraverso la sua percezione gli uomini organizzano e scandiscono la loro vita privata e collettiva, di più, questa percezione ne assicura il suo coordinamento e la sua sincronizzazione

Nella ricerca sul tempo sociale una delle tecniche più utilizzate in sociologia è quella indicata con l’espressione di time-budget (bilancio del tempo).

Storicamente, questa tecnica fu inizialmente elaborata dalla sociologia sovietica per studiare le problematiche della vita quotidiana degli operai.

Oggi, invece, è adoperata per descrivere i modi e gli stili di vita e per disegnare le cosiddette mappe dei comportamenti abituali dal punto di vista dei consumi e dell’impiego del tempo libero. 

 

Attraverso il tempo o, meglio, attraverso l’esperienza del tempo, si stabilisce una continuità narrativa tra passato, presente e futuro. 

Come ha dimostrato Alfred Schütz, un importante filosofo e sociologo di lingua tedesca, il tempo è un fattore essenziale per la comprensione dell’agire umano.

Come tale costituisce una risorsa sociale, la cui disponibilità è diversa da individuo ad individuo e tra comunità e comunità.

Che cosa significa?
Che il tempo degli operai non è quello dei signori.
Che il tempo di una comunità di monaci non è quello di un collegio universitario o di una squadra di calcio.

Non è tutto.

Nella modernità il tempo è percepito anche come un bene economico, diversamente valutabile e valutato.

In questo senso Karl Marx lo definì come un’astrazione che possiede un valore materiale. 
In altri termini, il tempo, in quanto variabile economica dei processi di produzione, rappresenta un importante fattore nei processi di razionalizzazione della modernità, come l’esperienza digitale sta dimostrando. 

 

Ci sono altri temi sensibili intorno alla relazione ambiente, individuo, natura

 Uno di questi temi, che compare sempre più spesso nel capitolo dedicato alle condizioni dell’ambiente naturale, è la nozione di corpo.

Oggi la sociologia del corpo è una disciplina indirizzata soprattutto alla costruzione di modelli che interpretano il rapporto di reciproca determinazione tra la società (come l’insieme dei processi sociali) e la corporeità (come un’unità psicosomatica).

Due autori che si sono occupati in modo specifico del corpo sono Georg Simmel e Marcel Mauss.

Lo hanno fatto in una prospettiva culturalista, creando i presupposti di una vera e propria sociologia del corpo o delle culture corporee successivamente elaborata da una grande antropologa inglese Mary Douglas (1921-2007).

In seguito il corpo, come realtà fenomenologica, ha avuto un particolare rilievo nei lavori di Erving Goffman, Gregory Bateson e David Le Breton.

L’approccio in questi autori è essenzialmente di tipo strutturalista o, meglio, funzionalista.

Viceversa, l’analisi della relazione tra il vissuto, la corporeità e i processi socioculturali che lo riguardano è centrale negli studi di due sociologi di origine austriaca, Thomas Lukmann (il cui libro più famoso è La realtà come costruzione sociale del 1966) e Alfred Schütz. 

Sempre sul tema del corpo e di ciò che rappresenta, sia come elemento del mondo sensibile che espressione dell’individualità, ricordiamo due filosofi francesi, Jean-Paul Sartre e Maurice MerleauPonty, oltre che lo psichiatra inglese Roland Laing.

Infine, da un punto di vista gnoseologico, di grande importanza sono le riflessioni di altri due grandi pensatori francesi, George Bataille e Michel Foucault a cui dobbiamo la nozione di biopolitica.

 

 Per Foucault la biopolitica è il terreno sul quale agiscono le pratiche con le quali la rete dei poteri costituiti gestisce le discipline del corpo sia in senso individuale che collettivo.

È, nella sostanza, un’area d’incontro tra il potere e la sfera della vita.

Il corpo in molti di questi studi è inteso soprattutto come una macchina comunicativa.

Una macchina che si può costruire con l’attività fisica, si può modificare con una divisa, si può trasformare in un messaggio, con un tatuaggio.

Il discorso sul corpo si estende anche verso le cosiddette pratiche che hanno per tema la corporeità, perché non solo servono a delineare gli stili di vita, ma rappresentano un grosso risvolto economico, come sono le attività legate all’industria della cosmesi, alla chirurgia plastica, alle diete, all’abbigliamento, eccetera.

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Cambiamo argomento. 

Esaminiamo brevemente le istituzioni e le organizzazioni formali, vale a dire quei sistemi relativamente stabili di relazioni, retti da norme specifiche, che assolvono o dovrebbero assolvere a funzioni e interessi della vita sociale come tale.

In particolare le istituzioni materializzano o, meglio, rendono visibili i principi giuridici fondamentali della forma di Stato, identificandosi con gli organismi politico-costituzionali che ne sono l’espressione.  

Costituiscono delle istituzioni formali i parlamenti, le forze armate, i ministeri, le fondazioni, i tribunali, eccetera.

Le organizzazione formali hanno, invece, una natura più privatistica, come sono un’azienda, una squadra di calcio, un club, un’associazione di volontariato, un partito politico.

Ciò che contraddistingue sia le istituzioni che le organizzazioni formali è il carattere della stabilità.
Esse sono stabili nella misura in cui vengono codificate dagli usi, dal costume, dalle norme. 

Poi, a misura in cui sono stabili, tendono a caricarsi di valori immateriali, come per esempio il prestigio o l’affidabilità
Va osservato che le istituzioni e le organizzazioni formali sono profondamente intrecciate al meccanismo dell’interazione sociale.
Per definire l’interazione sociale occorre partire dall’esperienza che ognuno di noi ha della società.

Questa esperienza si materializza come l’insieme dei rapporti che intratteniamo a diverso titolo nel nostro habitat sociale.
Si tratta di un insieme di azioni e di reazioni  – da cui il termine interazione – mediante le quali gli individui entrano tra loro in contatto, comunicano, collaborano, giudicano.   

 

L’interazione sociale è, dunque, quella sequenza dinamica e mutevole di atti sociali fra individui o gruppi di individui che modificano le proprie azioni e reazioni in relazione alle azioni degli individui e dei gruppi con cui interagiscono. 

 

In pratica, può essere intesa come il luogo primario in cui si forma, si ratifica, si trasforma il legame sociale. 

Da questa definizione si comprende anche come l’interazione sociale determini l’ordine sociale.
Ordine che non si manterrebbe in equilibrio se non ci fosse, all’interno della società, una costante e spesso lunga e silenziosa ri-negoziazione dei suoi valori, delle sue norme, dei suoi saperi o delle sue credenze.

In questo contesto il tema dell’interazione è importante perché rappresenta il nodo intorno al quale si sviluppano e si strutturano gli studi del comportamento collettivo e individuale.
Questi studi, che confluiscono in quelle che si chiamano le microsociologie, hanno come argomento principale i cosiddetti rapporti face to face, cioè, i rapporti intersoggettivi. 

Diciamo che, per definizione, le microsociologie studiano soprattutto i legami sociali elementari.

Il primo che si rese conto dell’importanza di questi legami fu Georg Simmel, che studiò la rilevanza di alcuni micro-fenomeni sociali come sono i segreti, l’amicizia, l’ubbidienza, la lealtà, la fiducia.

Oggi le microsociologie hanno come campo di studi privilegiato i comportamenti, i ruoli, le interazioni sociali, i conflitti, le identità e il modo di formarsi dei processi decisionali individuali o dei piccoli gruppi.
Esamineremo meglio il tema delle microsociologie, parlando di Alfred Schütz (1899-1959), uno dei primi ricercatori che si pose il problema di indagare le relazioni tra gli individui, nell’ambito della vita quotidiana.

Schütz era nato in Austria, ma dovette emigrare in America a seguito delle leggi razziali tedesche dopo l’annessione al Terzo Reich e lì, anche per comprensebilibi motivi personali, si dedicò all’analisi del comportamento collettivo.

L’opera a cui facciamo riferimento uscì nel 1932, s’intitola La fenomenologia del mondo sociale, è uno studio nel quale, partendo dalle ricerche di Max Weber, vengono sviluppate le problematiche dell’agire sociale.

Schütz definì la vita quotidiana, come l’insieme di azioni, di rapporti, di conoscenze e di credenze all’interno della quale, per così dire, scorre ciò che definisce il vivere e segna, con l’esperienza, l’esistenza degli individui.   

Si tratta di quel insieme di relazioni che, il più delle volte, consideriamo o diamo per scontate.

Salutare un conoscente, prendere un appuntamento, uscire in compagnia di amici per una cena, telefonare per informarsi sulla salute di un parente ammalato, avvertire casa per un improvviso contrattempo, mettersi d’accordo per andare ad un concerto, eccetera.

Come Alfred Schütz dimostrò, questi rapporti costituiscono il cemento dell’esperienza sociale di cui cogliamo l’importanza soprattutto quando entrano in crisi o sono coinvolti in uno stato di eccezione, un incidente stradale, una grave malattia, un improvvisa nevicata, uno sciopero dei mezzi o, come furono per lui, le leggi sulla razza.     


Vediamo, in questa prospettiva, alcuni caratteri della vita quotidiana.   

Il primo di essi è la routine.

 

Costituisce il carattere più evidente della vita di tutti i giorni e, per molti versi, anche il più sorprendente quando lo si focalizza.

 

Questo carattere mette in luce la ripetitività e la prevedibilità delle azioni, dei comportamenti e dei pensieri

 

La prevedibilità, in particolare, agisce sul comportamento abbassando il livello d’interesse dell’osservatore e/o dell’attore sociale e, così agendo, in genere, tende a favorire un risparmio di energie.
Ma non è così semplice perché la  ripetizione e la prevedibilità dei comportamenti possono finire per stimolare risposte automatiche o stereotipate, che abbassano il nostro grado di attenzione verso ciò che ci circonda.   

Perché sono aspetti della vita corrente così importanti?

 

Perché quando ripetitività e prevedibilità finiscono per snaturare il tempo della vita quotidiana, siamo in presenza di vissuti che tendono inesorabilmente a deteriorarsi

 

O, come dicono i filosofi sociali, ci pongono davanti ad una alterazione del quiora che induce ad una sorta di smarrimento sociale e, spesso, nei casi più gravi, a forme di angoscia e di disagio psicologico.    

 

Questi processi interattivi generano anche un altro fenomeno, le tipizzazioni.   

 

La tipizzazione costituisce uno strumento di previsione del comportamento.

 

È come dire, capovolgendo un proverbio popolare, che l’abito, a dispetto del nostro senso critico, fa il monaco.

 

La tipizzazione può essere involontaria, ma il più delle volte è il risultato di una scelta consapevole tra i vari modelli di comportamento che l’esperienza sociale ci fornisce. 

 

Consapevole perché ciascuno di noi sa bene che ad ogni passo della nostra giornata come della nostra vita sociale siamo costantemente osservati, e inevitabilmente interpretati e giudicati.

 

Perché ciascuno di noi sa che gli altri reagiscono, nei nostri confronti, secondo il loro modo di essere. 

Un modo di essere che si esprime attraverso il loro modo di interpretare e vivere le situazioni sociali.    


Rientriamo in argomento.  Un altro aspetto importante dell’interazione sociale e il suo legame con i processi della rappresentazione
Gli individui non solo sono coscienti delle azioni e delle reazioni che questi processi comportano, ma, in genere, sono consapevoli anche dei loro effetti.  

Secondo Erving Goffman (1922-1982) a causa della consapevolezza, che gli individui hanno di influenzare con le proprie azioni l’opinione che gli altri danno della situazione alla quale essi stanno partecipando, questi stessi individui finiscono (inevitabilmente) per comportarsi come se recitassero una parte, come se fossero attori su un palcoscenico.  
Come se vivessero dentro una rappresentazione teatrale o uno spettacolo.   


Goffman è un sociologo di origine canadese, è vissuto negli Usa, ha studiato a Chicago. 

Lo ricordiamo perché a Chicago ha operato e opera, come abbiamo già visto, una delle scuole di sociologia urbana più prestigiose degli Stati Uniti.  


Uno degli scritti più importanti di questo studioso, uscito nel 1956, s’intitola, La vita quotidiana come rappresentazione.
Con questa opera, Goffman, introduce nella sociologia il concetto di prospettiva drammaturgica.

Il campo di ricerche del suo lavoro sono stati gli aspetti trascurati della vita quotidiana, quelli che appaiono banali, ma che nascondono in sé una forte carica recitativa ed emotiva. 
Sono aspetti della persona che, nelle società complesse, come quelle del mondo Occidentale, sono divenuti oscuri ed equivoci e che, sempre di più, vengono usati per offrire agli altri un’immagine in qualche modo valorizzata di noi stessi.

I sociologi americani definiscono queste situazioni face to face, per sottolineare il fatto che riflettono le piccole situazioni della vita di tutti i giorni.

Per analizzarle Goffman immaginò la vita quotidiana come se fosse un gioco di rappresentazioni.
Un gioco nel quale l’identità dell’individuo – che nella lingua inglese è definita con l’espressione

di selfcoincide di volta in volta con le maschere che costui indossa sul palcoscenico della vita corrente.


Esaminiamo più da vicino l’espressione di self con la quale la lingua inglese identifica l’identità dell’individuo nelle relazioni face to face

 

È un concetto molto usato anche in psicologia e in psicanalisi, da cui è stato mediato. 

Didier Anzieu (1923-1999,)un protagonista della psicoanalisi francese, scrisse, diversi anni fa, un libro divenuto un classico sui confini del self, intitolato, Le moipeau, (L’io-pelle) 1985. 

 

La nozione di self è importante per due motivi in particolare. 

 

Uno, perché gioca un ruolo decisivo nel rapporto che noi abbiamo con il nostro corpo e il corpo degli altri. 

Due, perché il self caratterizza anche il modo con cui percepiamo la sostanza corporale con la quale siamo fatti e che non si limita a un po’ d’acqua, di lipidi, di aminoacidi, eccetera. 

 

L’esperienza della vita quotidiana mostra come la percezione della nostra sostanza corporale cambia di contenuto davanti ai nostri occhi quando supera i limiti ( i confini) del self

 

In questo modo il self è divenuto un elemento importante per studiare sia il gusto e il disgusto e per il modo di percepire la prossimità con gli altri. 

 

Facciamo qualche esempio.

 

Noi non proviamo disgusto per la saliva che si trova nella nostra bocca, ma se la raccogliamo in un bicchiere molto difficilmente riusciremo a rimetterla in bocca e inghiottirla. 

 

Questo perché quando le nostre secrezioni superano (varcano) il limite, il confine del nostro

iopelle ci diventano estranee, e simmetricamente, quelle degli altri ci provocano disgusto più si avvicinano o minacciano di contaminarci, come nel caso di un commensale che durante una cena tra amici mette la sua forchetta nel nostro piatto senza chiederci il permesso per assaggiare la nostra pietanza.      

 

Si può dire che le viviamo in modo intrusivo e ci comportiamo come se dovessimo difenderci da esse. 

 

La stessa cosa si può dire per il sangue, a noi non da fastidio succhiare il sangue che esce da un dito che ci siamo feriti affettando del pane, ma se questo sangue lo raccogliamo con una garza, difficilmente avremmo poi il coraggio di succhiarla. 

 

Di contro, il self diventa tollerante con le relazioni di vicinanza derivate da un’attrazione emotiva

 

Non a caso nelle relazioni intime il self diventa spesso un acceleratore dell’intimità. 

Come avviene con la saliva del bambino che non è ripugnante agli occhi della madre, così come non lo sono le secrezioni dei nostri partner sessuali, ma che tornano ad esserlo se l’intimità viene spezzata da una separazione, da un litigio o da un fatto occasionale.

 

Con il self, tra l’altro, si possono spiegare anche molti dei meccanismi del feticismo, che trasformano la distanza e la familiarità degli oggetti che appartengono al soggetto amato.

 

In questo senso l’intimità come la tenerezza contaminano positivamente gli oggetti avvicinandoli a noi, facendoli diventare familiari, esattamente come il disgusto li allontana. 

 

L’identità soggettiva, poi, s’intreccia con un altro grande tema, quello della prossemica, intesa come quel capitolo della semiologia che studia il significato del comportamento umano (gesti, posizioni, distanze posture) dal punto di vista dei processi comunicativi. Una disciplina oggi fondamentale per il design.


Rientrando in argomento, la vita di tutti i giorni è analizzata da Goffmann come se si svolgesse su un palcoscenico sul quale si recita.

Una scena con i suoi attori, il suo pubblico, le sue quinte, dietro le quali spesso gli attori contraddicono quello che hanno detto davanti ai riflettori.
Una specie di scena dove gli individui si mettono in gioco, si presentano, si alleano, si scontrano s’ingannano, mostrano la loro capacità d’impersonare un ruolo, s’immergono o prendono le distanze dalle situazioni che vivono. 

 

Gli individui sono coscienti di recitare una parte sociale?

Per Goffman lo sono sempre, anche se non sempre ne sono totalmente consapevoli.  

In certe occasioni questa recitazione è assolutamente partecipata, in altre è una parte recitata mille volte, che diventa automatica, in altre ancora è recitata di malavoglia.

In questa situazione è importante considerare come l’Altro da noi o gli altri giudicano chi sta recitando. 

Questo perché, in base a come – chi sta giudicando – valuta la spontaneità, o se volete, l’abilità, o la qualità della recitazione dell’altro o degli altri suoi interlocutori, ne deduce delle conclusioni che, a sua volta, influenzeranno il suo modo di comportarsi.
Paradossalmente nella vita sociale è la buona recitazione che ci fa sembrare spontanei.

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Passiamo ora ad un altro argomento topico del discorso sociologico: i gruppi e l’analisi gruppale.
Il riconoscimento dell’importanza dello studio dei gruppi lo dobbiamo soprattutto ad uno psicanalista inglese, Wilfred Ruprecht Bion (1897-1979), che a sua volta lo riprese dagli studi di Maxwell Jones (1907-1990) sulle piccole comunità terapeutiche.

Da subito va detto che un gruppo non si riduce alla somma delle coscienze e delle volontà individuali che lo compongono, anzi, è più facile il contrario, che il gruppo trasformi l’individuo che ne fa parte.

In sociologia si definisce gruppo sociale un insieme di persone che entrano in qualche modo in rapporto reciproco, sulla base di valori o interessi comuni.

Oppure, in una forma più articolata:

Un gruppo è un insieme d’individui che interagiscono fra loro influenzandosi reciprocamente e che condividono, più o meno consapevolmente, interessi, scopi, caratteristiche e norme comportamentali. 

Che cosa distingue un gruppo da una folla o da una comunità di persone?
Il fatto che in una folla, in una comunità o, più in generale, in un’aggregazione di persone, come è, per esempio, un grande ufficio, una scuola, un quartiere, non esiste un’interazione diretta tra tutti gli individui, o, più semplicemente, questi individui non costituiscono un insieme organizzato.

Vediamo le tre caratteristiche che distinguono un gruppo.

– I membri del gruppo interagiscono tra di loro in modo strutturato, secondo le norme o i ruoli che il gruppo si è dato.
– I membri del gruppo hanno la coscienza di essere un gruppo o, meglio, maturano un sentimento di appartenenza al gruppo che, spesso, funziona da barriera nei confronti degli estranei.
– Il gruppo è percepito come un gruppo da parte di chi non ne fa parte.  Vale a dire, il gruppo ha un’identità esplicita e assolutamente percepibile dall’esterno.

Quanto ai gruppi in sé possiamo distinguerli in molti modi.
La classificazione più importante è quella tra gruppi primari e gruppi secondari
I gruppi primari sono anche detti piccoli gruppi.
Il loro carattere principale è la forte integrazione, tipica, per fare un esempio, delle famiglie o delle bande.
Per definizione i gruppi primari sono costituiti da pochi individui.
I gruppi secondari o grandi gruppi sono gruppi composti da un numero elevato di membri.
Sono gruppi nei quali le relazioni interpersonali appaiono neutre e, spesso, il rapporto tra il singolo e gli altri membri è di natura strumentale, cioè, funzionale ad uno scopo.

Le ricerche sul campo hanno dimostrato che appena il numero dei membri di un gruppo supera la mezza dozzina c’è una tendenza, che si può definire spontanea, alla formazione di sottogruppi, dove le affinità sono più forti.

Quando, poi, il numero dei membri di un gruppo supera la dozzina è molto probabile che al suo interno emerga un portavoce o che un membro lo coordini.
In altri termini si è constatato che in qualsiasi gruppo, prima o poi, emerge la figura di un leader.
La velocità con cui questa figura si forma è proporzionale alla grandezza del gruppo.
Più il gruppo e grande e prima si forma una leadership.  

Nella leadership si possono distinguono tre stili:
Quello autoritario, quello democratico e quello improntato al laissez-faire

Nel primo caso la struttura è molto gerarchica e si caratterizza per la direzione degli ordini che influenza il comportamento del gruppo, sempre dall’alto verso il basso.
Questi ordini, in genere, non sono mai messi in discussione, cioè, si subiscono.

La struttura dei gruppi che possiamo definire democratici è caratterizzata dal consenso della maggioranza, vale a dire da un’accettazione consensuale dei programmi del gruppo.

La leadership dei gruppi improntata al laissezfaire si caratterizza dalla mancanza di una vera dirigenza.  In questi gruppi la leadership si limita, in pratica, a far emergere e a gestire le iniziative dei sottogruppi.

Nelle forme di democrazia rappresentativa, come dovrebbero essere le democrazie moderne, una forma particolare di gruppo di una certa importanza è il gruppo di pressione.   

Questi gruppi sono anche detti gruppi d’interesse

In genere sono strutturati nella forma del collettivo che si mobilita per difendere specifici tornaconti, anche ideali, come sono i gruppi ambientalisti o i gruppi che difendono i diritti dei più deboli.

Quando i gruppi di pressione sono organizzati e la loro azione è diretta in modo specifico ad agire sui centri di potere, con lo scopo di influenzare pubblicamente determinate scelte politiche, economiche o etiche, si definiscono lobby.

Questi gruppi di pressione organizzati sono tipici dei paesi di lingua inglese, in cui la corruzione (sotterranea) è severamente sanzionata e le lobby sono, in qualche modo, istituzioni formali accettate, se non altro come un male minore che si vede e che si può contenere.

Il tema dei gruppi nelle scienze sociali è legato a un altro grande tema, quello delle gerarchie sociali.

Qui, non abbiamo il tempo per approfondire i motivi, oltre a quelli economici, per i quali  nelle società si formano le gerarchie, anche perché questo è più un argomento di antropologia e di teorie politiche che di sociologia.
Alla sociologia compete piuttosto lo studio della posizione sociale di un individuo o di un gruppo all’interno di un sistema di relazioni che formano la struttura sociale di una società.

A questo proposito nella società occidentale va costatato, a partire dalla seconda metà dell’800, una costante trasformazione dei ceti in classi
Questa metamorfosi costituisce uno degli effetti della rivoluzione industriale e delle forme di democrazia che in essa si sono sviluppate. 

 

La rivoluzione industriale, di fatto, contribuì a ridurre ogni differenza sociale ai soli fattori economici e all’effettivo controllo della ricchezza.

I suoi esiti sono ben visibili all’interno delle due classi che si affermarono come le sole classi protagoniste della storia della modernità, la borghesia e il proletariato.

Va però notato come, da alcuni decenni a questa parte, nei paesi dell’area temperata del pianeta, le classi si stanno disfacendo nella loro forma storica per ridisegnarsi su altri valori, come sono quelli della conoscenza e dell’accesso all’informazione e all’educazione. 


Il digital divide divario digitale è il divario esistente tra chi ha accesso effettivo alle tecnologie dell’informazione e chi ne è escluso in modo parziale o totale. I motivi dell’esclusione 

comprendono diverse variabili: condizioni economiche, livello d’istruzione, qualità delle infrastrutture, differenze di età o di sesso, appartenenza a gruppi etnici diversi, provenienza geografica. 

 

Oltre a indicare il divario nell’accesso reale alle tecnologie, la definizione include anche disparità nell’acquisizione di risorse o capacità necessarie a partecipare alla società dell’informazione. 

 

Il termine digital divide può essere utilizzato sia per riferirsi ad un divario esistente tra diverse persone, o gruppi sociali in una stessa area, che al divario esistente tra diverse regioni di uno stesso stato, o tra stati (o regioni del mondo) a livello globale.

 

Il termine è apparso per la prima volta all’inizio degli anni Novanta negli USA in alcuni studi che indicavano come il possesso d uni personal computer aumentasse in modo significativamente differente tra i gruppi etnici. 

Il concetto di divario digitale è poi entrato nell’uso comune quando il presidente americano Bill Clinton e il suo vice Al Gore lo utilizzarono durante un discorso tenuto nel 1996 a Knoxville, in Tennessee. 


A proposito di classi gli scenari della post-modernità daranno vita ad altre forme di conflitto tra le quali, di una certa importanza, saranno:

– quelle di natura generazionale che coinvolgeranno i nativi digitali contro gli anziani analogici.

– quelle tra i localismi e la globalizzazione.

– quelle legate all’equa re-distribuzione delle risorse naturali e al loro costo sociale, come da tempo è il caso del petrolio e di recente dell’acqua o del controllo climatico.   

A questo proposito ricordiamo che i paesi della fascia temperata del pianeta terra costituiscono un terzo della popolazione mondiale e consumano più di due terzi dell’energia totale prodotta.

In un rapporto ufficiale, del 2006, delle Nazioni Unite sulla distribuzione del benessere economico si afferma che l’uno per cento della popolazione mondiale detiene il quaranta per cento del patrimonio finanziario e immobiliare mondiale, mentre il cinquanta per cento della popolazione mondiale accede solo all’uno per cento della ricchezza planetaria.

È indubbio che, in questo scenario, uno degli obiettivi delle scienze sociali dovrebbe essere quello di contribuire a rielaborare degli stili di vita che consentano di riequilibrare questo stato di cose prima che sia troppo tardi.

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